lunedì 26 dicembre 2011

Il silenzio e il vento


Il signor Matteo Marino si svegliò. Guardò fuori di sé: luce fredda di penombra. Guardò in sé: il buio. Annusò l'estraneità dell'aria: nessun richiamo familiare. Tentò di espandere la percezione verso le membra: sentì poco e, quel poco, dolorosamente.
Due mesi erano trascorsi, quando il signor Matteo Marino si svegliò: la sua coscienza vagava disarmata nella memoria, alla ricerca dell'ultimo istante di veglia da cui riannodare la continuità dell'esistenza. Ma i suoi ricordi erano solo disperse trame smagliate, frammenti di filo mozzato d'un tessuto confusamente lacero.
Altre riflessioni non ebbero modo di combinarsi: un tonfo lontano, che poi parve avvicinarsi, percorse le sue vertebre come un brivido... fruscio di abiti e un breve calpestio... voci sussurri echi, ombre colorate e sonore. Un timbro sugli altri ed un ovale marrone che si dilatò alitando: "Bene bene bene. Andiamo bene. Come si sente? CO ME SI SEN TE? EH... Be', non si sforzi, non si sforzi... Si riposi e... stia sereno. Noi abbiamo fatto senz'altro del nostro meglio. La situazione, ora, è stazionaria: non è più critica, questo voglio dirle. Ma, ora, dipende molto da lei. La ripresa noi l'aspettiamo, ma dipende moltissimo dalla sua capacità di reazione...". Chi aveva parlato? E quegli altri, chi erano? Che cosa era critico, e ora stazionario?
Il signor Matteo Marino, più che altro, percepì il tono della voce sicuro e caldo, e un piacevole senso di compagnia che lo riponevano nella normalità. Ma l'allegria, che provò istantanea, non riuscì a figurarsi sul volto, dove i muscoli non risposero alle sollecitazioni d'un sorriso. In un attimo tornò il silenzio e la strana penombra.
Ma che stava accadendo, e dov'era? Sognava? Ma perché quei dolori? Si sforzò di capire pur sentendo la lucidità venire meno. Provò solo un devastante senso di vuoto: una presenza profonda e raccapricciante strisciava tra le pieghe della sua mente. Tentò di seguirla ma non ne venne a capo, ed il suo sforzo divenne sempre più debole. Crebbe una ripugnanza avvilente, una paura inspiegabile... totale. Si addormentò.
Per giorni così. Si svegliava con orrore. Il cuore sobbalzava. Piangeva e non sapeva perché. Pensò fosse l'effetto di incubi... ma quali?... La sua memoria era una bolla vuota. Non capiva... Sentiva il corpo come un’appendice, un’espansione della mente, pronta ad estendere ed amplificare il dolore. Un dolore diverso, un dolore mai provato, che spezzava il respiro, che pesava in gola come una colpa. Una sofferenza amara e secca, come quelle dei bambini: tormenti che divorano, senza confini, senza ragioni e senza soluzioni.
Ma il malessere del fisico cominciava ad essere anche l'unico conforto, quando, seppure illocalizzabile ed indefinibile, si faceva così acuto da non lasciargli il tempo ed il modo di soffrire d'altro. In quei giorni, oltre a non riuscire a ricordare, come negli altri, non riusciva a pensare. Tutto era occupato da un solo desiderio che era come una speranza di vapore. Aspettava e sognava una fine, sperava qualcosa che sapeva d’assenza e che doveva essere come lo sciogliersi di un grumo. L’abbandono, ecco, uno stato d’abbandono che stendesse le cose, che stirasse le pieghe intricate di quel qualcosa che lo avvolgeva e lo soffocava.
Giorni come questi venivano, però, con sempre minore frequenza. La mente si andava schiarendo ed a volte pareva che i dolori sparissero, mentre tornava qualcos’altro, un senso di oscurità ed uno stato di ansia. Il tormento mutava nella paura di morire. L’istinto, ormai, tornava a dominare le cose.
Tuttavia, ancora allora, non avrebbe saputo dire se le sue pene dipendessero dal corpo, che sentiva sempre più distintamente lacerato da ferite, o dalla paura, a volte, come terrore del vuoto, o da quell’assenza totale di memoria.
