lunedì 26 dicembre 2011

La solitudine delle parole

-Signor Savino...
-Signor Mario, signor Mario carissimo... Si segga, la prego, si segga. Ha visto che giornata?
-Eccoci qua… Come vanno le cose, eh, signor Savino? Sempre allegro voi… E chi v’ammazza!
-Che sole, oggi, che aria…, signor Mario, lo sente l’odore dell’aria?
Silenzio. Rumore di pietrina sfregata in un accendino, una due, tre volte… Silenzio… Fumo.
-Ancora fuma, amico mio?...
-Eh, signor Savino... una cosa per volta! Non siete mai contento, voi!
I due sorridono, guardano davanti a loro. I giardini pubblici sono ancora umidi di notte, le automobili rare sulle strade. Si sentono gli uccelli nell’aria che oggi ha davvero un nuovo odore.
-Va sempre a farsi l'iniezione, però?
-Puntualissimo, mi vedete, come un orologio. Alle otto sono già qui… dove state sempre pure voi. Il tempo di una cicca, la confessione con vostra santità, così m’aggiusto un poco pure l’anima… Eh? Che non si sa mai. Dico bene? Ridete… E voi ridete sempre! Comunque, alle otto e venti sono di fronte a prendere l'autobus: di fronte, oltre i giardini, sullo stradone. Eh, lì, troppo lontano per voi, non mi vedete più. Immaginatemi, signor Savino, immaginatemi: l’uomo dell’autobus delle otto e venti che va all’ospedale. Alle otto e quarantacinque sono con un ago nel braccio, e alle nove sono di nuovo libero, libero di non bere, libero di non farmi del male. Come piace a voi, signor Savino, pieno di libertà di fare tutto ciò che non mi va. E’ così, signor Savino? E’ così che vi piace? Tutte personcine per bene, che devono fare quello che non vogliono fare, che devono, devono sempre, ora per un motivo ora per un altro. Eh, lo so che voi c’avete in testa questa cosa… E voi siete contento, signor Savino. Siete contento che io sia l’uomo dell’autobus della mattina che va all’ospedale. Lo vedo che siete contento. Lo so che a voi il mondo piace così, così come ve lo siete costruito in testa. Comunque, lo sapete, per me è lo stesso. Ridete, ridete pure, che fa buon sangue! L’uomo dell’autobus… così come per quei medicastri sarò soltanto l’uomo – no, anzi, che uomo! – quello della terapia ics… Che, poi, funzionerà?...
-Ma sì, signor Mario, che le fa bene. I medici, se lei ci pensa, sono come una mano di Dio. Una mano che arriva in soccorso quando la nostra parte meccanica, per una ragione o per un’altra, s’inceppa. Caro amico, non dimentichi che nulla avviene al di fuori della Sua volontà. I medici... un’intera categoria di uomini che dedicano la loro vita a tutti noi…
-Eh, questa è un’altra vostra bella fantasia… Ma lo so e, ve l’ho detto altre volte, non vi contesto: il mondo, ognuno si crea il suo, quello che si può creare… Beato quello che gli riesce di crearselo più bello…
-Ma no, Mario, dico sul serio, non scherzi sempre. Ci pensi: stare sempre lì tra mille sofferenze, ogni giorno tra gente avvilita dalle malattie? Tanti che perdono tutte le forze e si rassegnano. E c'è sempre, lì, pronto il medico che sa quel che c’è da fare; che ha una parola di conforto, la parola giusta. E vuole, amico mio, che quella parola, che arriva proprio quando ci vuole, non sia suggerita da Lui che ci conosce tutti dentro dentro, e ci ama? Tutto è voluto da Dio, amico mio, tutto è voluto da lui solo perché ci ama. Non l'ha voluta Lui la nostra amicizia? Non li ha voluti Lui i nostri incontri, qui, per parlare tutte le mattine? E con queste quattro parole, qui, ogni mattina, ci facciamo tanto bene... Lo so anch’io: siamo diversi. Bene: è la varietà la grande forza della natura. Lei mi contraddice, si diverte a dire l’opposto, ma in fondo siamo come atleti di una staffetta… Sono semplici le cose che ci fanno bene. Sono poche e semplici. Tutto il resto è complicazione. Anche se lei vuole fare il duro e non lo vuole ammettere. Su via, amico caro, gioisca con me per questo sole, per la nostra amicizia, per tutto questo che abbiamo attorno!... Ma quanto fumo, signor Mario… Ma com’è che il fumo delle sue sigarette è così forte… e nero… Non mi ricordo che mi abbia mai dato fastidio, ma quando fuma lei mi sembra di soffocare io…
-Eh sì, sì, signor Savino, io gioisco, gioisco, ma lasciatemi ‘sto braccio, lasciatemi fumare... Voi, se non toccate, non siete contento… eheeee...
Esplode una risata sottile che attraversa la mente del signor Savino Menichella come una fascia ondulata viola, viola brillante, in mezzo al fumo di tabacco. Allegria. Fumo di sigaretta ancora… Due colpi di tosse… Poi fumo, fumo denso e acre e una cicca che salta nell’aiuola di fronte.
-Be', signor Savino, il vostro avere ve l’ho dato pure oggi e, con tutto il cuore vi auguro, come sempre, che vi prenda un …... prima che prenda me. Vi assicuro, signor Savino, ve lo auguro di cuore, di cuore! Così, andate a trovare pure voi i vostri cari amici medici. Eheeee...
-La saluto, la saluto, signor Mario… Che caro signore il signor Mario. Mio Dio ti ringrazio perché mi hai voluto premiare con questo amico, questo amico delle prime ore del giorno. E' tutto così bello attraverso i tuoi occhi, Signore mio. E quell'onda viola squillante... Quanta allegria nella tua luce, mio buon Gesù, quanta allegria...
Il signor Savino ringrazia il suo dio per questa nuova giornata. Offre il viso al sole di primavera che si va alzando sempre più caldo. Si accarezza le mani, che un poco si scaldano, e con queste le ginocchia. Sorride, continuando a pensare a Mario. Fa il sarcastico e bastian contrario, ma, intanto, tutte le mattine non manca di passare a salutarlo.

-Buongiorno. - Voce di donna matura da un’ombra marrone e massiccia che s’avvicina. - Posso?
-Ma certo... Buongiorno... Prego... In due... si sta comodi...
-Eh... già... Grazie... Grazie... Uno spazietto, non ho bisogno di altro... Grazie.
Un profumo dolciastro, un caschetto di capelli che si spostano di qua e di là tutti insieme scattando nell’aria, vibrando di movimenti nervosi. E tutta la panchina sussulta e trema.
Apre la borsa, di quelle ampie, v’immerge le due braccia sino ai gomiti, rovista per qualche istante, di tratto in tratto chinando la testa come a guardare meglio per trovare un oggetto sfuggente al tatto, ne estrae finalmente un fascio di carte. Richiude la borsa, la sistema a fianco per benino vicino vicino, dispone le carte sulle ginocchia, inizia a scartabellare. La panchina continua a tremare.
