lunedì 26 dicembre 2011

Con la nebbia negli occhi


Faccio l’idraulico: caldaie d’appartamento. Va bene. Con tutti gli obblighi di legge, il mestiere tira, comodo, e fai bei soldi. Mai un attimo fermi, la settimana è piena. La paga è buona, poi ci sono i premi: io li prendo tutti, la maggior parte in nero che è bellissimo mettersi quella moneta pulita pulita in tasca. Io non mi tiro indietro se il titolare chiama anche fuori orario. Lui si fida di me, ed io mi fido di lui. Lo so che lui è uno preciso e onesto e i fuoribusta, per chi lavoro sodo, ci sono sempre. E, in fondo, a me non è mai costato più di tanto, per dire, stare anche fino alle nove, le dieci, con una vecchia che ha paura che il riscaldamento salti di nuovo. E tu la convinci con la pazienza e, se non basta, con la testa, come mi ha insegnato proprio lui: “Devi guardare in faccia il cliente – dice -; noi vendiamo anche tranquillità, non te lo dimenticare. C’è chi la compra al prezzo ordinario, quello del listino, e chi la vuole per forza pagare di più che così sta più tranquillo. E, quindi, se uno ti dice che non va e per te va, ma quello insiste, tu gli smonti la caldaia e poi gliela rimonti, pezzo per pezzo – dice - e con calma. Alla fine, gli dai ragione, ma senza fargli perdere fiducia. C’era da registrare questo, gli dici, da pulire quest’altro, da disincrostare in quel punto, niente di grave, una cosa che potevamo fare pure la prossima volta… Senza mai dargli l’impressione che tu non t’eri accorto della cosa, ma che, non essendo grave, stavi facendo l’onesto per fargli risparmiare quello che, a questo punto, per tutto il tempo che hai impiegato, ti fai pagare”.
E la settimana va. La sera, da casa della mia ragazza, passo sempre. I genitori mi conoscono e mi fanno salire. Si fidano, e vorrei vedere… Vanno a letto presto e noi due restiamo sul divano a vedere la tivù. Lei mi fa sempre trovare qualcosa da cenare. Io butto giù, col mangiare su una sedia, che a volte non ci vedo dalla fame. Poi, distendo le gambe e, manco a dirlo, m’addormento: sono stanco morto. La mia ragazza mi sveglia alle undici e mezza o mezzanotte, quando è finito quello che sta vedendo in tivù. Mi bacia. Io mi tiro su con la nebbia negli occhi. Lei m’infila nelle tasche chiavi, cellulare, sigarette, accendino, insomma tutto quello che ho poggiato sul tavolo. Sulla porta mi bacia dolce di nuovo, e io vado. Salgo in auto – che d’inverno il sedile è di ghiaccio e tremo – e torno a casa dei miei e casco morto sul letto nella mia stanzetta.
La settimana corre, ma poi arriva il sabato e la musica cambia. Mi sveglio tardi e penso alla mia auto, che è giù nel garage del babbo. Meglio la mia dentro che la sua, da quando l’ho presa. Lui ha una vecchia Fiat, con gli interni che puzzano di vecchio. Mi ricordo ancora che ci andavamo tutti insieme dalla nonna la domenica e non vedevo l’ora di guidarla io. La mia è un’Audi station wagon, nera, e sembra nuova per come la tengo. L’ho comprata di seconda mano, ma è pulita, profumata e lucente. Durante la settimana uso l’auto aziendale, così la mia, il sabato, è sempre in ordine. Mi vesto bene il sabato, cioè diverso, con la roba bella che ho comprato all’Outlet, alla moda. Vado a prendere la mia ragazza, e stiamo insieme tutto il giorno. Qualche volta mangiamo dai suoi a pranzo. Spesso, però, giriamo per la provincia e magari mangiamo fuori. Il fatto è che ci piace parlare, tra di noi, da soli, nei giorni che non si lavora, fuori città: abbiamo tante idee, sia io che lei, per il nostro futuro, e i progetti, ci sembra che ci vengono meglio cambiando aria. Parlando, t’accorgi delle cose a cui non hai pensato e che, invece, è meglio se ci pensi per tempo, così quando arriva il momento sei pronto. Avere dei sogni, tutti sono buoni; ma avere le idee chiare non è cosa da niente. Parliamo bene tra noi perché ci troviamo su tutto: vogliamo andare avanti noi due. La volontà non ci manca, mica come tanti che si piangono addosso e non combineranno mai niente. Siamo gente che non si tira indietro e ci faremo bene. Poi, verso sera, andiamo in collina, abbiamo un posto lassù che è tranquillo, e facciamo l’amore nella mia macchina. Dopo, a volte, se è presto, restiamo a guardare le luci e fumiamo e beviamo qualcosa. Alle dieci o dieci e mezza lei deve essere a casa, ed io l’accompagno. Sono felice: ho fatto l’amore, alla grande, con la mia ragazza, ma la serata per me è solo all’inizio.