Un giorno sentì le forze aiutarlo un po' più del solito. Si risolse: doveva sapere cosa era successo, doveva riuscire a ricordare qualcosa, doveva capire il senso di quella abissale desolazione.
Attorno a sé non percepiva che figure sfocate, luminosità ed ombre. Per il resto, silenzio: un silenzio dilatato in un monotono ronzio come d'insetti annoiati. La luce pareva giungere più decisa dalla sua sinistra, a modo di uno stanco pomeriggio invadente attutito da una tenda. Lo spazio che riusciva a scorgere intorno a sé non gli era in alcun modo noto. Si trovava in un ospedale... probabilmente... ma perché? Avrebbe voluto chiedere, domandare, sapere, soprattutto, dialogare: riascoltare il calore di una voce umana che lo liberasse dalle secche amare di quella segregazione senza passato, dunque, senza se stesso. Tutto era circolare, angusto e immobile. Esclusivamente il tempo, come terra disseccata cascante tra le dita, pareva trascorrere. Matteo sentiva di non essere totalmente in sé, ma la luce che filtrava attraverso quella tenda affievoliva: si faceva sera.
Insomma, qualcosa lì fuori mutava, si muoveva; lì dentro nulla, non un rumore; l'aria, intorno, raggelata. Forse dormiva e sognava... Ma no! era sveglio. Questa, probabilmente, l'unica cosa certa. Aspettava, lo sguardo verso la tenda, attento a notare qualsiasi impercettibile variazione di luminosità. Lì fuori, la normalità in quelle ombre in movimento; lì dentro, chissà cosa; attorno al suo capo, un freddo permanente; in lui, ancora il buio.
L'esperimento fu tentato più volte, e la tenda ogni volta, pian piano, si scuriva; la calotta gelata che gli cingeva il cranio pareva liquefarsi giù per le orecchie, il ronzio vaporava. Poi, si trovava a risvegliarsi: s'era, dunque, addormentato.
Un giorno, mentre tentava di rimanere vigile concentrando ogni sua energia nelle palpebre, la tenda s'infiammò di luce. Il pomeriggio esplodeva arrogante nell'ora esausta prima del tramonto. Erano le quattro, e Matteo Marino guidava col sole in faccia. Venti anni passati su quegli autobus. Mai una strada diritta, larga, sulla quale potere rilasciare i muscoli tesi della schiena, ormai induriti dal lavoro e dagli anni. Come tutto, lì intorno, dopo un po'.
Era di un paese sul Gargano: tutto curve e tornanti da quelle parti. Proprio a questo pensava e guidava. Il destino: nascere così, quasi per una beffa, a due passi dal Tavoliere piatto come il mare, ma dover buttare la vita su quel paesaggio amaro, secco e riarso, come tutto il foggiano, e anche ruvido e contorto. A questo pensava e guidava, tenendo a freno quelle tonnellate di ferro, plastica e pendolari che gli gravavano addosso martellando sui reni esausti, mentre affrontava in discesa quelle maledette curve – sempre le stesse -, col sole che, ad ogni svolta, gli schizzava negli occhi e lo schiaffeggiava.
Sicuro: era stata la maligna mano della sorte a piantare quei sassi aspri ed ammalianti proprio lì, senza alcun senso. Quel destino (se no come altro spiegarlo?) che continuava a giocare con questa gente gettata nella smemoratezza di giorni assolati, nella disperazione dell'arretratezza, d'un ritardo che non si colma e che mai potrà recuperarsi inciampando tra stupide pietre mitologiche. Un destino del diavolo che ha sempre significato sottomissione rassegnata non a qualcuno, ma alla vita stessa, all'inutilità di una vita dura seminata negli spacchi di sussurranti rocce sabbiose.
