Aveva sopportato abbastanza il signor Venanzio. La misura, ormai, era colma.
Basta! Basta! Basta! con questo mondo pazzo che va alla rovescia. Aveva, anzi, sopportato più del sopportabile. E, a dirla tutta, in quell’istante non riusciva proprio a capire come aveva fatto a soggiacere a tutto quanto fino a quel momento, e perché aveva resistito.
Lo stato di follia era sin troppo chiaro: soffrire per vivere; tendere di continuo e con sciagurata fermezza al contrario di ciò che potrebbe significare un minimo di genuino benessere o, per lo meno, giustificare il malessere. Ignorare, con ottusa coerenza, le poche cose serie del mondo. Testardamente, legare costringere imprigionare, con un sempre più puro distillato di futilità, le esistenze, per il vero, già mutate in vegetanze.
Ogni momento di pausa che avesse, malauguratamente, squarciato la quotidianità, con progressivo aumento di percezione della coscienza, costituiva per il signor Venanzio istante di sconcerto, smarrimento, vera e propria vertigine. Ed ecco che si sentiva precipitare dall'apparente stato di tranquillità che avrebbe, ragionevolmente, dovuto donargli la sua condizione di uomo sistemato ed arrivato.
Ad ogni modo, ne aveva abbastanza: basta! Era tempo, seppure forse in ritardo, di recuperare ciò che aveva da giovane intuito, da uomo pensato e sperimentato e, poi, ben ricoperto e nascosto sotto i pesanti tappeti dell’ordinarietà.
C'è qualcosa di molto serio nell'uomo, che all'uomo appartiene e che, di un grumo di cellule assurdo, fa proprio un uomo e non, per esempio, una giraffa o una biscia d'acqua dolce. E non è, in nessun modo, da vedersi in una noiosamente declamata superiorità dell'uomo sulla giraffa o sulla biscia che, ancorché oggigiorno difficilmente sostenibile con i tradizionali luoghi della superbia antropocentrica, è decisamente inaffermabile considerando l'incapacità umana alle ultime, o prime, enunciazioni.
Ma quel qualcosa di molto serio c'è, e sta in un consapevole non sapere, nel riconoscimento del mistero che si è.
Ora aspettava la morte il signor Venanzio. Ma non come tanti dicono d'aspettarla. Per lui era, la morte, l’unico pensiero: il pensiero che sottende tutti gli altri! Ultima ed unica reale novità nella sua vita. Ma questa novità, stavolta, l'avrebbe precorsa non lasciandosela nascondere, non facendosi sorprendere.
Potrebbe apparire paradossale parlare della morte nei termini di un evento imprevisto. Niente è più certo della morte è espressione d'uso proverbiale e, probabilmente, in una delle sue tante formulazioni possibili, antichissima. Ma, intanto, quest'unica cosa certa ce la trasciniamo dietro ben riposta tra le pieghe più nascoste del cervello, mai presente alla coscienza, se non in rarissimi momenti.
Il signor Venanzio, invece, aveva proprio deciso di vivere pensando alla morte, di non pensare ad altro cioè, che non fosse l'idea del proprio trapasso.
Vi sono molte cose che, pensate, vengono poi catalogate dalla mente ed accantonate negli scaffali meno accessibili dell’io. Pensieri, avvenimenti, sentimenti che abbiamo in noi, ma che non vivono con noi, o meglio, che noi non viviamo.
Il signor Venanzio si era ben accorto di questa stranezza: l'aveva misurata su se stesso. Quante volte s'era sorpreso ad agire, sentire, pensare in profonda contraddizione con il suo proprio bagaglio di idee, senza che questo gli provocasse sensi di fratture?! "Che stranezze" si era detto a volte e per un istante. Ma, altre volte, ne era rimasto turbato più a lungo, in uno stato di impotenza, di irresolutezza accidiosa.
Che cosa è giusto e cosa sbagliato quando ci si accorge che il pensiero non riesce proprio ad andare d'accordo con la vita; quando, provando sentimenti, prendendo decisioni ci si accorge di adagiarsi di continuo su ciò che si crede sentano gli altri, pensino gli altri? Che cosa è giusto e cosa sbagliato quando ci si scopre divisi tra ciò che si crede di pensare e ciò che si pensa veramente, come se avessimo pensieri da parata, da tirar lucidi nelle buone occasioni, e pensieri ordinari, veri attori della nostra vita (e che veramente poco hanno a che fare con la nostra volontà).
