lunedì 26 dicembre 2011

Faustino e la cattedrale

  

Su e giù, su e giù, sempre in movimento, Faustino. Quella, invece, la Cattedrale, sempre lì, ferma davanti a lui, davanti al paese, davanti al tempo. Da quindici anni dura quel sotto e sopra di Faustino, tutti i giorni, mattina e sera, a volte anche la domenica, con in faccia il medioevo. Un medioevo di pietra ammuffita che sovrasta la via e la piazza e spiana gli ardori: viene da chiedere pietà e perdono, così, senza ragioni. Il cielo è lontano, alzando lo sguardo, e l’ultima pietra rotonda in cima alla facciata non si sa come faccia a stare ferma. Immobile, pure quella. Su e giù, sotto pietre secolari, la mattina nell'ombra umida, il pomeriggio nel sole ardente, sotto i leoni sporgenti dal marcapiano che, a guardarli da sotto, si muovono nel cielo ma è il cielo a camminare, quelli stanno fissi. Congelati, pure loro. Su e giù, incorniciato nel paese, incartolinato in foto distratte - chissà quante - e turisticamente commosse dallo squarcio di profondità atemporale che si apre nella piazza.
Faustino oscilla, da quindici anni, continuamente: farmacia bar, bar farmacia… Pausa, arriva cliente, dentro alla farmacia, fuori dalla farmacia, pausa, vede andare via il cliente e cogli occhi lo segue, si avvia: farmacia bar, bar farmacia… Tra la farmacia, nella piccola piazza del sagrato, e il bar, di fianco alla Cattedrale, solo una ventina di metri, una quarantina di passetti, ormai tutta la sua vita. Ogni metro, ogni passo, un tratto lento e acido che sottolinea i suoi giorni. Oscilla, Faustino, schiena diritta ma busto proteso calato in avanti, si guarda i piedi, guarda la pavimentazione falso-antica, vanto della giunta. Conta i metri, i suoi anni, sente la Cattedrale…
Faustino è il farmacista del paese, ha undici figli, i capelli bianchi, è magro come una linea, vestito blu scurissimo di quindici anni fa come le basette, come le rughe del suo volto, sigaretta. Un uomolinea dentro pantaloni sempre troppo larghi, conservato in una teca di cristallo dal giorno del matrimonio. Ogni giorno Faustino, almeno per dieci minuti, si pianta davanti alla Cattedrale, alza lo sguardo e stira la schiena all’indietro. La domanda, come sputata dai buchi di quel medioevo, arriva e chiede il "come", chiede "come è andata", chiede alla memoria uno sforzo. Poi la domanda rimbalza e sembra chiedere a quei muri antichi un ricordo, almeno un ricordo che dica che parli che spieghi qualcosa. Niente: le pietre sono mute, ma anche la gente in paese assomiglia alle pietre. Ogni giorno nessuno e nulla risponde e la domanda schizza via, in alto, e si perde nel cielo che sempre si muove. Allora Faustino sente la sigaretta più amara e decide che è il caso di bagnarsi la bocca: percorre quei lunghi metri restanti ed entra nel bar. Il bar, da quindici anni, è sempre lo stesso. Solo il barista è cambiato: prima il padre (brav’uomo), ora il figlio (un po’ strano). Faustino sente la lingua incollata e non vuole parlare, ma non è necessario: salutare e ordinare, basta un cenno che vale per l’uno e per l’altro. Al barista, si vede, sta bene così che non si saprebbe che dire, ogni volta, e non serve sforzare la memoria per servire sempre lo stesso bicchiere: whiskey, quello di marca peggiore.
