La faccenda del fumo è senz’altro legata ad un desiderio latente di autoannientamento. Pulsione suicida e senso di colpa. Volere sempre di più dalla vita, dal mondo, dall’esistenza, conduce inevitabilmente a “bruciare” le vite attorno. Da qui il senso di colpa, la consapevolezza del dolore universale, il sentimento di pena per la materia umana, ma anche per ogni forma di vita inevitabilmente morente.
“To die to sleep. No more”…
Ci sono donne che credono di volare, mentre stanno semplicemente precipitando dalla rupe, scrive Di Consoli[“La curva della notte”. La citazione è a memoria e riguarda il contenuto di un passaggio del libro]. E così sintetizza il desiderio di vita, di tutto di più, non accompagnato dal sentimento di morte che, solo, dà anche consapevolezza della violenza cosmica che ci sovrasta e governa. A Praga (28/04/2008) mi è capitato di registrare queste impressioni.
Una ragazza piange, piano, all’angolo di un incrocio. È in mezzo alla folla: nessuno la vede. Parla al telefono, e dai grandi occhiali neri scende qualche lacrima. Ha pantaloni neri aderenti ed una giacchetta bianca. Labbra grandi ed un bel naso piccolo. Piange, fuma, ed è dolcissima. È un pianto silenzioso, il suo, in mezzo alla folla. È un pianto lento, profondissimo, che sembra bagnare le forme del suo corpo leggero e rinfrescarle. Piangerà ancora molte volte. Lei vuole molto dalla vita. Vuole tutto. Piangerà tanti dolori. Vorrà sempre di più la vita, e sentirà il dolore del mondo. Fino a che, forse, non abbandonerà il desiderio. Fino a che, forse, non imparerà ad odiare la felicità, e guarderà alla brutta vita serena di tanti.
Le sue cosce sono lunghe, la sua pelle è bianca e tonica, i suoi fianchi leggeri e spigolosi. Il ventre è piatto e giovane. I suoi seni sono rosei, piccoli, e perfettamente tondi. Quella ragazza vede il suo corpo passare sul mondo, ed il mondo guardare quel corpo. Quel corpo leggero che suda poco, in mezzo a corpi deformi che rilasciano liquidi e odori. Quella ragazza sente la leggerezza del suo piede contro il peso degli altri, il peso di tutto. Ama Chagal, dalla prima volta che, in un libro, ha visto quei corpi volare nel vento. Quella ragazza vuole, della vita, assaggiare ogni cosa, e già sta imparando che il dolce non sa poi di granché: dopo un po’ rende sempre lo stesso sapore che annoia. L’amaro, invece, ha sfumature a milioni, ed è sempre diverso.
Al telefono, prima, a quell’angolo di strada, era il suo grande amore. Le diceva che oggi non sarebbe venuto. Le diceva che no, non era un contrattempo. Era finita, ecco tutto, e non ci sarebbero stati altri incontri. Definitivo, la decisione era presa. C’erano ragioni, ragioni solide, che non permettevano né ma né però. Il suo amore, il suo grande amore era finito. Non c’era già più, come mai stato. La ragazza ascolta, a quell’angolo di strada, parole inattese che non permettono replica. Piange, perché qualcosa sta venendo giù dentro e il sangue non tiene. La ragazza piange e continua a fumare. Sta bevendo l’amaro del mondo.
La ragazza è fresca e leggera. La sua pelle delicata, al primo sole di primavera, profuma. Intorno, la folla è rumore ed odore. La ragazza è ferma: aspetta, mentre tutt’intorno è un caos che striscia per terra. Aspetta… il primo soffio di vento la solleverà.
Volere, volere, volere sempre di più a nulla credendo. Volere è uscire da sé ed entrare nel mondo, modificarlo: toccando, muovendo, penetrando. Ogni atto di volontà è orma depositata all’esterno: è orma che sfiora, che sposta, che graffia, che spacca, che sfonda, che trasporta e deposita la violenza dell’essere.
Se si vuole dare un senso razionale, un senso storico al mito del peccato originale, questo senso lo vedo proprio nella consapevolezza della colpa latente, nel sentimento della vita come unico costante boato di violenza, energia che si scarica in dolore; mutamento continuo che, per essere vita, è sempre morte, doglia di parto o annichilimento di fine. Nulla è mai come era un attimo prima: questo è il principio di violenza universale, di trasformazione incessante della materia. Ed ogni mutamento è novità e dolore, dolore di perdita per ciò che non è più, per ciò che è irrimediabilmente perduto.
Con ciò non nego che ogni relazione umana sia occasione di arricchimento. Anzi, questa è logica conseguenza del generale principio di violenza universale. Ogni contatto tra uomini determina incisioni nelle rispettive sfere personali, deformazioni delle curve della sensibilità, perdite e trasformazioni. Ma ogni trasformazione è assolutamente irreversibile, nel senso che lo stato precedente non è mai ed in alcun modo recuperabile. E per ciò stesso si qualifica, tale trasformazione, come manifestazione di violenza, anche se questa violenza comporta sensazioni gradevoli. La qualificazione di violenza sta tutta e semplicemente nell’irreversibilità totale d’ogni esperienza. Ogni istante del nostro tempo è irreversibile! Ogni istante il cosmo ci trasforma, e noi, seppure in misura infinitesima, trasformiamo il cosmo.
