… rileggendo Essere e tempo di Martin Heidegger
Cap. 35 (“La chiacchiera”)
Il linguaggio, in quanto espressione, è già sempre comprensione ed interpretazione.
Si tratta di una interpretazione già esistente, formatasi sulla base di una capacità di comprensione media.
“La comprensione, sedimentatasi così nell’espressione, riguarda tanto il disvelamento dell’ente qual è via via raggiunto e tramandato, quanto la rispettiva comprensione dell’essere, le possibilità e gli orizzonti disponibili per l’interpretazione ulteriore e la relativa articolazione concettuale”.
La caratteristica della comprensione media, radicata nel linguaggio espresso, garantisce la possibilità della interrellazione linguistica quotidiana (o banale). Tale interrelazione non permette di ampliare la sfera di comprensione dei soggetti che dialogano (in tal senso il dialogo è inutile), ma consente di percepire la rassicurante sensazione della comunanza nella possibilità di comprendere il mondo. Tuttavia, questa è solo la dimensione della “chiacchiera”.
“La chiacchiera […] costituisce il modo di essere della comprensione e dell’interpretazione dell’Esserci quotidiano. […] In virtù della comprensione media che il linguaggio espresso porta con sé, il discorso comunicato può essere in gran parte compreso anche senza che colui che ascolta arrivi a essere in una comprensione originaria di ciò sopra cui il discorso discorre. […] Ciò che è compreso è il discorso, il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e superficialmente. Si intendono le medesime cose, perché ciò che è detto è compreso da tutti nella medesima medietà”.
Di fronte all’orrore del vuoto e dell’ignoranza; di fronte al terrore che genera il silenzio, il dubbio, la solitudine; di fronte al panico di essere soli ed incapaci di interpretare con autenticità e coraggio tutto ciò che è, l’uomo si rifugia nel chiasso della chiacchiera che regala la consolatoria (ma equivoca) sensazione di pienezza e di conoscenza. Perché si realizzi questo effetto terapeutico, la chiacchiera va ripetuta, va diffusa, va urlata. Ed è per tale via che (nell’inconsapevolezza dei più) si instaura il dominio del “è così, perché così si dice”. Il linguaggio (chiacchiera) diventa un’onda dolce sulla quale è piacevole galleggiare, meglio se a pancia in su accecati dal sole, evitando il turbamento che dà l’oscurità della profondità delle acque.
“Ciò che conta è che si discorra. L’essere-detto, l’enunciato, la parola, si fanno ora garanti della genuinità e della conformità alle cose del discorso e della sua comprensione. E poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto ontologico originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso comunica non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la diffusione e la ripetizione del discorso. Ciò che-è-stato detto come tale si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché così si dice, in questa diffusione e in questa ripetizione del discorso, nelle quali la incertezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza, si costituisce la chiacchiera”.
La comunicazione linguistica, così svilita, perde ogni possibilità di essere occasione di accrescimento, perde ogni capacità di essere ponte verso l’alterità, perde ogni potere di penetrazione e di accoglimento. La parola diventa laccio e catena che restringe l’orizzonte, lo sguardo si chiude in un angusto quadrato di misera prigionia. Ed il discorso offre una rete già tramata sulla quale adagiarsi (nella quale lasciarsi impigliare). Questo è il regno in cui tutto sembra ovvio (semplicemente perché ripetuto, ripetuto e ripetuto ancora) e per ciò stesso sicuro, fondato e radicato. E’ il regno della serena infelicità! Fondato sull’inautenticità di un susseguirsi di momenti sempre uguali, in cui le parole sono poche e sempre le stesse, in cui i gesti divengono involucri rituali, le ore cadenze di una semplice meccanica del sopravvivere. Il pensiero vi si adagia e ripercorre in circolo una grammatica stantia senza aperture. La sensibilità avvizzisce galleggiando in quello che non è più mare ma stagno nei cui fetidi vapori, marcisce ogni luce. E’ il mondo senza barlumi di libertà, è il mondo dell’abbandono e della dipendenza.
“La chiacchiera, trascurando di risalire al fondamento di ciò che è detto, è quindi di per sé una chiusura. Questa chiusura è ulteriormente aggravata dal fatto che la chiacchiera, con la sua presunzione di avere raggiunto la comprensione di ciò di cui parla, impedisce ogni riesame e ogni nuova discussione, reprimendoli o ritardandoli in modo caratteristico. […] L’ovvietà e la sicurezza di sé proprie dello stato interpretativo medio fanno sì che, sotto la tutela di quest’ultimo, resti nascosto al rispettivo Esserci il carattere spaesante della sospensione in cui egli è votato a una crescente infondatezza”.
La spaesante sospensione e la crescente infondatezza restano nascosti all’uomo che viva inautenticamente, ma sono! e sono come un grumo oscuro che prima o poi può iniziare a pesare aprendo voragini di non senso…
Cap. 36 (“La curiosità”)
“L’essere-nel-mondo si risolve completamente nel mondo di cui si prende cura. Il prendersi cura è guidato dalla visione ambientale preveggente che scopre l’utilizzabile e lo conserva come scoperto. La visione ambientale preveggente indica a ogni operazione e a ogni produzione la via del procedere, i mezzi dell’attuazione, l’occasione adatta, l’istante opportuno. Il prendersi cura si acquieta in due casi: o per riprendere forza o perché l’opera è compiuta”.