E Matteo Marino guidava da venti anni: sempre le stesse strade, sempre le stesse curve; uguale il sole, uguale la polvere. Guidava e pensava, e la sua testa, da vent’anni, girava sempre sulle stesse cose: quale sviluppo poteva mai esserci in un luogo che non è pianura, non mare, non collina e neppure montagna? Un luogo dove d'inverno nevica, come un presepio del centro commerciale, e d'estate la terra si sbriciola nel vento, e vola via come molti; un luogo dove le pietre parlano, ma sono spugne secche. Il silenzio e il vento... E' il destino che si diverte a vedere questa gente che, da un'altura bella e senza scopo, guarda e invidia gli altri giù nella pianura o quegli altri ancora sul mare. Gente che può solo, seduta sopra sassi taglienti, sentire quanto è strano tanta acqua da una parte e tanta sete dall'altra. A questo pensava da vent’anni, e guidava. E quello sperone gli si presentava, con sempre maggiore chiarezza, quale simbolo e monito: lì la terra non avrà mai acqua, non avrà mai speranza di ricchezza; e, per il resto, l'uomo, sempre più vecchio, non avrà altro che il ricordo, il pensiero, ed il rimanere uomo. Mentre i giovani non ci saranno, ed i sassi, dopo millenni, riprenderanno ad invecchiare e si sbricioleranno inascoltati. Il silenzio... Chi avrebbe mai ascoltato queste parole, chi avrebbe mai udito ciò che il vento racconta? Sempre meno erano quelli che restavano, e sempre di più, ormai, quelli istupiditi dalla televisione e dal maledetto benessere. Così, in quel luogo vero senza tempo, entrava il mondo, falso, della contemporaneità. Ed il mondo gridava di previsione e progetto e azione. Su quei monti il destino danzava al ritmo sempiterno della profezia. Questo è il destino di quella terra, questo è il destino di quegli uomini, proprio come il suo destino era di guidare sempre su quei tornanti e di sbattere il volto su quel sole accecante del tramonto.
A tutto questo pensava, ma, ormai, da molto tempo, non ne parlava più. L'affrancamento che il suo pensiero aveva tentato gli era valso non altro che disprezzo e solitudine. In anni oggi lontani era stato, in quel paese che condivideva l'adorazione per la Madonna e la Buonanima, Matteo Marino il comunista; più tardi, era diventato, semplicemente, Matteo Marino il pazzo. Saggiò sulla propria carne che la gente preferisce non vedere, preferisce non sapere che al di là del destino che è nelle cose della natura, c'è un destino, forse meno fatale, che è nelle cose dell'uomo, e che ne fa molti servi di pochi. Mentre si potrebbe tentare di non essere né degli uni né degli altri. Così, poco alla volta, finì per tacere del tutto, chiudendosi in sé, accettando la sua personale sorte, ma continuando a pensare.
Non s'era sposato; viveva da solo nella casa dei suoi genitori; le tre sorelle erano andate via.
Ricordava ancora Cettina, la più piccola. Per tre anni avevano vissuto loro due soltanto. Matteo Marino era stato felice. Aveva lavorato e dato, così, da vivere alla sorella. Quella sorella, così buona, che non aveva mai pensato ad altro che alla casa. Erano stati anni felici, per Matteo Marino, in cui si era sentito utile. Il suo compito era stato portare avanti la famiglia, prendersi cura di quella sorella che non aveva mai desiderato scappare come le altre due. Quelle due che avevano sempre fatto come mosche dentro a un bicchiere, finché qualcuno le aveva liberate. E si erano perse nell'aria. Cettina, invece, era rimasta al suo posto. E Matteo Marino, col tempo, aveva preso ad amarla come fosse una figlia. La piccola Cettina pareva non essere cresciuta: bassina magra silenziosa. Eppure era stata così importante, nella sua vita, quella presenza che chiunque avrebbe detto insignificante... Il silenzio di Cettina era parso venire da una sapienza ancestrale, come i suoi movimenti lentiuguali.