-Cara signora...
-Prego!?
-No, signora, la prego, non fraintenda i miei modi. La prego, non abbia diffidenza... sono un povero vecchio... Valuti questo: non potrei certo farle del male neppure se volessi. La prego, mi permetta di rassicurarla. Io, sa, vivo qui... sto sempre in questi giardini per parlare con... con chiunque incontri, con chiunque il Signore decida di farmi incontrare. Per fare amicizia, per offrire, a chi vuol sentirla, la mia esperienza o per ascoltare chi ha da dire, chi cerca un orecchio…
-Oh, mi scusi lei, signore. Ma sa... così... al giorno d'oggi...
-Ah, cara signora, io sono stato in campo di concentramento e, vede, le dico: chi ha vissuto in quelle condizioni non può fare del male. Chi ha passato quelle cose lì è un po' come fuori dal mondo. Voglio dire: fuori da questo mondo qui, dal mondo di oggi. Quando hai visto tutto dell'uomo, fino a che punto può scendere… precipitare, non ci sono più cose convenienti e cose sconvenienti. Perdi il senso delle convenzioni e dai importanza solo alle cose vere, alle cose veramente importanti. Vedi le ossa del mondo, insomma, e la carne non fa più alcun effetto. Non c’è più paure, e non c’è più coraggio.
-Ah, ha fatto la guerra lei?...
-Ne ho passate tante… Ero giovane, ho conosciuto mezza Europa, ma non è un bel ricordo. Non sono mica memorie di viaggi, quelle, ma di fuga. Di fuga e di paura, di fame e di freddo. Le caserme… ‘sti palazzoni in cui ci stipavano… in attesa… Intanto cresceva la desolazione di tutti i ragazzi. Per mesi, lì, a non fare niente, mentre le famiglie, a casa, sicuramente avevano bisogno. Poi, la fuga dagli eserciti, la guerra contro tutti. La guerra è così, sa signora?, non c’è più nemmeno amico e nemico. E’ un tutti contro tutti e basta. Ad un certo punto mi presero. Pensi, pioveva talmente tanto, una notte, che entrai in un piccolo casolare, dicendomi che avevo avuto una fortuna sfacciata: c’era pure dei letti. Mi sembrava di dovere dormire come un re, quella notte. Ero già contento così, quindi, s’immagini quando m’accorsi che c’era della legna e accesi la stufa. Sono di quelle cose che non passano, t’inzuppano le ossa. Cara signora, fu la vera felicità: l’odore buono della legna che prendeva e cominciava a fare calore. Ore di paradiso! Il caldo incerto di una stufa e una fame da urlare, senza nulla da sperare, eppure felice, di una felicità primitiva. Come un cane che ha trovato una tana. Mi addormentai piano piano, sentendo i muscoli riprendersi, nonostante tutto, con la lucina della fiamma che mi pareva mi dondolasse. Qualche ora di vero paradiso. In quel momento i tedeschi rastrellavano continuamente. Prima che finisse la notte fui preso. La deportazione. E, ancora, il gelo della fame e la paura che non è neanche più paura e si disfa in pena. Una pena che mi ricorda il colore di quel cielo di piombo d’allora, un cielo immobile che sa solo di acqua ghiacciata o di neve sporca. Poi, la liberazione… E che fu la liberazione!, signora mia, che fu… Sempre scappare scappare senza sapere bene da chi, da cosa. Scappare, senza forze, sognando un unico sogno: mangiare e dormire nel sole davanti al mare. Fame, freddo e pena nel petto, che era tutt’uno. Poi, pian piano, di nuovo la vita; la pace che pareva tornare nel mondo, il desiderio di pace che cresceva dentro ciascuno. Cara signora, se sapesse quante ne ho viste: più niente può farmi vacillare. Anche perché ho avuto un dono immenso. Ho ricevuto il regalo dei regali, signora mia. Eh... deve sapere che ero un uomo finito, svuotato. Non avevo più niente dentro, ed ero disperato. Mi buttavo di qua, di là. E sì, perché non sapevo che cosa si preparava per me. E come potevo saperlo se tenevo il mio cuore chiuso, serrato. Un cuore di pietra, signora mia. Come una palla di ferro, fredda, qui, dentro il torace. Una cosa morta che pesava. La guerra, signora mia, la guerra come riduce gli uomini! E io non sapevo, signora, io non sapevo che Gesù già aveva deciso di toccare quel pezzo di ferro, già aveva deciso di accarezzare quel corpo morto che io, ormai, ero e nient'altro. Cara signora, un giorno Lo vidi! Ero sfinito. Giravo da settimane e non sapevo dove andare. Era inverno, signora mia: freddo acqua neve. Inverno, di quelli che non ce ne sono più così. Non si aveva allora cappotti... se mi ricordo, signora: con una giacchettina estiva tutta consumata. Ma non sentivo neppure freddo, tanto stavo male. Non sapevo più niente. Non avevo più casa. Non avevo nessuno. Non ero più niente. Non so: forse, aspettavo la morte. Come un cane, solo e randagio come un cane. Non so: cara signora, stavo così come se non fossi più io... non provavo più nulla... non avevo più nulla. Pensavo solo ad andare verso sud. Mi ricordo: m’era presa come un’idea fissa; con tutto il freddo che avevo patito, con tutti i dolori che lascia il gelo addosso, pensavo al sole e al mare d’estate e andavo verso sud. Mi pareva di potere vivere ancora poco, e sognavo almeno un momento sulla battigia con l’acqua tiepida sui piedi e il caldo sulla pelle. Ad un tratto, signora mia, (la campagna attorno, le dico, allagata dal temporale; tutto aveva uno stesso colore di fango), ad un tratto smette di piovere. Questi nuvoloni, carichi carichi ancora, si aprono un po' e... un piccolo raggio di sole. Signora mia, mi creda, un calore nel petto... fortissimo, poi dappertutto. E svengo. Signora mia, Gesù mi aveva toccato. Da quel giorno ero nato di nuovo. Un'altra persona, tutta nuova. Non avevo mai creduto a nulla, mai una fede. Pensi che avevo fatto l’anarchico, prima della guerra, con altri ragazzi ed eravamo stati cattivi, eravamo rabbiosi. Al risveglio, quel giorno, sapevo tutto. Sapevo chi mi aveva guarito.
-Anch'io credo... ho tanta fede... ma lei è più fortunato... perché è difficile, sa, per chi non ha mai avuto un segno. Un segno come quello che ha avuto lei, che da quel momento uno può dire: non posso dubitare – anche nei momenti difficili – non posso dubitare perché ho visto, ho toccato, è accaduto, quello che ho visto, quello che ho toccato, quello che è accaduto. Sennò è difficile, mi creda… E' un mondo brutto, brutto, brutto. Chi ci può aiutare?... Lei è stato fortunato. Quanta gente vorrebbe vedere quello che ha visto lei!? Quanta gente vorrebbe una carezza di nostro Signore Gesù Cristo... La fede c'è ma non basta.