Gettate tali considerazioni, cosa può mai essere la MORALE? Quali basi può mai avere? Se non fondamenta caratterizzate da un auspicato principio di generale autoregolamentazione? “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” e la speculare formulazione kantiana “Fa che ogni tuo atto possa assurgere a regola universale”. Un fondamento auspicato, ma, forse, anche illusorio… Non può esservi dubbio, infatti, che atti che io giudichi negativamente se fatti nei miei confronti, altri potrebbero, in relazione alla loro specifica esperienza esistenziale, giudicare, tutto sommato, positivi nei loro confronti. La morale, così posta, pare condizionata da un genetico vizio di prospettiva, tutta basata, come è, sull’agente. L’agito potrebbe avere un orizzonte esistenziale del tutto differente dall’agente. Dunque, l’azione buona, nella prospettiva dell’agente, potrebbe risolversi in cattiva nell’ottica dell’agito, e viceversa. Tali ulteriori riflessioni (sulle impostazioni generali della morale sia religiosa che laica) mi pare non facciano che confermare le considerazioni di partenza: ogni nostra relazione con ciò che è fuori di noi è governata da un principio di violenza, con tutte le sfumature – e valenze - che a tale violenza vogliamo e sappiamo riconoscere. Ogni volontà è volontà di estensione di sé nel tempo e nello spazio; ogni atto è, in definitiva, tentativo di dominio e prevaricazione. La circostanza, poi, che gli effetti inintenzionali dei nostri atti possano risultare, sul mondo e sugli altri uomini, positivi o negativi, è legata solo alla casualità che regola le risposte al principio generale di violenza. Se amo una donna, se dico di amare una donna, se penso di amare una donna, io sto semplicemente aderendo alla legge universale che mi spinge a perpetuare la mia specie (che mi proietta nel boato universale dove pure io sento di dovere urlare). Certo, io posso costruirmi scintillanti castelli teorici sul concetto d’amore, ma, in verità, mai potrò negare fino in fondo a me stesso la pulsione di gettare il seme in ogni donna ch’io incontri che rechi i segni della bellezza. La quale bellezza altro non è che il complesso degli indicatori di floridità che mi suggeriscono la capacità di migliore perpetuazione della materia umana. Deteorizzato, dunque, il concetto d’amore non lascia altro che il principio di prevaricazione. Quindi, il generale principio di violenza!
“Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte.” Alcuni animali giungono all’atto procreativo ponendo, al tempo stesso, fine alla loro esistenza. L’estasi è un’esperienza molto simile all’annullamento: scioglimento d’ogni specificità nel tutto. E la nostra specificità, la nostra singolarità, mi pare stare proprio nella cognizione del dolore che deriva dalla consapevole percezione del senso di colpa latente. Il principio di violenza è universale, ma il senso di colpa è senz’altro soggettivo, e può avere natura solo sentimentale o anche razionale. Ovviamente, se di natura solo sentimentale, esso può essere scacciato e ricacciato in mille modi; può essere provato e continuamente negato. Se di natura anche razionale (intendo dire: se ne sono state colte le origine), il senso di colpa, e di conseguente dolore, si accompagna ad una pulsione di autoannullamento. È così che il senso della morte diviene una presenza costante che, a lungo andare, spaventa terrorizza e opprime. Una presenza che diventa avvolgente la sera e soffocante di notte. “To die to sleep. To sleep, perchance to dream. Ay, there’s the rub…” Il morire si spera non venga, il dormire sembra essere l’unica soluzione reversibile (suicidio apparente), ma sempre più spesso diventa difficile. Le notti si vanno spezzettando angoscianti, interrotte dal rigurgito del senso di colpa che si presenta infallibilmente affascinante e atterrente. Quando la sera sopraggiunge sembra finalmente un approdo, ma è allora anche che le ombre cominciano a prendere forma. Il bicchiere suggerisce una via d’uscita, ed il fumo sorregge la lenta e lunga bevuta. Se si prova a fuggire affogando lo sguardo fuori nel mondo, si scorge una luna che è diventata gigante ed illumina profili gelati che non trovano requie. Tutto sembra eternamente immobile, eternamente immutabile, eternamente privo di senso che valga una vita, che valga la vita di tutto.
Il cerchio si chiude. Quando il senso della morte diventa paura, terrore, oppressione, sembra esserci un solo antidoto alla follia che sopraggiungerebbe: un’adesione totale al principio universale di violenza. Adesione che significa immersione nel mare della vita, abbandono, scioglimento delle specificità, scioglimento del dolore personale attraverso i momenti estatici. Tensione all’estasi e affinamento della sensibilità. Affinare la capacità di percepire le bellezze è espressione di quella tensione che scarnificato e depurato di ogni sovrastruttura, si mostra qual è: niente altro che l’istinto di perpetuazione della propria materia. Dunque, come già mostrato da Platone, all’antidoto può essere dato nome di Amore. Dove Amore identifica la pulsione creatrice in generale, che include tutta la scala delle attività creative dell’uomo: dalla procreazione all’arte.
Creare è superare il cupo senso di disfacimento che è depositato dentro di noi; è gettare l’idea di morte oltre il limite che sentiamo vicino; è lanciare la giustificazione di noi stessi oltre la barriera del non-senso. Ecco l’importanza di sentirsi desiderati, di sentirsi voluti dal mondo per potere fecondare il mondo (che può essere donna, può essere terra, materia, idee).
Ogni penetrazione del mondo è, però, violenza, orma pesante che modifica e crea dolore. Dunque, il senso di colpa, ed il circolo riparte.
donato pistone 26 luglio 2008
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