Il signor Venanzio aveva sentito letto studiato, ed infine creduto, che le fratture esistono tra l'ideale e il reale, tra il pensiero e l'azione, tra l'io e la massa. Fratture nette, queste, in relazione alle quali dà soddisfazione pensare di potere scegliere di stare dalla parte dell'ideale, del pensiero, dell'io; di potere stare dalla parte dell'essere, della coerenza, dell'integrità della persona; dalla parte del cambiamento, della profondità, dell'identità.
Ma le fratture non sono fuori e non sono altro da noi. Esse sono dentro e non sono qualità ma l’essenza, e non sono nette. La confusione è in noi, siamo noi, e non si decide di stare da una parte o dall'altra per combatterla una volta per tutte.
L'uomo non è una retta logico-cronologica a cui date certe premesse seguiranno infallibilmente determinate conseguenze. E questo non è, perché quelle premesse possono scivolare nelle caselle della memoria per essere rispolverate solo di tanto in tanto, pur mantenendo la convinzione di averne fatto il faro del vivere.
E non è certo l'ipocrisia che il signor Venanzio aveva scoperto. Essa nasce dalla volontà, maligna e civettuola, di dissimulare i propri sentimenti o intendimenti. Quello che aveva notato il signor Venanzio, invece, era come un camuffarsi e nascondersi dei pensieri, quasi autonomo, sganciato dal pensante. Come se, una volta pensate, certe cose, bisognasse, poi, difenderle accanitamente da se stessi. Come se esistesse un meccanismo di vita già regolato in noi, libero dalla nostra volontà, che lavora nell'ombra a diluire le conquiste della mente. Ci sono tante parole che sappiamo ripetere come lezioncine mandate a memoria, ma che non sono affatto al livello della nostra coscienza. Parole a cui crediamo di credere ma che non viviamo. Ci sono tante cose che ci procura benessere pensare di combattere, quando in realtà ne siamo complici. E ci sono tanti pensieri che, pur nati in noi e da noi, (come se esistesse uno strano istinto alla sopravvivenza media che ha sempre il sopravvento) non partecipano al nostro pensare quotidiano.
La morte è forse, tra questi pensieri, il più paradigmatico. Esso è in noi da subito, quasi sentimento innato. Ma vi sono incalcolabili livelli di coscienza a cui la morte può collocarsi. Dal semplice istinto di sopravvivenza alla considerazione religiosa di un mondo ultraterreno... E, tuttavia, resta singolare che, pur appartenendo, come evento ineludibile, a tutti gli uomini, sia tra i più incomunicabili, tra i più taciuti, tra i più solipsisticamente vissuti.
Il signor Venanzio aveva raggiunto il pensiero della morte come unica spiegazione della vita. Semplicemente: si nasce per morire, e null'altro. Non c'è da dire altro, non c'è da darsi altre spiegazioni, non c'è da cercare significati. Si può dire della morte: è terribile, è priva di senso, è dolorosa, è impensabile... ma non si può non riferire le stesse espressioni alla vita. Si vive per morire. E la relazione tra i due termini è strettissima, anche se l'uomo tende a dilatare a dismisura il primo per comprimere il secondo.
Non c'è senso nelle cose della vita e, proprio per questo, vi si può attribuire ogni senso. Questo, il signor Venanzio, con buona probabilità, lo pensò per la prima volta a vent'anni; e, magari, sulle prime, provò soddisfazione nel riuscire a produrre pensieri così lontani dalla banalità, così profondi, così "filosofici". E questi pensieri potevano, anche, di tanto in tanto, far bella mostra di sé, ma di certo la sua vita percorreva ben altri binari senza alcun accenno di deragliamento.