Io e i ragazzi ci vediamo, da qualche tempo, al Giamaica che è un locale nuovo dove si beve e c’è la musica a palla. Le luci sono giuste, c’è bella gente, le ragazze profumano di rossetto e luccicano di colori e sorrisi. E c’è il parcheggio davanti, dove posso fermarmi con la mia auto perfetta, che nessuno può dire che non è in ordine, voglio dire, il massimo per uno di ventidue anni che non è figlio di papà. I miei amici lavorano tutti, ma nessuno di loro guadagna quanto me. Nessuno di loro ha una ragazza come la mia. E nessuno si può permettere una station. Ma siamo amici, soprattutto io e Mirko ed Ivan.
Al Giamaica ci conoscono. Siamo a posto, ma quando qualcuno ha fatto lo stupido ha pagato pegno, e non l’ha più rifatto. Girano un sacco di figli di papà, col SUV, che studiano e non capiscono niente. Portano molte belle ragazze loro, questo è vero ma non significa niente. Della vita non sanno un cazzo, gli uomini siamo noi e, se c’è bisogno, glielo facciamo vedere.
Si beve bene al Giamaica, la birra ha il prezzo giusto e va giù veloce tra la musica e le femmine e le sigarette. Poi, una sera come stasera è veramente unica, con l’aria frescolina del maggio che sta per arrivare e le ragazze che sembrano sbocciate tutte nuove, con i capelli colorati e finti che mi piacciono tanto e l’odore di creme e di trucco che mi fa impazzire. Io vado meglio dei miei amici con le ragazze. Mi sono accorto che avere una ragazza fissa ti fa più sicuro. Le guardi e sorridi e ti fai vedere; ma tu hai già fatto l’amore qualche ora prima ed è come se l’avessi scritto in faccia: lo fai regolarmente, quando vuoi, e quindi non sei uno che sta lì a pregare. Se viene il di più, ben venga, ma non stai con l’ansia. Io sono tranquillo: piaccio, lo so, e aspetto che siano loro a darmi il segnale giusto. E se il segnale non viene, che m’importa: io la ragazza ce l’ho, ed è bella e in gamba, sa il fatto suo. Fa la parrucchiera, ma è veramente brava, e stiamo pensando di investire i risparmi per un’attività in proprio. E’ bello sentirsi a posto: ho messo il jeans con gli strappi e la maglietta rossa che mi fa vedere i pettorali, e la giacca nera, bella stretta, come i dj in tivù.
Arriva Alex: è contento. Dice che ha trovato un po’ di bombe per dopo, quando si va al Cuba che è una discoteca ad un chilometro dal Giamaica, dove si va sul tardi, se no non c’è nessuno. Alex è un amico, fa il meccanico, è simpatico. Sembra sempre un po’ sballato, dice tre cose insieme e non ne finisce mai una. Non guadagna molto col lavoro, ma ci ha i suoi giri il sabato, e forse tira su più che durante la settimana. Ad ogni modo, è lui che ci trova qualcosa di buono per tirare via la notte e mi pare che ci tratta bene sul prezzo. Qualche volta ha avuto delle noie con dei ragazzi nuovi, e gli abbiamo dato una mano a pestarli. Così, tutto è tranquillo e ci conoscono tutti anche al Cuba, e siamo felici.
Io, Mirko ed Ivan adocchiamo due bionde e una rossa, naturalmente finte, da sole. Bevono della roba gialla e verde e ridono, appoggiate ad un’auto. Fumano, bevono e ridono. Ogni tanto, quando la musica è giusta, ballano e cantano gridandosi in faccia. Hanno le gambe già abbronzate, lucide e tese sui tacchi alti. Sono carine, abbastanza, ed hanno la luce negli occhi di quelle che cercano. Guardano anche noi, ogni tanto, che non guardiamo altro. Poi, ad un tratto, si muovono urlando che vanno al Cuba. “Ma va’?!”, faccio io agli altri, che già ridono. Salgono in auto, un’utilitaria che dio solo sa com’è che sta in strada, ci guardano ancora, ridono, si agitano ancora e cantano gridando. E’ seria, nel fare manovra, solo la bionda che guida.