Ma anche Cettina, un giorno, aveva parlato, girando nella stanza, proprio come avevano già volteggiato le sorelle, come una mosca impazzita. E aveva detto che era stanca di quella vita, era stanca di quello che si diceva in paese, era stanca del fratello e delle sue attenzioni. Perché non si era trovato una moglie quando era stato tempo? Che significava vivere così, con tutto il paese contro? Matteo Marino, quella volta, non aveva capito. Sapeva che in paese dicevano che era matto; dicevano che prima aveva insultato mezzo mondo e poi non aveva più parlato; dicevano "hai fatto come Matteo Marino", quando uno faceva il diavolo a quattro per qualcosa e, poi, rinunciava a tutto. Ma, quella volta, non aveva capito. Sapeva che nessuna donna l'avrebbe mai voluto, ma... quella volta non aveva capito. Non aveva capito come proprio Cettina dicesse quelle cose, come proprio lei che pareva aver capito molto prima di lui, da sempre, capito tutto, capito che il silenzio era l'unica cosa... Il silenzio e il vento... Quella volta, lui, non aveva capito, e Cettina era volata via.
       -Volata?!... L'ha fatta scappare, povera figlia! Chissà cosa le ha fatto?!...
       -Come chissà cosa le ha fatto?!... L'ha cacciata!... Prima, ha fatto quello che ha voluto, poi l'ha buttata in mezzo a una strada.
       -Ma come, così, da un giorno all'altro?
       -Da un giorno all'altro: che ne possiamo sapere noi? Sono anni che va avanti... Può darsi che è stata lei... non ne poteva più e... Ma può darsi che è stato lui! S'è scocciato e l'ha buttata fuori...
       -Buttata fuori di casa...
       -Un coraggio...
       -Che coraggio?!... Pazzo, è pazzo!
       -Povera figlia... Ve la ricordate? Buona buona, semplice semplice...
       -Quante ne avrà sofferte...
       -Quante sì... Un animale...
       -Un animale, un pazzo.
Il maresciallo volle spiegazioni. Matteo Marino non aveva capito e disse che non aveva capito. Il maresciallo disse che aveva capito lui, e non da ora; e che stesse attento Marino, stesse molto attento; disse che, secondo lui, i pazzi non esistono, esistono solo i fessi e i criminali e quelli che sono e l'uno e l'altro, e, certamente, non possono avere né patente di guida né responsabilità.
Responsabilità...
Ecco, indovinava in fondo, in quel bagno d'asfalto vitreo sfavillante, l'ultima curva pericolosa, poi il percorso sarebbe stato un po' più riposante. Cominciava a frenare: il pedale morbido, troppo, si sentì precipitare in quel bagliore, vide netta la curva e il muricciolo del tornante (nessuna via di fuga), un colpo sotto di sé, il cielo blu inondato di luce sul profilo dei monti, più nulla.
Responsabilità...
Con enorme sforzo riuscì a voltare lievemente la testa. Vide un groviglio di tubi che sfioravano il cuscino e gli davano vita, e diversi colori che scorrevano, alcuni ritmicamente. Scivolò lo sguardo verso il basso, vide una mano. Non la sentiva. Percepiva appena il braccio. Si concentrò, e fece forza fin dove sentiva l'arto. La mano si mosse un po'. Continuò, con sforzi ad intervalli, e riuscì, facendo perno sul gomito, a sollevare la mano. La sentiva debolissima, però la sentiva, migliorava. Ora, concentrava la forza sul polso. Le dita, poco alla volta, presero a rispondere. Riuscì a chiudere il pugno. Una volta, due volte. La terza sentì chiaramente i polpastrelli serrarsi nel cavo del palmo. Fece ancora leva sul gomito, l'avambraccio ruotò e la mano andò a cadere sul cuscino. A pochi centimetri dalla mano, i tubi. Un attimo, e quella mano sprigionò l’ultima vigoria che spirò da lontano.