Faustino da quindici anni, tra i pochi ricordi, ricorda un amico che saltava ubriaco sui tavoli di un ristorante una sera che si festeggiava qualcosa. Quell’amico saltava e ballava gridando che quella era l’ultima festa che lui passava in paese. E, girando tra i tavoli, aveva insultato tutti i presenti, che erano come pecore matte o stupide mosche inutilmente ronzanti. Quell’amico, che era suo amico fraterno, tornando a casa dopo la festa, s’era fatto serio e, abbracciando Faustino, gli aveva detto che loro due erano gli unici che in quel paese, forse, si potevano salvare. Aveva detto che nessuno di quelle stupide bestie, lì giù al ristorante, poteva capire il significato della sovrabbondanza dell’essere. Nessuno! Anche se era scritto lì, sulla facciata della Cattedrale, con caratteri, almeno teoricamente, per tutti comprensibili. Quella notte Carlo, dopo un lungo silenzio tra loro, aveva sussurrato a Faustino che il mostro dei secoli andava scalato, e s’era lanciato a salire lungo un nervo di pietra. Ma, ubriaco com’era, era riuscito a salire per non più di un metro e mezzo prima di cadere pesante come un sacco e senza alcun gemito. Faustino ricorda il brivido che gli era partito dalla schiena e gli si era scaricato nelle gambe, in un lampo, a vedere l’amico precipitare. Ma nulla di grave era accaduto e Carlo aveva detto che giusto, se lo meritava, la Cattedrale non poteva essere così scioccamente sottovalutata. La sovrabbondanza dell’essere non doveva essere sfidata. Piuttosto, bisognava aderire alla sua maestosa complessità. L’atteggiamento doveva essere d’amore, di sconfinato amore, non di guerra. E così, dopo essersi alzato, aveva baciato le pietre della facciata e aveva detto che loro, loro due, ce l’avrebbero fatta. Perché loro avevano capito... Quel suo amico, Carlo, era stato veramente un amico…
Faustino beve, da quindici anni, continuamente. E’ farmacista, da quindici anni, nella farmacia di suo padre, che era stata del nonno e che, ora, sarebbe la sua. Sarebbe, perché il senso del possesso non gli appartiene, da quindici anni non più. E’ sposato da quindici anni, ma quella donna, per l'appunto, non è la sua donna. Da quindici anni non possiede più nulla, si sente come sciolto nell’aria. Da quindici anni si chiede come tutto ciò sia avvenuto, si chiede come è stato che sono passati secondi minuti ore giorni anni, in quel modo. Si chiede perché quella vita è diventata la sua, perché quella vita stonata gli è saltata addosso, perché il tempo gli si è aggrumato in un vuoto immenso presente… Perché è avvenuto a lui, proprio a lui, e non ad un altro? A Carlo, per esempio? Sempre insieme, da piccoli, avevano condiviso le punizioni dei grandi per quello che avevano saputo combinare che, oggi, ci sarebbe da ridere a raccontare. Erano stati in classe insieme e insieme il pomeriggio per studiare e poi uscire: le prime sigarette segrete, le prime ragazze e i primi dolori, le prime sbronze da morirci ridendo. Avevano scelto la stessa facoltà, chissà poi perché… Ma avevano letto gli stessi libri, s’erano passati le stesse riviste, al cinema erano solitamente andati insieme. E, d’estate, in giro per mezza Europa col sacco a pelo e la tenda comprata in società. Gli stessi pareri in politica. Laureati perfino nello stesso giorno, e... dopo quel giorno, che era successo? Cosa era accaduto...