Mirko ed Ivan non li tengo più: andrebbero anche a piedi. “Tranquilli – gli dico – che le ripeschiamo: meglio se aspettano. Intanto, cerchiamo Alex che deve venire con noi. E facciamoci un’altra birra – gli dico – che quelle non scappano”. Andiamo verso il locale, immersi nella gente, nel rimbombo della musica, tra i corpi che si muovono ondeggiano e sbattono di qua e di là. La testa vola, la vita è bella, l’aria profuma, quelle tre per stasera van bene. Domani è domenica e mi farò la doccia con calma e la radio nel bagno, rivedrò la mia ragazza, rifaremo l’amore e parleremo di noi, del nostro futuro. E lunedì, giù di nuovo a lavorare. Su, ancora birra, birra e sigarette e sorrisi e sguardi e musica e ragazze: biondi capelli lunghi e finti di qua e di là, e odori e rossetti che ti riempiono dentro.
Alex è trovato. “Andiamo al Cuba?”. “Andiamo!” Saliamo in macchina, musica a palla anche dentro, le luci del cruscotto sono meravigliose, sembra un aereo. Guido piano, fluido, non ho nulla da dimostrare: di cavalli ce n’ho finché si vuole, e tutti lo sanno. Quindi, guidare morbido è un lusso, e mi piace goderlo. La statale, ogni volta, il sabato, mi sembra diversa. Con i campi ai lati, immersi nel buio, mi sembra si possa sognare di arrivare da qui chissà dove. Ma questo sogno ogni volta lo penso e lo tengo per me. E’ un sogno che mi avvolge e mi dà un senso di forza, ma c’è pure qualcosa di oscuro nel fondo come è nero l’asfalto. I ragazzi sono allegri, invece, sono sempre allegri nella mia macchina il sabato sera, così non gli ho mai detto niente.
Al Cuba Alex sparisce, come sempre, ma ci lascia le pasticche. Io la metto in tasca. Per ora sono ubriaco e mi piace così. Mirko ed Ivan non pensano che a quelle tre. Anch’io ci penso, ma mi guardo pure intorno (sai mai?): sembrano tutte belle, fresche, sode e sono lì per questo. Senza averci neanche pensato, sono qui che ballo e guardo una tipa che martella con tutte le curve, persa negli scoppi delle casse. E’ una biscia per come si sbatte e mi pare pian piano di arrivare a sentirne l’odore. Mi piace guardarla e forse pure lei mi ha notato. Resto qui senza pensare a niente, chissà per quanto, dandoci dentro anch’io nel vapore che m’inzuppa i vestiti. Chiudo gli occhi e vedo la strada e pesto pesto sull’acceleratore, e vado sempre più forte dentro alla notte.
Ad un tratto, la tipa non c’è più, non la vedo. Mi muovo, la cerco, non la trovo. Mi sveglio un po’ e m’accorgo che non ci sono neanche Mirko ed Ivan. Cerco anche loro, ma non li trovo. Ho la nebbia negli occhi e decido di uscire nel parcheggio. Barcollo, mi sento pesante, ingoio la pasticca. Sono fuori, mi siedo per terra: aria! Ho davanti le mie scarpe, molto belle, pagate un mucchio di soldi (ma ne è valsa la pena). Il cielo profuma tanto stasera e gli alberi nel parcheggio si muovono al fresco e mi piace stare qui a seguirli nel vento. Domani farò una doccia e rivedrò la mia ragazza. La mia ragazza ha un buon odore anche lei e a volte sa muoversi come quegli alberi, leggera, e rifaremo l’amore nella mia auto.