-Come, non basta? Signora! Se c’è la fede, c’è…
-Guardi: io ho un figlio sfortunato che è una spina nel cuore. Mi lasci dire… Io abito a Milano. Qui ho una sorella. Sono venuta qua proprio per cercare di avere un conforto. Speravo di... ma ognuno ha la sua vita... Mia sorella, sa che mi ha detto? "Devi pregare" mi ha detto, e lì è finita. "Devi pregare"... Mio figlio ha trentanove anni e sta in mezzo a una strada. In mezzo a una strada... e con una figlia da mantenere. Abbandonato dalla moglie, da quella disgraziata (mi deve scusare eh, ma è pure poco), e disoccupato. A trentanove anni, a cercare di andar sotto padrone per lavorare. Ah che pena, che pena... E mia sorella: "Devi pregare"... Non è per cattiveria, caro signore, ma è così: quando uno ha i fatti propri, tutto il resto è "devi pregare". Non è per cattiveria, mi creda. Ma io sono venuta qua per una parola di conforto, da una sorella... Ma è così, è così. Non può capire. Non è un dolore suo. Sfido io: tre figli sistemati in banca, stipendio fisso. Sfido io: che vuol capire. Dice: “Ti capisco”, ma il dolore me lo tengo io, caro signore, nessuno lo vuole. Quel figlio, a trentanove anni deve andare in giro a mendicare un lavoro. "Devi pregare" dice, "devi pregare". Che brutto mondo, caro signore, che brutto mondo... E quella bambina, mia nipote? Diciotto anni, senza una casa, senza una madre. Per l'amor di Dio: una bravissima ragazza. Ma, oggi, è così facile cadere. Questa droga, questi drogati... che vanno in giro come dei pezzenti... e, magari, sono figli di professionisti... E vanno in giro che è uno schifo! signore mio, questa è la verità, è uno schifo! E questi genitori: to', to' i soldi, vatti a bucare. Stanno pieni di soldi e li vedi tutti luridi co' 'ste barbe lunghe, 'sti capelli sporchi, 'sti pantaloni rotti. E' uno schifo! E sono pensieri, sono pensieri. "Devi pregare". Io prego, caro signore, prego eccome, perché io credo, ho fede... ma, intanto, non cambia niente... E non c'è mai qualcuno che ti viene incontro, ma non a parole, coi fatti, coi fatti... mai!... Da mia sorella... non dico aiuto... una parola... manco quella! Tre figli, tutti e tre in banca... Che vuol confortare. Il dolore, ognuno si tiene il suo! Se lo deve tenere! E' uno schifo, caro signore...
Si soffia il naso e quel rumore improvviso è come uno schizzo rinfrescante per il signor Savino Menichella, che è rimasto sotto la valanga di parole pesanti e scheggiate venute giù come un muro esploso sopra di lui, lasciando una densa nuvola di polvere.
-E' uno schifo! Mi deve scusare. E' lo sfogo di una madre. Ma è uno schifo, uno schifo! Chissà se ne usciremo, chissà. Mah, come si dice? Chi vivrà vedrà... e non dico altro, caro signore, non dico altro. Ah, sta arrivando mio cognato. Eccolo, lo vede? E' quel signore lì, mi viene a prendere. Gran brava persona mio cognato, gran brava persona… Ma che te ne fai delle brave persone al giorno d’oggi… Se avesse voluto, se avesse voluto me l’avrebbe potuto sistemare mio figlio. Eh, ma è una brava persona, uno onesto… E ci teniamo il guaio! Anzi, mi tengo il guaio! Be', vado, la saluto. Oggi, vediamo almeno se riusciamo a risolvere ‘ste carte… Che questo è un altro bel problema: la vita è diventata tutta una carta che ti fa andare di qua e di là… E mi scusi ancora se l'ho costretta a sentire tutte queste belle cose...
-Ma, signora, non lo dica...
-No no no, mi deve scusare... il cuore di una mamma... deve capire... La saluto...
-Buona giornata, signora, buona giornata. Non perda la fede…
-A lei, caro signore. Lei è fortunato. La saluto.
-Signora, signora, aspetti… Voglio… vorrei… lasciarle un dono… Sa, scrivo delle poesie, ogni tano… Così, per passare il tempo… A volte, quando il Signore mi parla un po’ più forte e, io, nonostante sia sordo e cieco e così malandato, riesco a sentirlo. Vede: qui, in questa cartelletta, le porto sempre con me. Aspetti, aspetti solo un istante… Perché, mentre mi parlava… io pensavo proprio a questa poesia… eh, un attimo che la trovo… Eccola. Dicevo: pensavo a questa poesia… Tenga, la prenda, la prenda pure. E’ un mio pensiero, il pensiero di un vecchio…
La donna prende il foglio e se lo rigira tra le mani. E’ un foglio sgualcito ed unto. Non capisce. Ma il signor Savino insiste ed è serio. Non è uno scherzo. La donna, allora, decide, di non dire altro. Di fronte a quella faccia, a quella mano di vecchio che trema, rimasta a mezz’aria così come ha porto il foglio, di fronte a quegli occhiali spessi e luridi, che solo adesso vede bene, la donna ringrazia. Guarda ancora quel foglio: solo segni, non parole, tracciati da penne di colore diverso, in mezzo alla pagina. Lo piega e ancora ringrazia quel vecchio che trema e sorride.
L'ombra si alza. Si allontana. Scompare.
-Oh, mio Dio, perché soffrire tanto? Quanti grigi e neri nella voce di quella donna... quanta asprezza nel suo cuore. Che buio nei suoi pensieri. Regalale qualcosa, Signore. Perché tutta quell'amarezza compatta? Scava, Gesù, in quell'angoscia e semina la speranza... Perché non mi hai dato modo di parlarle di più? Me l'hai messa qui a fianco e me l'hai tolta. Potevo provare io ad essere la tua mano, a piantare un po' di verde in quel deserto. Aveva bisogno di una parola, quella donna, ed io che sto qui a bella posta, per compiere questo ufficio, per gridare che tu ci sei, Gesù mio, non ho fiatato... Scusami, scusami, mio Dio. Forse i tuoi disegni sono altri per quella persona ed io non posso conoscerli. Ma, quando vuoi, dammi la possibilità di far qualcosa, fammi sentire soldato del tuo santo esercito. Scusami, scusami se ancora una volta ho dubitato... Che bello sapere che ci sei Tu a guardare tutti noi. E per ognuno hai i tuoi progetti. Ed io che mi preoccupavo per quella donna (siamo piccini, siamo piccini), mentre chissà quante cose hai in mente Tu per quella signora, per il suo figliolo... Ed io a preoccuparmi... come se dovessi decidere io... eheeee, eheeee... come se potessi avere io in mente i tuoi disegni, o Signore! Quanto siamo piccini... E Tu ci ami... Come è caldo oggi il sole...