C'erano stati periodi in cui s'era impegnato a scoprire gli inganni del mondo, ma egli stesso di quegli inganni era vissuto. Aveva sempre pensato alle donne in relazione all'emancipazione, alla fine dei privilegi maschili. Eppure, che donna aveva preso in moglie? Una donna del suo paese, convinta della funzione guida dell'uomo, arrendevole, e sempre disposta a vedere la ragione dalla parte del suo uomo; una donna totalmente priva di autonomia, che usciva dalla tutela del padre per entrare in quella del marito. Una donna con la quale il signor Venanzio ebbe l'opportunità di recitare la parte del maestro, del sapiente e, soprattutto, la parte del buon marito dalla mentalità aperta, magnanimo e generoso, che tenta di spingere la moglie ad una vita moderna, senza costrizioni. E fu una bella soddisfazione per il signor Venanzio sentirsi in pace con i propri pensierucci progressisti, nella tranquillità più completa che gli offriva l'immobilità mentale della moglie.
E se avesse mai avuto bisogno di dimostrare ch'ella non era una sciocca, sarebbe bastato aprire un qualsiasi discorso importante e riempirle le orecchie di una certa dose di argomentazioni conseguenziali per sentirla dichiarare alla fine, dopo qualche intervento indotto da maieutica maestria, perentoriamente: "Hai proprio ragione, caro!"
E, per di più, che perfetta e felice combinazione di anime rappresentavano come coppia! Che straordinaria consonanza di spiriti avevano realizzato nello scegliersi!
Le cose non hanno alcun senso e, proprio per questo, si prestano a ricevere qualsiasi senso: il senso che più ci piace attribuire loro.
La moglie non aveva mai voluto lavorare, ed il signor Venanzio s'era dedicato al tema con doverosa passione, rilevando che era una scelta della sua donna e che, come tale, andava rispettata fino in fondo nello sforzo di comprenderne le motivazioni. Ma comprenderne le motivazioni veramente avrebbe voluto dire accorgersi che la moglie continuava a vivere un'adolescenza irrisolta, se non addirittura una fanciullezza senza approdo, per cui i suoi rapporti con la realtà si limitavano ai doveri circoscritti all'ambito familiare. E non c'erano incertezze nella sua vita, perché le regole erano poche e sicure.
Questo avrebbe voluto dire tentare di penetrare le reali motivazioni, ma il signor Venanzio non avrebbe mai potuto schierare argomentazioni tali tra i suoi più nobili pensieri da parata.
Diveniva, dunque, la scelta della moglie, ed in generale il suo atteggiamento verso il mondo, una libera, matura e consapevole decisione di dedicarsi ad una cosa piuttosto che ad un'altra, nel perseguimento della realizzazione piena della sua personalità.
Sin da giovanissimo una forte miopia aveva colpito i suoi occhi, e la miopia era stata la sua più sciagurata complice.
Ora egli aveva poco più di sessant'anni. Da più di trent'anni almeno il settanta per cento delle immagini della sua memoria era costituito da ombre che ormai avevano del tutto scalzato le poche figure nitide. Se, infatti, oggi, avesse ripensato ad una persona qualunque incontrata nella sua vita, il ricordo si sarebbe ricomposto in una voce ed un odore promananti da una massa più o meno bruna senza contorni su uno sfondo di chiaroscuri indeterminabili. Da più di trent'anni, infatti, aveva gradatamente preso l'abitudine di non indossare gli occhiali in molti momenti della giornata.
Tutto aveva avuto inizio con una specie di vezzo. Si toglieva gli occhiali quando si trovava in situazioni noiose o fastidiose, sperimentando ciò che chissà quante persone vorrebbero avere la facoltà di fare in circostanze diffìcili: allontanare tutto da sé, sparire o fare sparire gli altri. E togliersi gli occhiali significava, per il signor Venanzio, esattamente questo: calare tra sé e gli altri un velo di fumo, uno schermo opaco che ristabilisse distanze adeguate, nei momenti in cui sentiva di stare subendo violenza dall'esterno. L'impossibiltà di distinguere anche il più marcato dei contomi, gli offriva immediatamente la rassicurante sensazione d'essere tornato in sé, protetto. Annullare il fuori da sé equivaleva ad autoannularsi nella contingenza. Scompariva il mondo, il signor Venanzio scompariva al mondo.