Faustino, da quel punto, ricorda un giorno solo, diverso da tutti i precedenti, ma sempre uguale, ripetuto dieci cento mille volte con ogni sorgere del sole. "Le strade si dividono", gli sale naturale in gola se ci pensa. E lo dice: “le strade si dividono”, lo dice a voce alta e lo ripete anche per ore, che la gente lo vede che parla da solo ma ci è abituata. Ma che significa?... Allora il passato non conta nulla? nulla conta? In balia del caso... del tutto!? “Le stra-de si di-vi-do-no… e le cose ac-ca-do-no… Tutto qua!” No! Questo, Faustino, non lo può accettare! Una spiegazione così… Semplicistica? No, forse semplicistica no, ma un'idea del genere, Faustino, non la vuole ammettere. Esiste pur un margine di decisione! Deve esistere! L'uomo non può essere la pedina inconsapevole gettata sulla sconfinata scacchiera delle variabili possibili! L'uomo costruisce il proprio destino giorno per giorno, e il caso non può essere un'entità superiore. Il caso deve rimanere solo l'attimo che precede la scelta, l'attimo in cui la vita oscilla tra varie possibilità fino a prendere la forma definitiva. Il caso non è che quella oscillazione momentanea riposta nella dimensione del nulla. La scelta è dell'uomo! Quella Cattedrale, da circa settecento anni lì, non un metro più indietro o più avanti, proprio lì, in quel punto preciso e non in un altro. E' un caso che la Cattedrale si trovi lì. Sì, questa asserzione, Faustino, è pronto a sottoscriverla. Ma la scelta è spettata ad un uomo che, ad un certo punto, ha posto termine all'oscillazione: ha determinato il luogo. L’oscillazione si è dissolta, come non fosse mai stata, ed un non luogo è diventato un luogo per (la Cattedrale) e poi il luogo di (quella Cattedrale).
Dove ha sbagliato? A quale bivio ha scelto la strada contorta che porta in nessunposto, mentre Carlo ha indovinato la via giusta? La via giusta, poi: di Carlo non sapeva più nulla… Da quell’ultima volta… non s’erano più visti né sentiti. Carlo gli aveva dato del “paesano di merda”, in quel pomeriggio d’estate col cielo di cenere. Una frase che, tra amici, ci può anche stare, se non fosse che poi uno sparisce e nient’altro rimane che quel pomeriggio rovente e quelle parole che diventano dure e pesanti e immutabili, in mezzo a tutto il resto, pure quelle. Aveva chiesto a Faustino dei soldi per mettere su un’azienda loro, per andare via dal paese e costruirsi un futuro decente, in mezzo a gente civile. Ma Faustino di abbandonare il paese non ci aveva mai pensato veramente. Dirle certe cose, si potevano dire, ma farle era altra faccenda. Come si poteva metterlo, da un giorno all’altro, davanti ad una decisione così irrevocabile e pretendere, pretendere una risposta di un certo tipo che, sennò, sei un paesano di merda? E poi lui aveva la farmacia ed il padre già vecchio… E poi anche questa storia della gente incivile, che altra esagerazione, delle solite sue. Che credeva di trovare nelle grandi città? Solo gente che legge, ragiona e discute con i lumi del settecento? ‘Sta favola della mentalità aperta… ci credeva ancora solo Carlo, al mondo. Una cosa, però, era vera: Carlo aveva sempre avuto il fuoco dell’entusiasmo. Anche se trasformava continuamente la realtà, la vita, vista coi suoi occhi, sembrava sempre degna di essere afferrata amata combattuta affrontata con la massima energia… Sembrava bella, la vita… Mentre lui, Faustino, forse era e rimane davvero soltanto un paesano, con un tarlo maledetto nella testa che domanda domanda domanda… Ma la risposta, Faustino, non riesce a trovarla. E, ormai, quelle tristi interrogazioni, insieme a tutto il resto, fanno parte della meccanica delle abitudini. Ogni mattina scivola dal letto più stanco della sera prima, lo stomaco sottosopra, l'alito pesante, quella domanda nauseante nella testa. Apre la farmacia e si pianta in faccia alla Cattedrale (unico momento nella giornata in cui sta diritto, col volto e lo sguardo verso l'alto). Gli rimbalza addosso qualche frammento di passato che, sempre più in fretta col passare del tempo, lo stanca; si curva, si guarda i piedi nelle scarpe deformate e completa quei quaranta passetti stretti e vecchi fino al bar.