Parla tra le labbra, il signor Savino, e muove il busto avanti e indietro, sfregandosi le mani, le dita fredde. Una sagoma verde appare con un rumore di scopa in uno dei vialetti a pochi metri. Il signor Savino aspetta che la sagoma sia un po’ più definita nel suo incerto campo visivo. Quindi, saluta:
-Buongiorno, Michele… - La scopa continua il suo rumore a ritmo regolare. – Signor Michele, buongiorno – agitando anche una mano.
-Ah, a me dite? – la scopa si ferma e la sagoma pure – Non sono Michele. Michele ha finito…
-Come, finito?...
La sagoma tace, però si avvicina lentamente.
-Buongiorno, io sono Giovanni. Michele ha finito i tre mesi e, oggi, io comincio i miei.
-Tre mesi?... Ma, perché… come funziona?... Non capisco: cambiate zona?
-No, niente zona (che zona!). Questi so’ i lavori socialmente utili… Funziona così, lavori per qualche mese… Se va bene… Se ci stanno i soldi…
-Ma come: lavori socialmente utili?... No, vede, io sto sempre qua. Voglio dire: vengo tutte le mattine e, col signor Michele, avevamo fatto amicizia… Ma non mi ha mai detto che era una cosa temporanea… Anzi, era uno sempre col sorriso… Mi parlava delle sue due bambine… Ma, quindi, lei mi dice che è disoccupato?
-E sì, e che vi sto dicendo? Siamo tutti disoccupati. Ogni tanto ci chiamano e facciamo tre mesi da qualche parte. Ogni tanto è quasi mai. Troppo vecchi per lavorare veramente e troppo giovani per la pensione. Comunque, tiriamo avanti… Quello, Michele, ha un bel carattere, lo so… A parte che… che vogliamo fare: le cose stanno così.
-E già… le cose stanno così. Il fatto è che, veramente, mica sapevo… Ma, intanto, presentiamoci per bene: io mi chiamo Savino Menichella… - Tende la mano verso l’ombra verde davanti.
-Ah, sì, piacere, io sono Giovanni Minutillo… Come vedete, lavoratore socialmente utile… Per tre mesi… Poi, solo socialmente inutile…
-Ma no, caro signor Giovanni, non dica certe cose… non dica… Ma… ha un po’ di tempo? Vuole sedersi che facciamo due chiacchiere? Può?...
-Signor Savino, posso, io posso… Purtroppo… Il lavoro che devo fare, si può fare in tre ore, senza strapazzi. Tre ore, ma a me è concessa tutta la giornata per farlo. Anzi, se voglio, non lo faccio, e non succede niente. Tre mesi sono e tre mesi mi pagano, pure se non vengo. Così è… Io, per ora, il lavoro lo faccio… Meglio stare qua, ‘sti tre mesi, che non sapere che fare… Per mo’, lo faccio, senno esco scemo. Il tempo, però, di fare quattro chiacchiere con voi, ce l’ho. Mo’ mi metto qua, a fianco a voi, e mi fumo una sigaretta. Ma voi siete di qua? Mi pare…
-No, no, mio caro amico, io sono nato ad Ancona…
-Ah, sentivo che parlavate… un poco diverso. E che ci fate qua?
-Eh, Giovanni, la mia vita è stata tutta un andare e venire… Erano altri tempi, altri disagi. La guerra, sa? Le cose avevano un altro aspetto quando avevo la sua età… E, ad un certo punto, mi sono ritrovato qua… Un posto come un altro per un vecchio che cerca soltanto di finire bene la sua vita… forse consumata male… Ma, almeno, cerchiamo di finirla bene. Vede, Giovanni, dopo la guerra il mondo era come appena nato… Tutti, anche i sopravvissuti, erano morti almeno una volta. E così, si doveva ripartire da capo, tutti quanti, tutti quanti insieme. Era una specie di rinascita generale: dalle piccole cose… ognuno dalle sue piccole e povere cose doveva ricominciare. E le cose, allora, erano davvero niente. Così, le cose di ciascuno erano soprattutto le cose che portava dentro. Potevi contare solo su quello che avevi dentro al cuore e dentro la testa. Eh, a Michele ho raccontato tante avventure che mi sono capitate… Lui si sedeva qua come lei, oggi, e mi faceva domande, gli piaceva sentire questi fatti lontani della mia vita… E mi teneva un po’ compagnia, mi parlava del suo tesoro: le sue due bambine… Piuttosto, se lei lo conosce, poi, magari, mi lascia il suo indirizzo… Non mi va di perdere un amico, così, da un giorno all’altro…
-Sì che lo conosco! Ma, vedrete, che vi verrà a trovare lui nei prossimi giorni. Mo’ che ha da fare?... Verrà lui… Non vi preoccupate, che pure lui deve riempire le giornate…
-Eh, speriamo, speriamo… Mah, pensi di conoscere una persona e, invece, non ne sai niente… Sa Giovanni, il dopoguerra mi ha insegnato una cosa meravigliosa: siamo calati su questo mondo come i pupi nella scatola del teatro. Siamo come animaletti spauriti che non conoscono la scatola e non conoscono gli altri pupi. E, per questo, abbiamo paura, paura di tutto. A questo punto, ci sono due strade: possiamo dare uno dieci cento nomi alla paura, e credere in questo modo di dominarla; oppure possiamo uscire dalla paura, con l’unico modo che ce ne libera davvero. Si tratta di avere ben chiare le due strade. Se decidiamo di dare nomi alla nostra paura, decidiamo di combattere le tante paure che, così, costruiremo, e ad ogni paura non avremo che da opporre violenza violenza violenza. E in questo non ci sarà coraggio, ma solo guerra cieca contro tutto. Se, invece, decidiamo di guardarla in fondo questa nostra paura, capiremo che sta tutta nella nostra naturale ignoranza di tutto ciò che ci sta attorno. E’ la strada dell’amore questa, dell’ascolto, della comprensione che porta al contrario della paura: la pace universale. In quegli anni ho capito che questa è l’unica vera strada… che porta da qualche parte. La nostra missione, signor Giovanni, è ritrovare la pace con il mondo… Guardi che giornata, oggi, che sole, che aria…
-Ma che dipende da noi? Mi sa che la fate un po’ facile voi… Averci i soldi che hanno quelli che dico io, vi assicuro che vorrei bene a chiunque. Per stare in pace ci vogliono i soldi… E noi, invece, alla guerra, ci mandano quegli altri e senza chiederci il permesso. Per carità, voi avete fatto ‘na guerra vera che deve essere stata terribile. Ma stare senza lavoro è ‘na guerra pure questa. Io voglio stare in pace con tutti, ma qua è il mondo che s’accanisce. Io tenevo un buon lavoro e buoni amici alla fabbrica. La mesata, vi garantisco, mi faceva stare in pace con tutti. M’ero preso la ragazza che volevo e ci volevame bene. Si faceva ‘na vita tranquilla, poi è venuto il ragazzino: ma non ci sta problema, il sacrificio, quand’è per questo, si fa e si fa con piacere. Voi parlate di strade, ma che strade e strade… Io lo strada giusta ho scelto! A chi ho mai fatto del male in vita mia? Lavoratore, questo ero e mo’ mi trovo col culo per terra… Quello, il padrone, non s’è manco capito che ha combinato… Producevamo macchinari per il movimento terra, quelli che vedete dappertutto. Il settore non è mai stato in crisi. Vendevamo pure in Africa. A un certo punto il patatrac. La strada, dite voi…
