lunedì 26 dicembre 2011

Iron city


I
Muraglie imbiancate di luce
in alto, a strapiombo nel cielo,
schiacciate sul piano visivo ingannato;
in basso, confuse nell’umida ombra.
Ma non è roccia lassù, non naturale parete,
pietra una volta, poi lavorata e montata,
tutt’altro che a caso,
da muscoli buoni tirati senza riposo
dentro a spaesati miseri corpi
perduti da tutti i meridioni del mondo.

Uomini stracci strappati nel vento
sopra un oceano che è troppa distanza
per promettere il caso di potere tornare;
finiti a impigliarsi in cantieri volanti
con nebbie straniere che avvolgono
le strade, laggiù, sottili e distanti
per chi la vita deve passarla per aria
a bullonare e saldare colonne di ferro
livide e gelide lanciate in un cielo
che, come l’oceano, toglie speranza.

Sto in faccia all’America! Come stettero in tanti,
e come in tanti ancora che toccheranno Manhattan,
a guardare per aria.
Attorno scabre pareti come montagne
lo spazio raddensano e lo spingono in alto.
L’occhio s’inchioda sopra le balze,
s’aggrappa a seguire gli studiati perimetri,
scalini, cornici, salti e fessure,
che di giovani rocce hanno il loro sublime.
E le Pale ripenso e a San Martino,
ed a come gli dei siano tornati sui monti:
alture diverse per mutato destino.

Sotto questo tetto del mondo, al passo,
dove inizia la gola di Broadway,
la natura di nuovo s’impasta alla storia,
nuovo mito coagula paure e spaventi.
Anche se oggi è sepolto d’asfalto,
sibila voci questo antico sentiero
infilato a tagliare l’intera Manhattan,
e dice il vento che fu un amaro cammino,
per quelli che altro, per forza, hanno dovuto sperare.

Nuovo creato si dà che si fa contemplare,
nel mondo ch’è nuovo, anzi, forse lo era,
il gioco no, quello è vecchio davvero,
a rilancio, con la terra e le sue libere forme.
Solo la posta s’ammira, buttata sul piatto,
ché mai non residuano i pezzi invecchiati,
smarriti, scoloriti, scartati dal gioco.
Nuovo paesaggio della città naturante,
che si va per guardare e si resta estasiati:
che vittorie la Storia sulla Natura!
Perché non ci dà da pensare
a quante piaghe ha aperto una torre,
quanto sangue ha impastato alla terra una diga
un ponte un castello un muro
o una stupida tomba d’Egitto?
Si va per fotografare, per videoriprendere,
con l’esangue orizzonte che avvolge il turista:
lui sì che può stare tra queste montagne,
senza che la nebbia gli entri nel cuore
senza la stretta della paura e la fame
in un posto che è l’altro mondo,
i tuoi odori perduti, e sei solo davvero.

Senti a volte, però, dentro al sangue
uno squasso improvviso e violento,
e dietro quelle ardite opere umane
l’ombra di un avo, forse, si muove
che nella carne ha vissuto dolore
e quella carne è rinata formando te stesso,
ma segnata e piagata ora urla
la lontana orrenda memoria.

Di fronte al mondo messo in forma dall’uomo
uomini muti in coda come a pregare,
nasi arricciati per aria costretti dai tour
a fissar contro sole, veloce, ed andare;
magari annoiati, sognare la cena la sera in hotel,
la sera che a tavola gonfi beleranno di gioia:
“però, che gara la gara dell’uomo con la natura!”
Pagine e pagine sui magnifici altari,
sulle argille divine dell’uomo creatore,
poche le righe sui fatti volgari,
sulla vera follia del divino furore.
Che gara è la guerra col mare
coi fiumi ed i monti e le bestie,
col proprio fratello piegato a morire
perché un nome, un misero nome soltanto,
alla fine, possa durare un po’ più di una vita?
Che meraviglia, le Meraviglie dell’uomo!
Monumenti ai nervi sfibrati, alle schiene contorte
e spezzate, alle carni pressate e bucate,
alle mani indurite fatte attrezzi anneriti,
a famiglie straziate con colpo finale
dopo vite stentate in attesa del peggio
(che quel peggio, poi, arriva!).
Quanta passione una torre ha scavato…
Quanto sangue ha impastato una diga…
Quante ossa stanno miste al cemento…
Quanti respiri e sospiri chiusi tra calce e mattoni…
Quali pensieri hanno trascinato carriole…
Quanti occhi hanno visto morto il compagno
e nel suo volto il vuoto di senso improvviso…
Quante vite contate per mazzi,
vissute di niente, scomparse nel nulla…
Fotografare odori non lascia, né videoriprendere,
(è bene che ci sia sempre un vetro,
un diaframma tra noi e la vita).
Non lascia sapori fissare per poco l’altrove,
se l’altrove non mordi e non mastichi piano;
allora l’altrove potrebbe cambiare sentori
e sapere d’amaro.
Soltanto i colori e, al più, anche i rumori,
restano, che è troppo poco:
la superficie del mondo, di nuovo ben piatto,
da guardare alla sera, svuotati, alla televisione.