Eppure qualcosa deve avere fatto, un errore di valutazione da cui è derivata la scelta non giusta e, inevitabilmente, il baratro. Ma perché nessuno dice nulla? Tutto è immoto intorno a lui, come congelato, e lui stesso, a volte, si vede partecipe di quel mondo pietrificato (sasso tra i sassi): si scopre in gesti lenti metodici, quasi a non turbare l'immobilità dell'aria, la stasi feroce di una materia immobile e assassina. Ascolta il proprio silenzio che ronza e gli sembra normale finché non urta su quello della moglie. Non gli ha mai detto nulla, sua moglie, mai una parola di rimprovero, mai una lagnanza: come può essere? Eppure è così: sua moglie si comporta come nulla accada, meglio, come nulla sia accaduto mai. Aveva un odore sua moglie – questo ogni tanto Faustino se lo ricorda – che lo faceva sragionare: come l’odore di tutte le donne del mondo. E le smorfie che sapeva fare, quando capiva che cosa lui andava cercando durante i pomeriggi, ad esempio, i pomeriggi d’estate! Quei pomeriggi con le imposte accostate che il vento muoveva le lenzuola del letto e asciugava il sudore del pasto e del vino. Come una gatta, allora, lei sapeva girare attorno nella stanza e tutto sapeva di lei e della sua biancheria. E, forse, cantava… Ma dov’è finita quella donna dietro a undici figli? Dov’è finito l’odore? Ogni tanto Faustino qualcosa ricorda, ma è come qualcosa raccontata da altri che non può rinfrescare nei sensi. La moglie, adesso, gli pare soltanto un'ombra della casa, che sa di cucina e di odori stantii e di silenzio. Anche lei è ferma come la pietra rotonda in cima alla facciata della Cattedrale, immobile congelata, pure lei.
Quando ci pensa Faustino ha i brividi e suda sulla fronte e gli sudano le mani. Tirerebbe dei pugni, griderebbe bestemmie, mentre i suoi occhi tremano e fissano il vuoto fino a quando il quadro sfarina. Poi, s’accorge che una mano si muove, o un braccio o una gamba. E’ il suo corpo che vive comunque, piano, metodico e attraversa lo spazio come diretto da fili tirati da altri. La rabbia svanisce d'un tratto: il suo corpo si muove indipendentemente e come in un liquido denso oleoso, guidato dall'abitudine, perfettamente integrato in quel mondo sordo cieco morbido incolore.
Come tutto ciò sia avvenuto, a questo punto, pare sempre più assurdo chiederselo. E Faustino, a volte, ha la sensazione che il cervello, fuso, gli sia colato fuori dalle orecchie, tant'è il vuoto che sente nella testa. Perché quella domanda gli appare irreale, gli pare non esistere. Perché si domanda "come è successo"? Ma successo cosa? Tutto è normale: nessuno gli dice nulla. Nessuna comunicazione. Nulla accade. Nulla è mai accaduto.
Il padre, anche il padre aveva sempre taciuto. Erano stati insieme, tutti i giorni, per anni, perché, seppure molto anziano, il vecchio farmacista aveva continuato a lavorare fino all’ultimo giorno della sua vita, col suo camice bianco e il taschino con le stilografiche in fila ed i temperini per le fustelle. Sapeva sempre di sapone e di fresco, suo padre. Ormai era curvo e, quando parlava, ti guardava da sotto. Parlava adagio e con un unico tono, soppesando ogni parola, ma soltanto di farmaci, ricette, di riordinare gli armadi scorrevoli, di sistemare i registri, di controllare le scorte e le relative scadenze… Non parlava di altro suo padre e pure a casa era sempre in silenzio, sempre nella sua impermeabile solitudine. Mai che avesse detto al figlio una parola su quel suo vizio (era poi un vizio, quello?), mai che avesse mostrato un'espressione significativa di biasimo per il suo atteggiamento che, spesso, doveva apparire indecoroso.