-Ma no, signor Giovanni, non sto parlando della superficie della vita. Gli eventi quotidiani possono essere molto duri, lo so. Però, io non parlo di questo, che è un po’ come la scorza dei nostri giorni, io parlo della polpa, di quello che veramente e profondamente poi è la nostra vita. Le ho fatto cenno a quello che ho passato io, si può immaginare se parlo senza sapere che cosa sono e che cosa possono essere le sofferenze del quotidiano. Io ho conosciuto la fame, Giovanni, che alcune volte mi mangiava così tanto da dentro che mi sembrava non di stare per morire, ma di essere già morto. Però, questa è la materia ed ha il suo corso. Lo spirito, l’anima, il cuore (lo chiami come preferisce) è un’altra cosa. Il nostro stare qui, in mezzo al mondo, non è una cosa di un giorno, non è un evento episodico, è tutto. Perciò, riuscire a rappacificarsi con la natura è la prima tappa. Diventare capaci di salutare il sole, la mattina, o le nubi, significa farsi dono di un piacere prezioso che ti dà il senso di potere comunicare con tutto il resto che è fuori di te. Significa trovare i primi fondamentali compagni nella solitudine del creato, che è troppo sconfinato per non esserci il pericolo della solitudine. E quando si è fatto questo, si è già fatto tanto, mi creda. Poi, però, viene il difficile: rappacificarsi con gli uomini. Capire il perché dei contrasti, delle diffidenze, degli odii… Questo, per me, non può che essere la missione di un’intera vita… Gli uomini sono complessi… Millenni e millenni di sviluppo e di complicazione: le lingue, le culture, le credenze, la storia. E nelle matasse ingarbugliate, si nascondono facilmente gli inganni. Io ho pensato a un modo per non perdermi. Gli uomini, in fondo, si sono sempre divisi e raggruppati in categorie. Io ho seguito quelle, le ho osservate, ho ascoltato, per dir così, dall’interno e dall’esterno. Mi creda, alla fine, soltanto ascoltando, sempre con la massima attenzione, le persone, le presunte diversità svanivano sempre. La pasta umana è una. Anzi, la pasta universale è unica. San Francesco d’Assisi, amico mio, lo conoscono tutti e tutti sanno che chiamava fratello e sorella non solo ogni uomo e ogni donna, ma anche ogni altra cosa del creato. E’ un pensiero apparentemente semplice…
-Signor Savino, voi avete più esperienza di me, però pure io ho i capelli bianchi e, a me, la pasta umana non mi sembra uguale per tutti. Voi dite che bisogna ascoltare… Quando ci hanno licenziato, noi sapevamo che la fabbrica poteva continuare a produrre e ci stavamo organizzando per evitare la chiusura. Un gruppo di sindacalisti ci disse che non dovevamo opporci, che in questo modo facevamo l’interesse del padrone. Chi vuol fare il padrone, che faccia il padrone: se ha sbagliato, che paghi sino in fondo. Noialtri non dovevamo temere. Il sindacato avrebbe sostenuto tutti i lavoratori e, se tutto andava male, il sindacato avrebbe trovato una soluzione per ciascuno di noi. I sindacalisti, questo ci dissero. Oggi, tutti quelli che erano venuti in fabbrica a parlarci fanno i dirigenti nelle fabbrichette concorrenti. La pasta non è uguale. Noi, forse, non avremmo concluso niente e il posto di lavoro l’avremmo perso ugualmente. Ma quelli sono stati dei carognoni, dei delinquenti. E quella pasta è guasta e, se permettete, non è come la mia…
-Eh, signor Giovanni, signor Giovanni… Ne avrei da raccontarle io delle storie di carognate… Ma non è questo. Le dico: questa è la superficie del mondo. Il soffio vitale è un’altra cosa e, quando lo sentiamo, riusciamo a superare anche fatti come quelli che lei mi dice. Lei prova rancore, ed il rancore è energia sprecata, ed è la sua energia, mica la loro. Il rancore non serve, anzi consuma. Il rancore è silenzio che corrode; mentre io le dico della parola che ci può salvare. La parola quando la pronunciamo è fiato, fiato caldo di amore. Amore, per chi la riceve e per chi la pronuncia… Michele, per esempio, mi raccontava che la sera aveva cominciato a leggere le poesie di San Francesco, dopo che ne avevamo parlato qui insieme, alle sue bimbe. Mi diceva che Teresa, la più piccola, aveva cominciato a fare osservazioni che non aveva mai fatto sulla natura, sui fiori, ma anche semplicemente sulle varietà di erba che cresce spontaneamente nell’aiuola sotto casa. Che tenerezza… Mentre la più grande, Concetta, ogni tanto gli chiedeva spiegazioni: non riusciva a capire il senso di dare del fratello o della sorella a cose inanimate. Non lo capiva ma ci si arrovellava, cioè sentiva che c’era dietro una verità più profonda da ricercare, da scoprire. Capisce, Giovanni, che voglio dire? Le cose, in superficie, hanno sempre un colore che può piacerci o meno. Ma può essere un inganno: sotto il colore è diverso. Perciò, le dico che alla fin dei conti sta tutto nella comunicazione, nell’ascoltare, nel sentire, anzi, nel con-sentire, nel com-patire.
-Be’, va be’, signor Savino, io mo’ me ne devo andare. Che io è meglio che non ci penso alle cose a cui m’avete fatto ripensare voi. Meno ci penso e meglio sto… Ma piuttosto, non ho ben capito: avete detto “le figlie” di Michele?
-Sì, le figlie, non le conoscete? Me ne parlava tanto Michele. E’ proprio un brav’uomo e bravo pa-
-E no, che non le conosco! Michele figli non ne tiene…
-Ma che dice, Giovanni?! Concetta, se non ricordo male, dovrebbe avere undici anni, e Teresa otto o nove. Due bimbe dolcissime, Concetta va anche molto bene a scuola… Teresa è più vispa… un po’ discontinua… (quando è stato?) un paio di mesi fa è stata premiata a scuola per il saggio di danza…
-Signor Savino, Michele figli non ne tiene! E se lo volete sapere, tanto non è un mistero, quando ci hanno licenziato la moglie l’ha lasciato. Lui è andato un po’ giù di testa e ogni tanto dice delle cose strane. Forse vi ha detto che gli sarebbe piaciuto avere delle figlie…
-No, no, che piaciuto?! Qua, dove è stato seduto lei, Michele si sedeva tutti i giorni per un po’… E mi raccontava delle sue bambine… ma un sacco di cose… con tutti i particolari. Mi parlava delle bambine… le bambine c’erano…
-C’erano… mo’ non v’incazzate in questa maniera… come volete voi… Statevi bene.