II
In pochi, ormai, conoscono la quiete
(la vita che si forma nel tempo moderato),
sono quelli che il metallo sparano nel cielo
e guadagnano col brutto con cui rifanno il mondo.
Il tempo è andato all’asta, il tempo equilibrato,
e c’è quelli che, ora, lo possono comprare.
Il ritmo della vita è diventato merce,
il ritmo naturale è trasformato in lusso.
Ce n’è sempre un poco attorno alle città,
al ferrocemento che sbuffa polvere di piombo,
attorno alle bolle d’aria condizionata;
le città dove le nubi vedi riflesse, se va bene,
come pubblicità sulle pareti di torri di cristallo.
Ci vuole del metallo, quello che non olet,
dicono, quello che si usa fare circolare,
per stare a Brooklyn a guardare l’East River
e sullo sfondo l’immobile Upper Bay.

Vago nel mattino fresco e silenzioso
come una domenica del borgo ritrovato,
leggo sui cancelli di pubblici giardini
no radios e mille altri divieti:
proibito dare noia, qui, severamente!
Vedo, però, che il cielo è tornato al posto suo
sopra di me, e il sole piove illeso sulle vie.
Basse le case e antiche e colorate,
di legno ancora molte o mattoncini,
di mite ferro battuto le ringhiere,
tutte di fresco riverniciate.
Alle finestre piante e fiori,
un gatto a volte guarda dietro i vetri
sottili alberelli al lato degli ingressi.
Le auto, qui, non grattano l’asfalto,
non mordono le strade enormi radiatori,
pochi i motori che girano silenziosamente.
Tutto sa di morbido e discreto,
direi quasi di europeo,
di vecchia cara Europa provinciale.
No, non c’è nulla di gigante qui,
nulla che voglia essere l’eterno,
e le cose sono tornate dentro al tempo
che invecchia, trasforma, ma ricorda.

E mi viene il triste solito sospetto:
che qui non possano ritrarsi
a loro scelta gli uomini comuni.
L’uomo comune ha da restare lì,
non sotto il cielo aperto,
non la fronte alta al sole,
ma sotto il ferro
che prima o poi ricade
o in crollo o in piombo o in bombe.