Il decoro... Ecco, perché nessuno dice niente, mentre lui infrange palesemente e... spudoratamente tutte le regole del decoro che in quel paese valgono più del vangelo?... Il padre, anche il padre, lo trattava come nulla fosse cambiato da quel pomeriggio feroce in cui Carlo aveva colpito, come nulla cambiasse mai, come se nulla accadesse. Quel peso che Faustino si porta dentro, quel tormento come di un rumore grigio, d'accordo, può essere un fatto suo non visibile all'esterno. Ma, per dio! beve come una spugna e non di rado si rivolge ai clienti in modo stupido o insolente, sicuramente barcolla e il suo portamento deve essere triste o addirittura ripugnante. E con tutto ciò, nulla!
Faustino parla con la Cattedrale, che da bambino gli metteva paura per quegli strani animali che sembravano uscire dalla pietra, per quelle buie fessure – chissà quanto profonde - sparse qui e là, i cui segreti conoscevano solo i piccioni ed altri uccelli notturni, per quei volti scolpiti non umani che gli adulti non avevano mai saputo spiegare. Faustino ascolta la Cattedrale, che parla una lingua cupa e confusa, mescolata di ombre, di colori sbiaditi, di muffe, di ruggini, di forme incoerenti, di impossibili incastri, di geometrie irreali. Faustino ha solo la Cattedrale, dimenticata lì dai secoli. Quante oscillazioni fissate da scelte arroganti su quel corpo antico. Eppure continua ad esserci, ogni giorno diverso! Qualcuno ha esercitato la propria presuntuosa libertà e l'ha fissato in quel punto, immobile per secoli, ma non ha potuto determinarne la durata, meglio, la vita. E quelle oscillazioni incrostate, sedimentazioni di volontà scioltesi nel tempo, vivono e danno movimento all'enorme cumulo di pietra. Ogni parte, ogni spigolo, ogni ornamento, ogni profilo di archetto, ogni colonnina, ogni selvaggia creatura, ogni pezzo di muro, ogni fenditura, se osservata in sé e per sé rimane muta e distante, ma a guardare l’insieme, a riuscire a cogliere, in un attimo, la vista piena dell’intera costruzione, tutto si muove e vibra in equilibrio incostante. Allora la senti la Cattedrale che parla!
“La senti Fausti’”, diceva Carlo, “la senti che sussurra, sibila…? A volte addirittura urla, quando è il caso…” Faustino, tra i pochi ricordi, ricorda lunghissimi pomeriggi, seduti su un muretto proprio dall’altra parte della piazza. Lui e Carlo da un lato, la Cattedrale dall’altro, e in mezzo la gente che passava a giudizio. Bisognava osservare quella gente con la massima attenzione, diceva Carlo, solo così ci si poteva salvare. L’osservazione doveva essere il loro vaccino e, soltanto dopo un certo numero di richiami, avrebbero potuto dirsi immuni. “Fausti’, noi siamo paesani pure noi, ed è come se portassimo dentro un virus. Lo possiamo tenere buono, questo possiamo fare. Meglio lo conosciamo, meglio lo possiamo sedare. Questa gente qua, invece, si fa consumare giorno dopo giorno senza neanche saperlo. E ad un certo punto, è solo il virus che cammina, che parla, che pensa, non sono più loro, e sono tutti la stessa cosa… Fausti’, noi da qua ce ne dobbiamo andare, ma dopo che abbiamo capito, dopo che abbiamo capito di più…”