La sagoma verde s’allontana. Riprende il rumore di scopa. Il signor Savino Menichella pensa che due meravigliose bambine non possono sparire nel nulla, eppure, in questo istante, così dovrebbe essere.

-Signor Savino, signor Savino... - Voce d’argento squillante. Un limpido ruscello. Barbara, un’ombrettina colorata e danzante. Freschezza e profumo...
-Signor Savino, tutto bene? Come state? Che bella giornata!... Che fate, che fate, signor Savino? Pensate qualche nuova poesia? Me la regalerete ancora una poesia? Anzi, perché non la scrivete su di me una poesia? Mi dite sempre tante cose gentili, che nessuno mi dice… Fate una poesia su di me… Eh? Che dite?
La colorata ombra di Barbara invade di luce e di profumo il mondo uniforme del signor Menichella.
-Barbara, Barbara, sei tu... figliuola cara... dove vai? Passeggi?
-Venivo a trovarvi, signor Savino. Così per vedere se state bene…
-Che cara che sei. Siedi, siedi. Ma la scuola?
-Oggi niente scuola, signor Savino. Ma vi prometto che è l'ultima volta. Non mi dite niente. Mi perdonate? Mi perdonate, signor Savino? Oggi proprio non potevo... Se andavo mi inguaiavo per tutto l’anno… E poi, parlare con voi che sapete tante cose, non è un po' come andare a scuola? Eh, signor Savino, mi perdonate? Mo’ non fate che mi rimproverate perché ho avuto il pensiero e sono venuta a trovarvi…
-Oh, cara ragazza, quante ne sai... Eh, figliuola cara, io che darei per tornare indietro e andare a scuola. Studiare... quante cose vorrei imparare. Quante cose avrei potuto conoscere. Quante cose si dovrebbero sapere... La filosofia, la filosofia, la studiate la filosofia? No? Non si studia alla scuola che fai? Peccato, figliuola mia, peccato. Deve esser bella la filosofia, sai? Tante persone che hanno trascorso la loro vita a pensare... Ma ci pensi: questi uomini che pensano, meditano, riflettono dalla mattina alla sera... Ma cosa potranno mai pensare!? Capisci, Barbara? Sai quanti pensieri... impensabili... Cose che tu non penseresti mai... Come vorrei incontrare un filosofo... Sai, è un desiderio che ho da tanto tempo. Chissà se il Signore mi vorrà concedere… Ho sentito che molti sono atei ma non ci credo. Devono essere, invece, troppo religiosi... E, magari, non li si capisce e... magari, si dice sbrigativamente che sono atei. Io non ci credo... Io non... non può essere. Tutto è volontà di Dio... E se Dio ha dato a tutti questi uomini tutti questi pensieri, tutte queste meditazioni, come può non averli illuminati? Ha concesso a me, ad uno normale, ignorante come me, la sua luce, la sua gioia... figuriamoci...
Il sorriso torna su quella testa vecchia che ciondola freneticamente di felicità.
-Che bella che deve essere la filosofia... Che bello sarebbe incontrare un filosofo... Ma dimmi, come va con il tuo fidanzato... con il tuo Filippo?... Si chiama Filippo, sì?
-Sì, sì, Filippo... Non va, signor Savino, non va. Anzi, va male... Sempre le stesse cose... Lui sta con i suoi amici, e io ad aspettare. Quando vuole lui, passiamo un po' di tempo... ma non lo so, signor Savino, non lo so...
-Ragazza mia, i giovanotti sono così. Hanno bisogno di fare le loro bricconcellate. Eh, eh... sapessi, sapessi quante ne ho fatte io ai miei tempi...
-Mah, non lo so, signor Savino. Non ci credo che voi avete fatto cose come quelle che combina lui. Filippo sta sempre con quei brutti tipi dello stadio. Non lo so, signor Savino: non mi piacciono. Non è che...
-Figliuola mia, ma vedi, la gioventù è così. Lo stadio, il gioco del pallone... sono fatti per stare insieme. E' una bella cosa. Bisogna stare insieme. Tu la vedi così perché vorresti stare un po' di più con il tuo fidanzato, ed è una cosa naturale, una cosa bella... L'amore è sempre bello...
-Eh, li dovete vedere allo stadio, signor Savino, e pure fuori...
-Ma, che vuoi, è così... son bravi ragazzi sicuramente. Figliuola cara, puoi pensare che Gesù ci regalava questo divertimento... l'allegria delle domeniche... Hai visto quanta allegria quando si fa qui la partita? Quanta gente... quanti colori... Si fa il tifo per una squadra: tutti stanno insieme stretti stretti... si vogliono bene nell’allegria. Corrono di qua, di là, si abbracciano, gioiscono. Non è possibile la letizia se non c'è il Signore, lì, in mezzo a noi.
-Va bene, va bene, ma non è soltanto questo, signor Savino. E' che magari da lui vorrei un appoggio... che mi manca... Non lo so, non lo so... non riesco a stare un po' tranquilla. Vedete, solo con voi riesco un po' a parlare, a... dire i fatti miei. Ma voi che ci potete fare? Già è tanto che state qui ad ascoltare...
-Ma certamente, figliuola cara: si deve parlare! Tutti dobbiamo parlare di più...
-E che facciamo che parliamo, signor Savino?!
-Eh, cos'è questo sconforto, figliuola mia?
-Mi va tutto male, signor Savino... A casa, lo sapete, non ci posso proprio stare...
-Ma come! i tuoi genitori...
-Come prima, come prima. Come sempre…
-Ma come: siamo andati insieme a parlare... Ma come: la tua cara mamma sembrava così a modo...
-Come prima, signor Savino.
-Ma come può essere, figliuola mia? Si parlò così bene quella sera... Ora che lo ricordo... che bell'aria che c'era... Ci chiarimmo... Si chiarì tutto... Si parlò, ché si doveva parlare, per conoscersi, per capire...
-Come prima, signor Savino, vi dico, come prima!
-Ma come... Ma no... Che dici, figliuola mia, che dici? Come può essere? Pure il tuo babbo... Sì, all'inizio... in silenzio, non disse nulla, ma poi, ricordi? Dopo aver parlato con la tua mamma si parlò con lui, si parlò...
-Signor Savino, VOI avete parlato!
-Come io?... Sì, io... abbiamo parlato...
-No no, signor Savino: so-lo, voi avete parlato!
-Che dici, figliuola mia?