(1° premio Festival delle Arti, Bologna, 2004)


L'intervista apparsa su Il Rosone nel numero sett-ott 2004

Il tema del silenzio permea di sé l’intera novella. Con la sua assordante denuncia e rinuncia, con la sua immota sempiterna grandezza, che rende immortali tutte le realtà cui, paradossalmente, si rivolge. Il silenzio di una camera di ospedale, preludio ad una rinascita, rotto dalla rassicurante voce del medico. Il silenzio aspro dei monti del Gargano, rotto solo dal rumore del vento. Il silenzio rassegnato di Cettina, rotto dalle ingiurie profferite nel momento in cui decide di abbandonare il fratello Matteo. Infine, il silenzio di Matteo, che si chiude in sé accettando la sconfitta che gli viene inflitta dalla comunità in cui vive…
Il silenzio non sempre vuol dire rinuncia o abbandono del campo. A volte può essere l’unica risposta dignitosa alla volgarità ed alla banalità. Ci sono momenti in cui il tutto intorno si rivela cosi oppressivamente banale e volgare, momenti in cui ogni cosa pare colpirci con tale pesante non senso da non lasciare altra via… Il silenzio apre, quindi, una possibilità di ascolto diverso, fuori dal chiasso. Il vento riacquista così la sua voce, le sue infinite modulazioni, i suoi sempre nuovi profumi, la sua freschezza. Io mi domando: chi è più solo e sconfitto? Matteo Marino che ha riconquistato il vento, il pensiero, le proporzioni dell’esistenza umana, o la comunità del pensiero unico, delle facili e comode certezze immersa nel chiacchiericcio? Nelle mie intenzioni il titolo vuole essere fortemente evocativo, forzando da subito l’angusta connotazione negativa che accompagna il sostantivo silenzio. Silenzio non equivale a chiusura. Certo, può significare indifferenza e rifiuto, ma è anche necessario nella sempre più negletta pratica dell’ascolto.
Il racconto comincia con una serie di immagini oniriche, sospese tra la veglia e il sonno. Pare che la mente di Matteo raggelata dal coma veda ancora più lucidamente la realtà. Attraverso l’inconscio e l’apparente irrazionalità del buio d’un tratto s’illumina fino a bruciare, come la tenda infiammata dalla luce…
La forma della novella si basa sul concetto di exemplum. La novella non è una “storia corta”, ma un fatto esemplare. Deve significare. Io credo che oggi non sia tanto il caso di cercare significati, quanto di scardinare i pensieri monolitici, la cultura non cultura, le idee dominanti che diventano prigioni dell’anima. E la forma della novella si offre, credo, perfettamente allo scopo. Mediante la situazione paradossale o critica, l’intreccio narrativo forzato, le frizioni esasperate, le immagini rapide ma fortemente evocative, propone spunti, occasioni di riflessione. Qui il crash è dato da un risveglio che pone un uomo riemerso alla vita fuori dalla vita. L’assenza di memoria, infatti, impone la necessità di recuperare tracce del passato per riappropriarsi dell’identità. Attraverso tale dolorosa operazione di recupero riemergono pian piano i nodi dell’esistenza. E riemergono più netti perché stagliati nel vuoto dell’amnesia. Giorgio Bocca ha detto che il male profondo della civiltà odierna è il “troppo”, il troppo di tutto che soffoca le nostre vite, le nostre autenticità e, dunque, la possibilità stessa della ricchezza delle diversità. Be’, l’idea è questa: una sorta di cernita non delle cose, ma dei pensieri delle immagini delle sensazioni delle emozioni fondamentali in noi e per questo più preziose, da non lasciare disperdere nel “troppo”.
Matteo Marino il pazzo, il comunista, è un uomo semplice, che ha la capacità di pensare criticamente, e che non accetta la rassegnazione sottomessa dei suoi conterranei…Quanto c’è in lui di te, o della gente meridionale che hai conosciuto?
Ovviamente c’è molto di me, ma non è certo questo importante. In più c’è una riflessione ed una speranza. La riflessione parte da un dato: nella mia classe del liceo eravamo una trentina, due sono quelli che sono tuttora a Foggia; gli altri, me compreso, hanno voluto o dovuto “volare via”. Una comunità che non ha occasioni di confronto è una realtà che mi fa rabbrividire. Dall’altro lato vedo che il pensiero unico lungi dall’essere una terribile profezia, si sta inverando sostenuto dal forse più grigio periodo della civiltà occidentale. Insomma, banalizzando: la grande città del nord è un mostro che devasta milioni di private quotidianità; mentre la piccola città meridionale vive un suo teatro che si riracconta a sé stesso, capace con non meno violenza di annientare le diversità dei singoli. A livelli diversi e su piani differenti stiamo costruendo sistemi sociali che contengano esistenze fragilissime. La speranza è che le diversità riescano a riemergere come valore prezioso, che le persone coltivino una socialità vera fondata sull’ascolto e non sulla definizione in negativo degli altri da sé. E questa speranza si fonda sulle persone e non può essere né meridionale né settentrionale. Non c’è dubbio, tuttavia, che chi è costretto a sradicarsi acquisti un’ampiezza, ricchezza e complessità di prospettive che rende possibile, più agevolmente, vedere le cose al di là del facile “senso comune”.