Carlo ripeteva sempre che, prima, dovevano capire. Che loro avevano addosso la dannazione di essere nati in quel paese, ma avevano anche una possibilità che nessuno sapeva cogliere. “Tu la senti la Cattedrale che parla, Fausti’, - gli diceva - quelli non solo non la sentono, non la guardano neppure e ce l’hanno davanti tutti i giorni. Ci passano e ripassano, e niente sentono e niente vedono. Morti davanti alla vita! La vita! C’è la vita in quel disordine che fa girare la testa! Fausti’, quando la guardi veramente ‘sta facciata non ti raccapezzi più. Pare guardare dentro a un buco nero che ti fa vedere nel mare del tempo passato, tutto addensato con lo spazio, in un niente… Però tutto, riassunto, ma proprio tutto. Tu devi solo pian piano guardare e ascoltare… Questi – diceva Carlo – stanno dietro, tutt’al più, agli ingegneri del comune che parlano parlano parlano, senza azzeccarne mai una. L’unica preoccupazione è che caschi una pietra, come fosse un palazzo normale. Che vuoi che capiscano loro: il loro è davvero un sapere da poco, una mezza ragioneria, fatta di numeretti che, alla fine, in un modo o in altro devono tornare. Ma qui, nella Cattedrale, niente torna, se ti ci metti con la squadra, non starebbe su manco a puntellarla tutt’intorno. Non c’è un solo particolare che sembra coerente, lo vedi Fausti’, ma tu lo sai come lo so io. Tu la senti come la sento io… La senti la vita! che non si lascia coprire e sotterrare…”
Sì, Faustino la sentiva, Faustino l’ascoltava, per capire, come diceva Carlo, per capire, prima di tutto, qualcosa di più. E, forse, a capire non era riuscito, ma sentire aveva sentito. Quel disordine così irriducibile ed incoerente lui lo vedeva, il disordine che scompagina il tedio della regolarità, e pare vivere di vita propria. Il disordine che sa di sempre nuova bellezza. Questo lui lo sentiva, è vero, da sempre… Ma capire, evidentemente, non aveva capito di più…
Erano notti d’estate le notti infinite di certi discorsi che parevano veri. Declamava Carlo alla fine di quelle serate, sempre. L’arringa finale che sembrava dare peso alle ore precedenti trascinate nei bar a bere e fumare e poi in giro a canzonare qualcuno, o a stare con qualche ragazza. “Questi credono al destino, Fausti’, lo infilano in ogni loro pensiero, e non sanno minimamente di che parlano. Se sentissero anche solo vagamente di essere gettati e fusi nel caos, impazzirebbero la maggior parte… Fausti’, non c’è che il caso intorno a noi, non siamo fatti che di caso... Se liquidi il caso, come da sempre tentano di fare ‘sti matti, generi solo morte: ogni volta che scegli, blocchi l'oscillazione, fissi il movimento, frantumi l’armonia del tempo... Fai strage in un attimo di infinite possibilità. Ma per la scelta hai bisogno dell'oscillazione; per bloccare qualcosa hai bisogno che questa si muova. Se fissi tutto, non hai più scelta, e il tempo diventa circolare. Lo vedi come girano tutti in tondo, Fausti’? Lo vedi che tutti qua fanno la stessa vita? Parlano tutti uguale, con le stesse parole: non le stanno a pensare le parole che devono dire, sono quelle, già pronte, che vengono fuori… E tutti i loro dialoghi s’incastrano sempre perfettamente gli uni con gli altri… Prova tu a dirgli dell’abnorme sovrabbondanza dell’essere… Prova! Che vuoi che ti rispondano: non vogliono mica sapere di che parli…” Queste cose diceva Carlo, e quelle notti d’estate diventavano leggere, il cielo si faceva sempre più profondo e le pietre della piazza sembravano profumare.