-Dico che avete parlato da solo, questo dico. Avete parlato, e vi hanno lasciato parlare... perché li avevo pregati in ginocchio di non cacciarvi da casa quella sera… Piangendo li avevo pregati, quel pomeriggio. E così vi hanno fatto entrare e vi hanno fatto parlare, e mia madre vi ha dato sempre ragione (“così se ne va prima”, aveva detto), e mio padre ha riso tutto il tempo, facendo lo stupido, vi faceva le facce strane sapendo che ci vedete poco.
-Che mi dici... - Attonita desolazione. - Che mi dici... - Le mani lente e ossute si posarono sulle ginocchia, come a trattenere qualcosa che stava per fuggire irrimediabilmente.
-Scusatemi, signor Savino...
-Che mi dici... Ma, ora, spiegami.
-Scusatemi, scusatemi, signor Savino. Vi ho detto queste cose e voi non lo meritate. Voi siete gentile… Voi siete buono con la gente, ma non basta questo perché gli altri siano migliori…
-Che c'entra il merito, Barbara, che c'entra la gentilezza? Io voglio capire. Siamo andati insieme a parlare con i tuoi... Non è questione di bontà, ma di parole, le parole, le parole! Io ho parlato – va bene da solo come tu dici – ma ho detto delle cose… cose che vengono dal dolore, da una vita di sofferenze. Parole difficili per me, ricordi pesanti, ma che ho riportato a galla perché servissero… E' stata una così bella serata che il Signore ci ha concesso... Tutto pareva a posto, sistemato... la pace tornata nella casa. E tu, ora... Non capisco...
-Ah, signor Savino, voi siete buono. Una persona dolce... ma la gente vi prende per pazzo. Ecco!
-Per...
-Per pazzo, per pazzo e basta. La volete sapere proprio tutta? Per pazzo, un povero vecchio pazzo come ce ne stanno tanti in giro.
-Un pazzo!?
-Sì, signor Savino. Io vi voglio bene... Siete l'unica persona che mi ascolta... Mi dispiace, però io pensavo che voi vi accorgevate e facevate finta di niente perché siete buono. Ma non vi siete accorto di come vi guardava mia madre? Non vedevate che mio padre rideva?
-Un pazzo!?
-Signor Savino, mi dispiace... ma dite qualcosa! Vi giuro che mi dispiace, ma voi avete voluto sapere… E poi io vi giuro che pensavo che voi vi accorgevate… che fingevate certe volte di non vedere… Dite qualcosa, signor Savino!
-E che devo dire, figliuola cara?... Sono cieco, sono cieco. Che cosa potevo vedere? Di che cosa potevo accorgermi?... Ma com’è possibile? Signore mio, com’è possibile?... Dio mio, perché? Anche Tu ti sei divertito?... Sono un povero vecchio cieco... fuori e dentro. Che cosa devo vedere?... Rideva... Signore, pure Tu ridevi di me? Io ti servivo e Tu, mio buon Gesù, ridevi?
-Signor Savino, mi dispiace. Ma non fate così! E smettetela con il vostro Dio da tutte le parti!
-Che dici, Barbarella, non sai quello che dici... il "mio Dio". Dio è di tutti...
-Sì, va bene: "Dio di tutti". Ma piantatela ugualmente! Insomma, come potete pensare che bastano due o tre chiacchiere per aggiustare tutto? Ve ne uscite ogni volta con questa storia... Bisogna parlare, e poi parlate voi. E parlate da solo, e sempre questo Dio davanti. Quattro chiacchiere e tutto è risolto. Signor Savino, ma come, devo dirvele io queste cose? Voi che avete fatto la guerra... siete stato in campo di concentramento... Devo dirvele io queste cose? Bastasse una chiacchierata per addrizzare tutto...
-Già, sono stato in campo di concentramento... Mio buon Gesù, che cos'è questa? Una prova? A che cosa sottoponi questo povero vecchio? Non capisco... non capisco... Quante me ne avranno fatte... E io che credevo di guardare con i tuoi occhi, Signore. Un povero vecchio pazzo e cieco... E tu, Barbarella, perché solo ora? perché non dirmi nulla? Che significato ha?...
-Signor Savino, non dite così. Vedete che mi state dicendo? Come potevo dirvi... Certe cose non si dicono... Non potevo... E poi, ve l’ho detto, pensavo…
-No, no, Barbarella, certe cose si dicono, si devono dire! Che senso ha?... Che cosa abbiamo capito così? Che cosa abbiamo imparato?... Che passi avanti abbiamo fatto? E, dimmi, anche gli altri... sì, dico, quelli che girano qui e che si fermano con me… tutti per divertimento?
-Signor Savino, ma cosa volete che vi dica? E poi, a che serve? Non date retta, la gente è così… stupida… cattiva. Non ci pensate...
-Sì sì, non ci pensiamo. A che serve... Alla mia età… Tutte queste chiacchiere: pensavo potessero essere parole e, invece, erano solo chiacchiere, chiacchiere da piazzetta per farsi una risata… Per risolvere i problemi… per sciogliere un po’ della tristezza dei cuori… col dialogo, col dialogo… Ma sono solo chiacchiere, come dici tu, e fanno ancora più tristezza, fanno rumore e tristezza… Tu, figliuola mia, ora vattene, vattene… Voglio stare un po’ da solo, in silenzio… Va’, va’, figliuola, va’… Da solo, ho bisogno di stare un po’ solo, tranquillo, in silenzio.
-Perdonatemi...
-Non serve a niente... Mio Dio, che prova è questa!? Alla mia età... non avrò tempo di capire... Che senso ha? Un povero vecchio pazzo e cieco... Non c'è significato in tutto questo...
Svuotamento e solitudine sono un gusto amaro in bocca e un blocco di marmo sullo sterno. Le stanche mani ossute e raggelate accorrono inutilmente a dare conforto ad un corpo troppo vecchio: passano sulle ginocchia e poi sul petto rigide ed estranee. Freddo e bisogno di riposo. Ostilità di tutto. Disgusto. Sfinimento. Una sola fissa immagine con grigio formicolio davanti agli occhi. Sente l’insostenibile peso degli anni, della vita, di tutte le energie impiegate e disperse in un gioco di illusioni senza senso, privo di significato. I contorni spariscono più del consueto e girano vorticosamente, mischiando tutto, passato e presente, in un unico colore-non-colore sempre più opaco, sempre più invadente. Si stringe per benino nel soprabito abbracciando al petto la borsetta di plastica con dentro le sue poesie. Non c'è significato in tutto questo… Dondola piano, per ore, avanti e indietro, avanti e indietro, correndo affannosamente di qua e di là nella sua vita a cercare un come un dove un perché; mentre attorno il tempo va sempre uguale.