Quando il prendersi cura si acquieta, si apre lo spazio della curiosità…
“La visione ambientale preveggente, divenuta libera, non ha più alcun utilizzabile del cui avvicinamento possa prendersi cura. […] L’Esserci cerca ciò che è lontano unicamente per portarselo vicino nel suo aspetto. L’Esserci è interessato solo all’aspetto del mondo; in questo modo di essere egli tende a liberarsi da se stesso quale essere-nel-mondo, a liberarsi dall’essere presso l’utilizzabile quotidiano più vicino. La curiosità, ormai liberata, non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, per <<essere-per>> esso, ma si prende cura solamente di vedere. Essa cerca il nuovo esclusivamente come trampolino verso un altro nuovo. Ciò che preme a questo tipo di visione non è la comprensione o il rapporto genuino con la verità, ma unicamente le possibilità di abbandonarsi al mondo. La curiosità è perciò caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta. Essa non cerca quindi nemmeno la calma della contemplazione serena, dominata com’è dalla irrequietezza e dall’eccitazione che la spingono verso la costante novità e il cambiamento”.
La curiosità, dunque, come via per “abbandonarsi al mondo”, quel finto vivere vivere vivere che sembra un interessarsi a tanto, per non interessarsi, in verità, a niente, e che si traduce in uno smembrarsi nel mondo, in uno sciogliersi nel mondo, vanificando ogni possibilità di autenticità, di identità. Ed ecco disvelato l’elemento caratterizzante questa “curiosità quotidiana”: la distrazione. La fame di distrazione del vivere apparentemente in modo pieno. L’esistenziale distrazione di Heidegger richiama alla memoria l’etico <<divertissement>> di Pascal che scriveva: “L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. Perché è esso che ci impedisce principalmente di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso, noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte”. E quest’ultima indicazione circa la funzione specifica del <<divertissement>>, ci riporta ancora più vicino al “vivere-per-la-morte” heideggeriano.
La chiacchiera e la curiosità sono aspetti distinguibili ma intrecciati del tessuto della media quotidianità in cui si dispiega l’inautenticità travestita da vita vera.
“La chiacchiera fa da guida alla curiosità e dice ciò che si deve aver letto e visto. L’essere-ovunque-e-in-nessun-luogo della curiosità è affidato alla chiacchiera. Questi due modi di essere quotidiani del discorso e della visione, caratterizzati dallo sradicamento, non sono semplicemente presenti l’uno vicino all’altro; un’unica maniera di essere li tiene costantemente uniti. La curiosità per la quale niente è segreto, la chiacchiera per la quale niente è incompreso, danno a se stesse, cioè all’Esserci che le fa proprie, sicura malleveria di una vita che si pretende veramente <<vissuta>>”.
E’ la dimensione, questa, del tutto già visto, delle mille esperienze, del sappiamo pressoché tutto, del ci parliamo addosso, del viaggiamo il mondo, dell’ho tanti amici, del vivo tutto con passione, della velocità del fare e rispondere, dell’essere leggeri, del ridere e ridere, del divertirsi – appunto!- e di che noia la noia!... del vaporizzare il tempo…
Cap. 37 (“L’equivoco”)
“Tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso, ma in realtà non lo è; oppure non sembra tale ma in fondo lo è. […] L’equivocità che caratterizza lo stato interpretativo pubblico accredita il parlare-prima e il presentimento curioso come l’autentica realtà, screditando l’esecuzione e l’azione come qualcosa di secondario e privo di interesse. […] Nell’equivoco, l’Esserci è sempre nel <<Ci>>, cioè nell’apertura pubblica dell’essere-assieme, in cui la chiacchiera più diffusa e la curiosità più sfrenata creano l’<<animazione>> nella quale tutto accade quotidianamente in modo tale che in fondo non accade mai nulla”.
Che tutto sembri accadere, senza che nulla accada! La chiacchiera, la curiosità e l’equivoco sono le catene più solide della staticità, di una realtà congelata in cui nulla veramente si muove, ed in cui tutto ciò che è gridato in una (solo) apparente esplosione di vita vera è sempre ed in ogni modo reversibile perché mai inverato. E’ il fiume di Eraclito trasformato in stagno, in cui è possibile la tranquillizzante esperienza di potersi bagnare più volte, sempre, nella stessa acqua, fingendo a se stessi di nuotare nell’oceano. Il senso di equivoco rimanda ad immagini di mescolanza, di soluzione che garantisca (apparentemente) il sapere essere nel mondo, il potere essere con l’alterità. Ma ciò è più propriamente confusione in cui l’accatastamento delle vite suggerisce immagini di accumulo e dispersione in cui tutto diviene indistinguibile. In cui nulla dell’altro da sé può essere comprensibile.