Nel racconto viene citato espressamente il Gargano: terra carsica fredda e arida, spesso abbandonata dai giovani per fuggire alla ricerca di un benessere effimero e apparente, che ammorbidisce e svilisce il forte carattere dei nostri meridionali…
Il Gargano è anche luogo non fisico, il mio Gargano è soprattutto luogo metaforico. Per le ragioni già espresse. Ogni comunità che perda le sue giovani forze è ovviamente morente; ogni comunità chiusa che non voglia o che non sappia attirare, per arricchirsene, le altrui risorse è pericolosa per i suoi membri e per gli altri. Questo Gargano metaforico, dunque, è per me, ad esempio, la povera comunità dei leghisti come anche la grande comunità degli Statunitensi che non si recano a votare ed ingrassano in massa paurosamente, agitando bandierine a stelle e strisce, totalmente ignorando il resto del mondo, credendo di essere il mondo.
Il suicidio del protagonista pare un’ennesima accettazione rassegnata del destino, cui non ci si può opporre. Matteo non combatte più, e rifiuta la responsabilità della vita e del prendersi cura degli altri, che non può più sopportare…
Per “prendersi cura degli altri” è necessario che questi “altri” lo consentano. Il racconto propone proprio questo. Il protagonista ha sperimentato il rifiuto della comunità, il rifiuto delle sorelle. E questo rifiuto è un rifiuto profondo, un rifiuto radicale perché è, per l’appunto, rinuncia all’ascolto, rinuncia di ogni forma di autentico dialogo. Voglio essere più chiaro: io non voglio proporre significati univoci, ma solo occasioni di riflessione, come ho già detto. Tu dici: “Matteo non combatte più”. Ma gli altri, forse, combattono? Io non voglio dire Matteo ha ragione o Matteo ha torto. Non voglio tratteggiare un protagonista positivo o negativo, vincente o perdente. Non ho alcuna pretesa di definire un eroe moderno negativo o positivo o maledetto. Il punto è un altro. Ciò che più mi sta a cuore è indagare il senso di noi e delle nostre relazioni. Per dialogare, per confrontarsi, bisogna essere almeno in due e con la volontà di farlo, cioè riconoscendo all’altro la dignità di possibile portatore di verità. Altrimenti la partita non ha luogo. Questa, peraltro, è anche la regola aurea della democrazia. Se non accetto l’ipotesi a priori che l’altro da me può essere portatore di una verità più vera della mia finisco per credere che la mia sia l’unica verità vera, con tutte le ovvie e terribili conseguenze. Quello che mi sta a cuore è il senso di noi, dalla dimensione più intima sino a quella politica (in senso nobile). I problemi della politica non sono estranei ai problemi del nostro particolare.
Chi non riesce ad integrarsi nella comunità in cui vive è un perdente, perché il disprezzo e la solitudine lo hanno già condannato ad una esistenza di emarginazione e di distanza. Il dramma di Matteo è doppio: egli vive dolorosamente la condizione tragica di miseria e di abbandono della sua gente, ed è, allo stesso tempo, deriso proprio dai suoi conterranei incapaci di comprendere e di acquistare consapevolezza e dignità di popolo…
Precisamente. Se gli altri preferiscono non sapere, non vedere… non resta che il silenzio. Ma a perdere è il popolo che non c’è (il volgo disperso, diceva Manzoni). A perdere è la comunità che si fa schiava, prima che di altri uomini o di cose, di poche consolatorie idee, di nebbie bugiarde che chiudono l’orizzonte, degli idola di cui parlava Bacone.
donato pistone (6 novembre 2009)

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