Cercare il filosofo... Ma che filosofo! Meglio sarebbe stato cercare un comico, un giullare che gli si piantasse davanti con una risata grossa e sguaiata per rivelargli che è stato tutto uno scherzo. Già, ma quale è stato lo scherzo? Ciò che gli è appena capitato o tutto quanto ha fatto fino allora? Uno scherzo le parole di Barbara o uno scherzo la sua vita? Una burla la sua esistenza, già, tutta una carnevalata la sua esistenza, e lui che c'è stato dentro inconsapevolmente con indosso il suo bel vestitino da buffone, credendo di indossare il saio? Che stanchezza prova il signor Savino Menichella! Tutto una burla... tutto una burla. (Parlare parlare parlare, per non capirsi mai…) Ma chi riesce a ridere? Ridere della propria esistenza, così, a crepapelle, certo, sarebbe, a questo punto, la cosa migliore, una gran buona liberazione. Sganasciarsi come davanti ad uno specchio per la propria immagine improvvisamente rivelata... Sì, sarebbe un'eccellente medicina la risata. Ma chi ci riesce? Magari fosse così facile ridicolizzare se stessi, ma nel vero senso, sino alle radici dell'io. E’ così vecchio, così stanco. Non ha più tempo. Sente di non avere possibilità, e di non avere nulla; mentre attorno la sera arriva come sempre.
E’ buio, ed i suoi deboli occhi, con il disturbo delle luci dell’illuminazione pubblica, non distinguono quasi più nulla. Si alza, improvvisamente, spinto da un pensiero che ha fatto il suo corso parallelo a questi e che, di punto in bianco, ha dato il suo comando: "Non ho più nulla da fare qui, andiamo a casa!" Tutto ormai è stravolto. E’ calato il buio, ed il signor Savino Menichella, con mille uguali riflessi di luce artificiale negli occhi, spera, per un solo attimo, di riuscire a trovare la via. Ma la preoccupazione di perdersi per le strade di una città non può, in quel momento, che annegare nell'abissale certezza di essere perduto nella vita.
Camminando, però, comincia a pensare che può essere stato tutto un malinteso. Perché non pensarci prima? Ma sì, certo, un malinteso... come ne capitano tanti. Una parola presa male e, di lì, tutta una direzione di pensieri sbagliati. Si sa come vanno queste cose... Quella donna lì, gli ha messo addosso una tristezza con quel suo fuggire via senza dare la possibilità di chiarirsi. Deve essere stato quello l'intoppo. Non essendo riuscito a dialogare con quella donna, avendo ascoltato i suoi problemi senza poi potere rispondere, deve essersi turbato, anche se, lì per lì, non se ne è reso conto. Forse, il fatto di avere assorbito quelle ansie senza avere avuto modo, poi, di offrire un minimo di conforto, lo ha maldisposto. Insomma, ha cominciato a parlare con Barbara con una sorta di rimorso nascosto nel cuore. E, parlando parlando, quel qualcosa che gli rimordeva è andato tessendo la sua vendetta. Così, da una parola, era nata l'incomprensione, che s'era poi ingigantita con tutti quei dubbi e quel mettere in discussione.
-Eh sì, è così, così. Deve essere così... eheeee... Dire che proprio oggi, a quella donna, ho detto che niente ormai avrebbe potuto farmi vacillare... eheeee... Come siamo piccini, come siamo piccini... eheeee... Scommetto, Signore, che tutto questo è avvenuto proprio per quella frase... Eh, Signore? Hai voluto mostrarmi che significa fidarsi troppo di sé. Eh, Signore? E' così, è così. Mi hai voluto dare una lezione di umiltà. Quando mi sentivo sicuro, sicuro di me, mi hai voluto far riprovare che cosa ero cinquant'anni fa, che cosa ero senza di Te... Come siamo piccini... Poi quel tipo, Giovanni, che si prende gioco di un povero vecchio…
Uno spintone, una voce giovanile:
-Ohu, nonno, mi devi prestare un poco i fanali?
L’alito acido di birra e fumo lo investe prima del senso delle parole, e gli pare che quel ragazzo spuntato dal nulla gli gridi quella stramba domanda proprio sul naso.
-Come?!
-Gli occhiali, gli occhiali, papanonno, che devo vedere se ti faccio un fatto.
Percepisce davanti a sé una figura longilinea che sembra danzare o, comunque, oscillare ritmicamente. E va e viene l’odore di alcool misto a fumo e sudore. Dietro alla prima figura qualcosa rotea in alto e, da quel vorticare, viene, monotono, un canto gioioso: “Alé alé, alé alé alé alé, alé alé…”
-Ah, caro giovanotto, anche lei è miope? Ma queste lenti, sa, sono molto forti... non credo che possano aiutarla... Ma ha pers-
-Va be', mo statti un po' zitto! Caccia tutto e fai subito!
Stavolta l’alito è ancora più intenso e vicino e spruzza anche saliva, mentre all’ “alé alé” si sono aggiunte altre voci e ombre danzanti.
-Come, scusi?! Non... - Qualcosa lo colpisce in pieno volto. Il dolore improvviso gli piega le ginocchia, e senza rendersene conto si trova in terra, e l’”alé alé” che monta intorno sopra di lui. I colori, perse le lenti, ormai tutti confusi in un vortice che è tutt’uno con le grida rabbiose dei fari che schizzano veloci ruggendo sul vialone.
-Vecchio stronzo, vuoi cacciare i soldi! Da', tira fuori tutto quello che hai!...
-Soldi?! Ma chi siete?...
-Ma stronzo di un vecchio stronzo...
Sente mani pesanti che lo toccano e rovistano dappertutto, tirandogli via il soprabito, strattonandolo di qua e di là nell’indifferenza degli pneumatici che aggrediscono voraci l’asfalto a pochi passi.
-I soldi? Figli miei, io non ne ho soldi...
-Sii, siii, vecchio stronzo... Tutti così i vecchi stronzi…
-Figli miei... figli miei... non ho denaro... non mi serve... Che me ne faccio io... sono un povero vecchio...
-Ohu, 'sto stronzo non ha niente!
-Non ha proprio un cazzo 'sto maledetto vecchio!
-Figli miei... figli miei...
-Figli tuoi un cazzo… - Le mani dure continuano a rovistare e a picchiare a picchiare a picchiare. L’”alé alé” è del tutto cessato e solo le auto vicine, e tanto lontane, continuano ad urlare nel buio della sera rabbiose di lampi e di vento. Ed ogni colpo che sente scaricato su di sé è come un’auto che gli si avventi addosso.
Qualcosa lo colpisce nel petto, qualcosa di duro, un urto di odio. Vede solo il ronzio del silenzio vuoto senza ombre. Poi, ad un tratto, la danza sembra riprendere, il canto pare levarsi nuovamente ma senza melodia, solo ritmo.
-Ma va fa' 'n culo! Fa' 'n kulo! Fan! Kan! Hund! Hund!
Solo per un attimo: rombi di motori, cingolati, bava e fango, gelo e dolore. Solo per un attimo: un uomo di fumo nero, un elmetto, il luccichio di un’aquila di metallo, lampeggia e si frantuma nella sua mente.
 donato pistone 2006

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