Prese, poi, una vera e propria abitudine. Il pomeriggio, ridestatosi dall'usuale pennichella, prendeva gli occhiali sul comodino, li infilava nel taschino della giacca del pigiama, si sedeva in soggiorno e sorbiva, così, il caffè, immerso nelle ombre rumorose della moglie che lavava le stoviglie e rassettava la cucina. Svegliarsi dal morbido sonno pomeridiano e venire catapultato con violenza nel mondo che di lì a mezz'ora lo aspettava in ufficio era stato, per quasi un anno di matrimonio, un'esperienza traumatica. La moglie pareva non accorgersi di lui, sembrava non rispettare in alcun modo lo straniamento di chi si ridesti con difficoltà. E, a volte, gli sottoponeva quesiti non appena lo vedeva apparire nel soggiorno, quasi che essere in piedi autorizzasse ad importunarlo.
D'altronde, il rituale del caffè e della prima sigaretta pomeridiani era sempre stato per lui fondamentale per lo svolgimento sereno della seconda parte della giornata, anche più della colazione mattutina, che pure rappresentava un momento molto delicato. Ma, mentre la mattina il signor Venanzio si sentiva in anticipo sul mondo che, quando egli era perfettamente lavato e vestito e pronto per uscire di casa, cominciava a dare i primi incerti segni di risveglio, il pomeriggio gli pareva che tutto intorno lo redarguisse per quella sua abitudine paesana. La città non si ferma dalle quattordici alle sedici, ed era come se ogni giorno egli perdesse qualcosa della vita.
Risvegliandosi, pian piano nelle ombre, aveva l'opportunità di ristabilire gradualmente i rapporti con l'agitazione.
Questa sua consuetudine pomeridiana, con la nascita della prima figlia, si trasformò. La bimba piangeva e strillava di notte e di giorno. Non era questione di amore, ma i nervi del signor Venanzio non reggevano dopo il baccano della strada e dell'ufficio anche questa tortura. Così, rincasando, non appena si aprivano le porte scorrevoli dell'ascensore, si toglieva gli occhiali e li riponeva nel taschino della giacca. La morbida discrezione delle ombre! Poteva entrare in casa, ma ormai era dentro di sé, impermeabile ai fastidi.
Strano a dirsi, eppure non vedere, nel caso del signor Venanzio, non aveva prodotto maggiore acutezza e sensibilità degli altri organi di senso; anzi, al contrario, non distinguere le figure comportava come un ottundimento anche dell'udito. Per dire meglio, tutti i rumori più fastidiosi non risultavano più collegati ad un dover fare, ad un dover preoccuparsi o, peggio, ad un dover sopportare, ma potevano essere ricondotti ad una fonte immaginaria. Uno strillo della figlia, poteva deformarsi nello squillo di una tromba, ed il signor Venanzio si trasferiva in teatro: il concerto andava ad iniziare. Ogni altro rumore che fosse seguito allo strillo della bimba, sarebbe stato il seguito della partitura eseguito dallo strumento più conveniente di questa stramba orchestra. Un oggetto caduto al piano di sopra, ed ecco i timpani che intervenivano nel tessuto musicale. La moglie diceva qualcosa: dal palco affianco giungevano bisbiglii fastidiosi ma pur sempre di teatro. Una porta sbattuta: il direttore d'orchestra, nella foga, dava una pedata che, come cupo boato, percorreva la schiena del pubblico, e ci stava bene, rianimava l'orchestra che si allungava adagio sul tema d'un pianto sommesso, a singhiozzi, spezzato, poi continuo cantilenante.
Ma il gioco poteva essere un altro, a seconda dell'umore del signor Venanzio. Lo strillo era lo stridere di parti meccaniche in frizione, e di rumore in rumore seguivano ingranaggi sempre più complessi d'un macchinario impressionante: rotelle, cinghie di trasmissione, pistoni, gangli, accrocchi, giunti, snodi. Ogni pezzo a produrre un suo suono nella furia metallica dell'abnorme motore insensato.
La vita familiare si era trasformata in una smemorata fantasia continua di giochi diversi in cui il signor Venanzio s'immergeva e si perdeva. Era sempre più fuori da ogni tipo di attività casalinga. Alla moglie aveva spiegato che accusava, da qualche tempo, una certa stanchezza agli occhi, per la quale riusciva a provare un qualche sollievo solo non usando gli occhiali.
Ora, tutti gli inganni della vita, compreso l'autoinganno che aveva rappresentato la scelta della moglie, erano presenti, chiari e disvelati, nel pensiero della morte. Che significato poteva avere tutto questo prendersi in giro di fronte alla serietà della morte?