Cap. 38 (“Deiezione ed esser-gettato”)
“Chiacchiera, curiosità ed equivoco caratterizzano il modo in cui l’Esserci è quotidianamente il suo <<Ci>>, cioè l’apertura dell’essere-nel-mondo. […] Deiezione […] sta a significare che l’Esserci è innanzitutto e per lo più presso il <<mondo>> di cui si prende cura. Questa immedesimazione in… ha per lo più il carattere dello smarrimento nella pubblicità del <<Si>>. L’Esserci è, innanzi tutto, sempre già de-caduto da se stesso come autentico poter-essere e deietto nel <<mondo>>. Lo stato di deiezione presso il <<mondo>> significa l’immedesimazione nell’essere-assieme dominato dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco”. E’ questa “l’inautenticità dell’Esserci […], un modo eminente di essere-nel-mondo, modo in cui l’Esserci è completamente stordito dal <<mondo>> e dal con-Esserci degli altri nel <<Si>>”.
E ancora più chiaramente…
“La chiacchiera apre all’Esserci la comprensione dell’essere-per il suo mondo, per gli altri e per se stesso; ma apre in modo tale che questo comprendente essere-per assume la forma di una sospensione senza fondamento. La curiosità apre tutto e qualsiasi cosa, ma in modo tale che l’in-essere è ovunque e in nessun luogo. L’equivoco non nasconde nulla alla comprensione dell’Esserci, ma soltanto per precipitare l’essere-nel-mondo nello sradicamento dell’<<ovunque e in nessun luogo>>”.
Questa è la dimensione più quotidiana in cui è gettato l’uomo. Quasi un moto che sa di abbandono al mondo, di dispersione nel fuori da sé, di sradicamento e caduta per essere presso l’alterità, ma nel modo più inautentico che tutto rende uguale e privo di identità e significato, pur in presenza della sensazione contraria.
L’essere-nel-mondo, che è originariamente caduta deiettiva nello stato di sospensione senza fondamento, nello smarrimento nel <<Si>>, è caratterizzato dalla tentazione, dalla tranquillizzazione, dall’estraniazione e dall’autoimprigionamento.
Tentazione…
“Ma se è l’Esserci stesso che nella chiacchiera e nello stato interpretativo pubblico offre a se stesso la possibilità di perdersi nel <<Si>>, di cadere deiettivamente nell’infondatezza, vuol dire che è l’Esserci stesso a preparare a se stesso la tentazione costante della dieiezione. L’essere-nel-mondo è in se stesso tentatore”.
Tranquillizzazione…
“…lo stato interpretativo pubblico mantiene l’Esserci nella sua deiettività. Chiacchiera ed equivoco, l’avere tutto visto e tutto compreso, creano nell’Esserci la presunzione che l’apertura dell’Esserci così disponibile e dominante sia tale da garantire la certezza, la purezza e la pienezza delle possibilità del suo essere. La sicurezza di sé e la disinvoltura del <<Si>> diffondono un’indifferenza crescente verso la comprensione emotiva autentica. La presunzione del <<Si>> di condurre una vita piena e genuina crea nell’Esserci uno stato di tranquillità: tutto va <<nel modo migliore>> e tutte le porte sono aperte”.
Estraniazione…
“Una curiosità polivalente e un’onniscienza incontenibile creano l’illusione di una comprensione universale dell’Esserci. In fondo resta però indeterminato e neppure indagato ciò che si deve veramente conoscere. Non ci si rende conto che la stessa comprensione è un poter-essere dell’Esserci che può avere via libera unicamente nell’Esserci più proprio. In questo compararsi con tutto, tranquillizzante e tutto comprendente, l’Esserci è spinto in un’estraniazione in cui nasconde a se stesso il suo proprio poter-essere”.
Autoimprigionamento…
“… l’estraniazione che chiude all’Esserci la sua autenticità e la sua possibilità, fosse pur quella di un genuino fallimento, non lo condanna ad essere un ente che egli stesso non è, ma lo sospinge nella sua inautenticità, cioè in una possibilità di essere che gli è propria. Il movimento dell’estraniazione deiettiva, tentante e tranquillizzante, porta l’Esserci a imprigionarsi in se stesso”.
Ma questo stato di deiezione, in cui è precipitato l’uomo nella sua quotidianità, in cui l’Esserci si è perduto e vive lontano da sé, in cui ci si scioglie tranquilli nello stato interpretativo pubblico, in cui ci si incatena chiudendo fuori da noi le possibilità del poter-essere autentico, “non è un dato di fatto né un fatto compiuto una volta per sempre”.
Ne va del poter-essere, ne va del poter-essere-nel-mondo. “D’altra parte, l’esistenza autentica non è qualcosa che si libri al di sopra della quotidianità deiettiva; esistenzialmente essa è soltanto un afferramento modificato di questa”.
[Il virgolettato è tratto da Essere e tempo, M. Heidegger, ed. italiana Longanesi a cura di Franco Volpi sulla versione di Pietro Chiodi]
dp (27 novembre 2009)
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