Perché, dunque, tutto attorno a Faustino è fermo? Forse perché troppi prima di lui hanno esercitato la libertà di scelta fino ad imbrigliare il caso, il caos, la vita? Non è anche lui, forse, una catena di oscillazioni e fissazioni? Una riduzione progressiva di quell’abbondanza? La sua sostanza... ciò che lo distingue da chiunque altro... il suo essere Faustino, insomma, e non Sempronio, non sta proprio in quella occasionale serie di oscillazioni bloccate, di decisioni, che è il trascorrere del suo tempo? La sua storia, la sua essenza, il significato... E non è forse anche Carlo una cosa del genere, ovunque sia finito? Chissà cosa pensa, oggi, Carlo, chissà che direbbe sul coraggio di scegliere…
Ma dove e quando ha dovuto scegliere, Faustino? Eppure gli era parso di decidere, gli era parso di vivere… Possibile che erano state solo chiacchiere? Dei due, Carlo urlava, ma lui era quello che faceva. Nel senso che Carlo era il parlatore, il declamatore, ma loro due agivano all’unisono. Erano un solo sentire ed un unico agire. Figlio di farmacista, ha studiato Farmacia. L'ha scelto? No! Chi ha deciso per lui? I genitori? No! Non è stata un'imposizione, ma... neppure una scelta. Ha preso moglie... perché l'ha fatto? Amore?... E undici figli... Ha lui mai pensato: "Voglio avere undici figli"? Non riesce neanche a ricordare se qualcuno di quei ragazzi lo ha mai chiamato papà. I suoi undici figli sono come ombre che attraversa quando è in casa come, d’altronde, attraversa tutte le altre ombre del paese. O, forse, è lui l’ombra che scivola in terra e sui muri per tutti gli altri… Che cosa è successo? Come è accaduto... tutto era, già, deciso... La vita gli è sfuggita dalle mani... no: la vita in mano, lui, Faustino, non l'ha mai avuta. La vita, la sua vita: come se l'avesse vissuta qualcun altro. Tutto è avvenuto, il tempo è semplicemente trascorso. Ogni cosa è accaduta in assenza del legittimo proprietario di quella catena cronologica. Chi s'è impossessato della sua esistenza? Chi ha scelto per lui? Chi ha deciso, e perché? Chi ha bloccato il volante? Chi ha inchiodato i pedali? Le colpe dei padri... Chi ha pietrificato tutto il paese? …Ricadono, ricadono sui figli.
La Cattedrale: l'elemento più vecchio ed essenzialmente inanimato resta come un monito discreto, una luce lontana che illumina le possibilità di sopravvivenza. Ma la sua energia, la sua incoerenza, la sua disarmonicità, il suo anacronismo restano cautamente nascosti. E’ la bellezza che Faustino accarezza e che non vuole violare: ad un tocco, la polvere della materia che torna informe e muta. “…La senti, Fausti’? La senti?...”
Faustino sente che è tardi, ormai: la tradizione pare avere determinato quasi tutto, e che qualcuno traligni sta nella natura delle cose, costituisce il margine d'errore che, come tale, non è spiegabile e, soprattutto, non deve essere spiegato. L’errore che, a volte, genera bellezza… ma che la gente non vuole vedere, come non sa ascoltare quella confusione di angoli cerchi spigoli figure profili chiaroscuri tonalità che incendierebbe la vita. Invece, il tempo deve passare sempre uguale a se stesso, placido, come se ogni notte non fosse un suicidio da cui ci si risveglia senza sapere perché.
Faustino stesso riesce a spiegare il suo stare qui e adesso? Mah... forse... Lui parla, ormai, solo con la Cattedrale. Col prossimo, al più, grugnisce. Perché lo fa? Guarda torvo i turisti che passano, fotografano, per benino, tutti i particolari e poi guardano per aria, storditi. Perché li disprezza?
Ogni giorno, alza la saracinesca pesante che stride e che urla, nelle guide arrugginite, e schianta la bolla di silenzio che tiene assieme la piazza. Apre la farmacia che era del padre e, prima, del nonno, ed oggi sarebbe la sua. Si trascina in faccia alla Cattedrale e lì stira la linea angolata del proprio profilo. Guarda verso l’alto, per un po’. Guarda in faccia le pietre ammuffite e scheggiate e colorate dal tempo. Ne annusa l’odore che dipende dal cielo, dalle stagioni, dagli anni che passano. Ogni giorno, un pezzo di passato gli salta addosso interrogativo. Sempre prima, ogni giorno, si stanca. Quei muri sono troppo più duri, troppo più lisci e coerenti della vita di un uomo. Si curva, si guarda le scarpe deformate che hanno percorso, sì e no, solo quindici anni al cospetto di secoli. Ogni giorno, a quel punto, si avvia e fa quei passetti restanti, stretti, stanchi e vecchi, fino al bar.
 donato pistone (1994, agosto 2006)

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