Poteva significare un sopravvivere decente? Ma cosa può mai esservi di decente nell'oltraggiare sé e gli altri in un giuoco di false verità, di menzogne comode, di viltà meschine?
Poteva significare un sopravvivere sopportabile? Ed è sopportabile un'esistenza traballante su illusioni, ed il continuo scavo sotterraneo di una coscienza non del tutto ottusa?
E, più di tutto, la vita accettata nel suo lento scivolamento aveva mostrato al signor Venanzio come potesse divenire sempre più insostenibile ed inguardabile con l'accumularsi di mistificazioni asfissianti.
E sì, perché l'autoinganno può essere comodo sulle brevi distanze, allorquando si corre e non si può assolutamente perdere tempo, allorquando si devono fuggire paure ed incertezze, piuttosto che analizzarle capirle dissolverle. Ma, alla lunga, per questa ben misera tranquillità, si paga un prezzo assai elevato: il prezzo dell'errore che ci si pianta davanti all'improvviso a chiedere conto della sua esistenza. E possiamo, certo, far finta d'ignorarlo innescando un processo all'accumulo fino al momento in cui l'errore sarà divenuto così articolato e pervasivo da non lasciarci più alcuna via di scampo. Non vi sarà allora alcun rimedio, se non quello d'aspettare la morte nella consapevolezza di aver tutto sbagliato forse, di non aver fatto comunque alcunché che avesse un senso, di aver agito tutt'al più contro qualcuno e contro se stessi.
Questo era, pressappoco, lo stato d'animo del signor Venanzio. Dopo anni in cui s'era lasciato schiaffeggiare dalla vita, distrattamente, chiudendo gli occhi, meccanicamente, nel momento del dolore.
Ora, non avrebbe permesso all'ultimo oltraggio di giungere improvviso.
E… un giorno decise.
Sul balcone del suo studio all'ottavo piano: la città davanti, nella grigia luce del tramonto. In fondo: ultime violaceosporche pennellate del crepuscolo. Sopra: forme sfilacciate di nuvole bluastre.
L’incendio del cielo non si tradusse nella rassegnata fine di un giorno. Le lame di fuoco delle nubi, sull’orizzonte stremato dall’ultimo sforzo, gli sarebbero piaciute in circostanze diverse. Ma le circostanze non erano diverse, erano proprio quelle che lui, ormai, aveva determinato.
Di fronte all’irrevocabile, quel cielo era l’ultimo cielo e non poteva promettere altro.
Aveva scritto qualcosa e tra le mani aveva ancora quel foglio. Forse chiarire, un estremo tentativo di capire quel che ormai non era più ragionamento né decisione, ma limpida determinazione necessaria. Eppure, l’ansia di dare un nome alle cose, evidentemente c’era ancora: etichettare ed immagazzinare. La salvifica ed ambigua consolatoria forza delle parole, nel monocolore senza senso della vita. Tracce ardimentosamente rettilinee gettate sulla impenetrabile circolarità del tutto. Smania di significato che crea sventure e rende intollerabile il perfettamente ovvio.