III
“Tourists?” “Yes, tourists.”
La donna di fianco a me sulla panchina
ci guardava già da un po’, e lo faceva,
era chiaro, per cogliere un indizio,
per afferrare al volo un fonema conosciuto,
mentre noi due fermi, nella dolce aria
tremula sul luccichio dell’Upper Bay,
conversavamo muti: segnali del volto, minimi,
o delle mani. Rari i monosillabi.
Necessità, ad un tratto, di comunicare
un pensiero articolato, sì e no, in tre parole,
e lei: “Tourists?”, senza esitare.
“Yes!”, noi, “tourists”, rispondiamo.
E lei: “Italiani?” “Noi… Yes, anzi, sì, siamo italiani.”
“Ma che parlate italiano?”, ancora lei.
“Certamente!”, dico io interdetto
per la strana domanda, ma è un secondo,
perché subito intuisco che strana non è.
“Da dove venite?”, la donna riprende.
La nostra risposta si scioglie
nel fondo dei suoi occhi marroni
che fissano noi teneramente, troppo,
le nostre sembianze in cui pare cercare
colori e contorni di memorie lontane.
“Meridionale anch’io…” allora sospira
con le labbra che tremano un poco
nel pronunciare “Campania”,
e poi, piano, sibilare “Salerno”,
come se a nominare quei luoghi
con voce più chiara e più alta,
si potesse sciuparne qualcosa.
L’Upper Bay, splendido lago,
sullo sfondo, m’abbaglia vibrando,
come quei grandi occhi velati,
i riflessi del sole di primo pomeriggio.
Così, fatico a leggere quel volto
che m’ha già detto tutto,
proprio lì, davanti ai faraglioni
di Manhattan.
“Quanto abbiamo sofferto, gli Italiani,
a venire qua. Quante ne hanno passate…”, mi dice
“Ai giorni miei, tutto era diverso…
Non come ora… Quante difficoltà sono state…”
Vorrei sapere, vorrei capire di più
della mia gente strappata alla terra,
ai suoi muri, alle strade, alle povere cose,
e volata su un mare senza orizzonti
con nelle tasche soltanto un pugno di rabbia,
come la gente che oggi viene dall’est
e ci guarda con occhi che urlano muti.
Cerco i pensieri giusti e le parole
adatte, ma lei si alza e chiama un uomo:
“Tony, Tonio” che, si vede,
sta cercando lei e l’ha vista adesso.
“Non fate vedere che siete stranieri…”,
riprende lei mentre lui arriva,
“…statevi accorti! Che non è un bel mondo!”
Ma ora devo sapere e domando:
“Quanto tempo è che siete… arrivata?”
“Quarantacinque – dice – quarantacinque anni,
è passata una vita che sono partita.”
Poi dà un’occhiata a Tonio che è ancora lontano,
adagio procede, sul viale, tra i bimbi e la gente.
Ha tempo di raccontare, ancora, la donna,
certi ricordi vanno aperti e chiusi d’un fiato:
“Mia madre è morta che tenevamo ‘na zia,
in America, e al paese nessuno,
una bambina ero, come facevo a campare!?
Poi, un giorno un cugino venuto da qua
m’ha detto “prepara la roba” che dovevamo imbarcare.
I pianti che ho fatto, pensavo a mia madre,
alla casa lasciata, alle altre sorelle.
Mia zia mi diceva che dovevo reagire,
diventare una donna e trovare un lavoro.
Mi dovevo abituare, diceva, alla grande città,
ero giovane e bella, trovare un marito.
Ma io non scendevo per strada che avevo paura,
non sapevo la lingua e mi sentivo perduta.”
Tonio è arrivato: un ometto piccino e ordinato.
Dice lei “so’ italiani”, come grande notizia,
e lui sorride garbato stringendo la mano
con una cortesia nei modi che più non si usa,
aggiungendo sereno “io sono siciliano”.
Poi gentile rivolge al turista una lingua discreta:
“Questo avete visto? Andrete a vedere quest’altro?”
La donna riprende pacata guardando mia moglie.
Lui, allora, mi parla di un tal transatlantico
attraccato, li giù, verso il Verrazzano, e fa segno col dito,
una nave gigante, una cosa che non si vede ogni giorno.
“Da quelle parti abitiamo, proprio lì, verso il ponte,
tornando, forse, passiamo a vedere.
Di certo sarà favoloso se lo fanno visitare.
Mi hanno detto che mettono paura ai turisti
di andare a guardare Manhattan,
che è pericoloso da soli girare,
sperando, così, che spendano a Brooklyn,
dove, di solito, non ci va la gente a vedere.”
Sorrido, per questo parlare leggero,
di niente, tra noi che la lingua ci unisce
e divide la storia e la vita dei mondi.
Sorrido a Tonio che vuole dirmi qualcosa
di questa giornata per lui di riposo,
per me di vacanza, ma lontani mill’anni.
Tonio non vuole parlare del tempo che è stato,
si vede, è contento di quello che ha avuto,
può, ora, guardare a distanza ciò che succede
e oggi vuol sorseggiare la vita, così, in superficie,
senza mai più pensare a ciò che è perduto.
Volgo lo sguardo che la donna già aspetta
e riprende: “E’ diverso quello che state vedendo
da quello che ho visto arrivando…”
Abbacinante è l’Upper Bay e, forse, questo
è rimasto lo stesso, ma non lo domando.
(Quanti sogni relitti saranno finiti in fondo alla baia!)
Qualcosa, poi, degli Ebrei dice, la donna,
che oggi hanno ripreso posti e potere
e dalle navi, allora, erano gettati nel mare;
che oggi li vedi girare con nere vestaglie di raso,
quelle treccine e le barbe che sono ancora bambini,
mentre allora nascondevano il muso ed il naso.
Dice di quanti Cinesi ha visto a Salerno,
l’anno scorso, il suo primo viaggio
dopo tanti anni che non vedeva l’Italia.
“Ma, come, i Cinesi in Italia?” M’ha chiesto.
Ma io a quella donna non ho saputo rispondere.
E del governo anche, del governo italiano,
di quanti giovani buoni ha fatto emigrare.
E il suo dolore, mi pare, non è dovere restare,
ma non potere sognare il suo paese lontano,
tale quale era una volta, differente da quello
che americano, in tutto, ha voluto sembrare.
Forse di più, in circostanze del genere,
non si può dire. Italiani, vicini e divisi,
universi distanti, che tante, che troppe
sarebbero da scambiare le idee le impressioni le storie,
per ricominciare un poco a capire.
Torniamo, dunque, ciascuno al suo posto:
italian tourists noi, loro Americani.
Lasciamo la panchina in un silenzio pesante,
le donne avanti d’un passo, naturalmente,
noi uomini dietro.
Io dico, per dire qualcosa, che così,
questa Brooklyn, così graziosa,
così, insomma, io non me l’aspettavo,
gradevole, pulita e silenziosa,
questa parte, dico, che guarda Manhattan.
Lui gentile mi ascolta, si guarda le scarpe,
si ferma, solleva lo sguardo, sorride bonario
e risponde che, certo, è così come dico,
ma per i ricchi soltanto.
donato pistone (revisione agosto 2006)

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