Sono felice, m’alzo, voglio bere una cosa, adesso ci vuole! Allora vedo Mirko ed Ivan, sono anche loro nel parcheggio e fanno i fessi con quelle tre: le hanno trovate. Mi appoggio con la schiena al muro, appoggio anche la testa, respiro. Chiudo gli occhi: ho la strada davanti, anzi, la notte e ci volo dentro col vento nero che scivola sul parabrezza ed entra dai finestrini aperti. Volo!... Ho la gola arsa, bevo qualcosa e li raggiungo, mi dico, che magari c’è ancora da divertirsi stanotte. Sto per rientrare al Cuba, ma Alex mi chiama e mi corre incontro. E’ fuori di testa. Mi salta addosso. Ha ammazzato il Messicano, mi dice gridando in un orecchio. Non so perché lo chiamiamo così. Il Messicano è un ragazzo albanese. Non è che si sa molto di lui, ma è simpatico, non ha mai dato problemi. Alex dice che lo ha visto che vendeva roba. Allora lo ha chiamato. Lui è scappato. Alex gli è corso dietro, sulla statale. Gli gridava di fermarsi, ma lui niente, correva. Il Messicano non poteva fare così, e si doveva fermare. Poi, era entrato nel quartiere e Alex dietro. L’aveva raggiunto. La corsa lo aveva fatto arrabbiare, e gli aveva tirato due pugni in faccia senza stare tanto a guardare. Il Messicano era andato giù pari, in mezzo alla strada. Alex era corso indietro, e lì lo aveva lasciato.
Ma no, certo non lo aveva ammazzato. Forse, era fatto o aveva finto per non prenderne delle altre. Comunque, vieni, andiamo a vedere. Mirko ed Ivan ridono ancora con quelle tre che gridano sempre e si muovono come sceme. Li raggiungo. In disparte e veloce gli spiego il fatto. Con le tre si dicono ci vediamo tra dieci minuti. Saliamo in macchina: il cruscotto è sempre bello come quello d’un aeroplano. Musica niente, adesso. Alex mi indica la strada. Guido morbido. Svolto nel quartiere. Alex dice “Là!”. “Là, dove?” gli dico io. La strada è vuota sotto i lampioni che cominciano a confondersi con l’alba. “Là! - grida Alex – fermati! Fermati!”. Accosto. Scendiamo. Seguiamo Alex che si guarda intorno e va verso il centro della strada. Poi, di colpo, si ferma. Arriviamo anche io, Mirko ed Ivan e guardiamo in terra: niente altro che una specie di vomito sull’asfalto. Alex singhiozza. Non è vomito, è sangue, sangue e qualcos’altro. Alex trema e ripete: “Qua, era qua, l’ho lasciato qua!”. Ci guardiamo. Quel sangue è sangue, ma non è cosa di due pugni. Alex ha come delle scosse e si va a sedere sul marciapiede. Io non capisco, ma vedo anche Mirko ed Ivan che si guardano intorno senza capire. Mi muovo per non stare fermo e vado dall’altro lato della strada. L’alba cresce e il cielo è chiaro. Cammino e, non so perché, vado verso i cassonetti della spazzatura. L’aria profuma diversa ora, e sto per pensare a quelle tre – le due bionde e la rossa – ma vedo in terra, spuntare dal raccoglitore dei vestiti per i poveri, una scarpa e una gamba. Mi avvicino e, dietro il raccoglitore, vedo un corpo abbandonato in una posizione impossibile che dà una stretta allo stomaco. Faccio segno ai ragazzi. Alex non guarda, e resta lì seduto sul marciapiede. Mirko ed Ivan arrivano. Guardano. Alex s’accorge e arriva anche lui. “Oh, mamma mia!” dice e si porta le mani alla bocca. “Ma chi…” e sta per avvicinarsi. Io lo fermo. “E’ chiaro – gli dico – che l’hanno investito. Tu non c’entri niente, e noi è meglio che ce ne andiamo alla svelta”.
Le ombre dell’alba diventano orribili e, tutto a un tratto, fa freddo. Saliamo in macchina. Le luci del cruscotto brillano perfettamente. Il rumore del motore è rotondo, pieno. Parto e, stavolta, affondo il piede e tiro la prima e i cavalli ruggiscono divorando i metri d’asfalto sullo stradone vuoto del quartiere. Poi, però, metto la seconda e subito la terza, e riprendo a guidare morbido.
Oggi farò una doccia, una lunga doccia, mi porterò la radio nel bagno e cercherò una stazione di quelle in cui parlano, raccontano le storie, come da bambino quando mio padre mi portava dal suo barbiere. Porterò la mia ragazza al parco e la terrò abbracciata il più possibile e l’accarezzerò tanto, come piace a lei e, stasera, forse, andremo in collina.
 donato pistone (2006)

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