Mi è capitato di leggere molto. E forse ho finito per vivere al di fuori della vita. Forse ho vissuto in una dimensione nascosta, più profonda, forse più vera. Forse ho vissuto su una pagina scritta, forse su una pagina bianca. In attesa. Ma io non ebbi mai nulla da scrivervi. E forse, più semplicemente, ho vissuto la storia di qualcun altro... o di molti altri. Saltando spazi bianchi, respirando inchiostro... Come vivere tra i fotogrammi delle pellicole o mischiandosi alle foto dei giornaletti o interiorizzando le fulminee esistenze pubblicitarie. Tutto sta a prendere una via più o meno indotta. Io avrò iniziato male... o bene: non saprei proprio dirlo. E proprio non saprei se male e bene significhino qualcosa E’ andata così: ho avuto voglia di conoscere l’uomo e la sua antica grandezza. Ho avuto fame di pensieri ed ho mangiato parole: la voce dei "maestri dell'umanità". Ho interrogato quei "grandi che hanno lasciato qualcosa". E cosa mai può essere questo qualcosa? Mah, vediamo... E perché poi lo avrebbero lasciato? Capiremo... E invece non l'ho capito. Non ho capito nulla. Quella voce parlava dalle profondità del tempo umano. E mi guardava con occhi spenti e devastati dal futuro; occhi gonfi, di piombo, di pianto che non viene, di dolore troppo amaro e secco che non tracima: un dolore che non può essere liquido ed è solo polvere che investe pietrificando ogni palpito di vita. Ho assorbito tanto ma non ho capito nulla. E così non resisto. (E' atto di viltà? Ed è forse coraggio non guardare? E' forse coraggio non sapere?) Io non resisto e mi congedo, e nella polvere disperderò senza rabbia il mio nonsenso. Sono stato vigliacco finora? Non credo. Non c'è qui e oggi possibilità d'eroismo. E se non c'è eroismo non può esservi vigliaccheria. Uccidersi è per alcuni un atto di coraggio, per altri di viltà. Non si concepisce come scelta. Non si accetta... e non si potrebbe... Accettare il suicidio come scelta sarebbe come accogliere l'idea di un'altra possibilità e quindi tollerare l'ipotesi della vita come sbaglio. Non è ammissibile... mettere in dubbio sforzi accaniti, dolori, travagli millenari... Ed io forse soggiaccio ancora a questo schema e sento la morte come tragica cosa ed il suicidio come scelta estrema: o troppo nobile o troppo vile.
Spiegava qualcosa quel foglio? Aggiungeva, toglieva significati? Anche ai suoi occhi le sue parole mutavano continuamente. Le sue parole, poi… Sue in che senso? Le parole non erano sue, le parole non appartengono ad alcuno. Scatole anch’esse, in cui può esservi tutto ed il suo contrario. Il coraggio di cui aveva scritto: parola vuota forse più di altre, ombra buona per l’inganno nella Las Vegas del vivere. Ed il suicidio: perché provava a spiegarlo? Non era la negazione radicale di ogni spiegazione possibile? Il silenzio avrebbe dovuto avere la meglio: il suicidio delle parole. Quelle righe erano state scritte con e per la stessa risibile presunzione che aveva rilevato nei "maestri dell'umanità" (perché, se non per vanità, avevano lasciato traccia di sé?). Quella superbia, attentamente nascosta, che porta a credere che il proprio pensiero non possa disperdersi nel gran mare del tempo, nell'incomprensibile scorrere della vita. Ma, a quel punto, quel foglio era pari ad un non foglio. Avrebbe potuto stracciarlo o abbandonarlo sulla scrivania o gettarlo nel cestino, lasciarlo in terra sul balcone, farne una palla e tirarla sulla città. Ma che quel foglio fosse o non fosse era lo stesso. Che quelle parole fossero quelle e non altre era lo stesso. Che lui stesse per fare quello che stava per fare e non altro era lo stesso. Piegò il foglio in quattro e lo infilò nella tasca della giacca. Sarebbe stato, comunque, lo stesso.
Aveva organizzato il pomeriggio in modo tale che nessuno certamente l'avrebbe disturbato.
E non c'era fretta.
Fumava e guardava la città illuminata e viva. Avrebbe voluto essere assolutamente passivo, avrebbe voluto soltanto percepire tutto quello che gli stava intorno. L’ultima impressione, come il più intenso respiro. Che lui fosse stato o non fosse stato era, senz’altro, lo stesso.
Quella città, quell'aria, quel cielo, quel vivere e fare giù nel viale gli piaceva, ne era affezionato. Era affezionato a quella città, a quelle case, a quelle luci. Affetto genuino, non c'è da dubitarne. Era nato lì, aveva dovuto studiare lì ed aveva trovato lavoro lì. E la moglie, forse non amava la moglie? Ma perché, se non per un caso, aveva incontrato lei e non un'altra, e perché l'amava se non per l'abitudine di stare con lei? Amore, affezione, attaccamento, dipendenza. La moglie intendeva il mondo e la vita in un modo che lui non accettava e che, anzi, lo nauseava. Ma provava un profondo affetto per lei, nato semplicemente dallo stare insieme. Questa era stata una delle catene più insopportabili della sua vita: quando aveva analizzato la cosa con freddezza, l'aveva pienamente compresa, ma non era in grado di far nulla perché, a quel punto, nessuna soluzione sarebbe stata praticabile se non strappando dalla propria mente e dalla propria anima tutti i più fini e sensibili legamenti che lo univano a quell'altra esistenza. E sarebbe stato un aggiungere dolore a dolore. Capiva perfettamente la ragione della propria insoddisfazione. Ma quell'affetto, quell'abitudine gli impedivano di scegliere. Era la stessa cosa con quelle case, con quella città, con quel cielo e con la vita. Esisteva un sentimento forte, un legame, un laccio, un vincolo; ma il tormento stava per liberarlo.
Un ragno saliscendeva appeso al suo filo da uno dei ferri del balcone. Stava sospeso, così piccolo come era, nel vuoto di otto piani e non dava ad intendere di esserne turbato, anzi, faceva un su e giù come stesse giocando.
Chi obbligava quel ragno a stare lì? L'unico obbligo era d'essere ragno, ma per il resto se la godeva in completa libertà, del tutto incurante di quella che, per le sue dimensioni, doveva essere un'altezza spaventosa.
La città: uomini intelligenti capaci, eretti su due zampe, di guardare più lontano di tutti gli esseri viventi, capaci di creare ragnatele ben più ampie, ben più solide, ben più durature di quelle così inconsistenti di quel ragno. Ed era proprio quella la differenza sostanziale ed insostenibile: il sogno dell'eternità aveva gettato le sue catene nel futuro e continuava a farlo: l'umanità s'irretiva irrimediabilmente avvitandosi su se stessa, lanciando di tanto in tanto ululati di terrore (sporadici, quasi totalmente inascoltati), di continuo costruendo ancore, funi, corde, ceppi, cinture, gioghi. Per rinsaldarsi al ventre della terra, per imputridire in essa.
Quel ragno, invece, tesseva la sua tela invisibile, quasi immaginaria, come nell'illusione del mimo, e ci camminava sopra che a vederlo pareva sospeso nell'aria.
Bello guardare quel ragno. Nel momento che precedeva la liberazione, quell'essere piccolissimo poteva catturare la sua attenzione e dargli l'ultima conferma. Eppure, quel tranquillo stare lì nel vuoto, in quel vuoto che per lui significava morte; quel quasi divertito giocare sull'orlo di quello che per lui era il luogo definitivo; quel galleggiare sull'aria, quell'aria che lui avrebbe attraversato con impetuosa pesantezza, lo irritò in un’ultima esplosione di umana stupidità. Prese il ragno con maligna delicatezza e se lo posò su una spalla. Tolse gli occhiali e li ripose nel taschino della giacca, ma in quel momento era davvero lo stesso che tenerli: il freddo rumore buio della sera non avrebbe potuto essere più buio e non avrebbe potuto essere più freddo. Scavalcò il parapetto sentendo le mani raggelate di sudore e si abbandonò all'abbraccio del vento.
Muro d'aria sul volto, il cuore fermo, urlo in gola che non esce, respiro bloccato, terra che non arriva, torace compresso; rumore sordo, bruciore forte, lampo di rosso dolore. Schizzi di animale materia; naturale materia; terra ormai; argilla disseccata dall’avido soffio solare.
-Dio mio!...
-Ma chi è?...
-Che cosa? Ma che succede? Nooo!... Ma perché?...
-Gettato?!
-Morto?...
-Caduto!
-Cosa?!
-Ma come?!
-Ma chi?
-Perché?...
-Oh dio, è l'avvocato...
-Ma chi?...
-Chiamate un'ambulanza!...
-L’avvocato chi?
-L’avvocato: il signor Venanzio!
-Quello del... che?... Un’ambulanza, un’ambulanza... Qualcuno...
-Eh? Ma no, non serve...
-Come non serve?!
-Cosa vuole che possa…
-La polizia piuttosto... chiamate la polizia...
-E i pompieri, i pompieri per pulire...
Il rosso e l’azzurro dei lampeggianti rimbalzavano inseguendosi sulle facciate delle case, schizzando negli occhi della folla affaccendata, mentre un ragno camminava sulla schiena di un corpo sfatto e inutile che bloccava il traffico e sporcava le strade.
donato pistone (29 marzo 2009)
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