Ieri pomeriggio, presso la Feltrinelli di Bologna, Marcello Fois presentava il suo ultimo libro. Ero in libreria per caso ed ho assistito all’incontro. Sinceramente, le prime battute non mi stavano entusiasmando. Il tono era dimesso, basso e un po’ noioso. Poi, ad un tratto Fois ha dichiarato l’origine del suo imbarazzo: parlare di letteratura, di libri, in un paese in cui l’intellettuale, se fa il suo dovere, diventa una pratica per il Ministro degli Interni. Fois ha ammesso di essere avvilito dal fatto che uno scrittore debba essere messo sotto scorta. L’atmosfera dell’incontro, a quel punto, è cambiata. E’ vero, oggi non si può più parlare di libri fingendo che tutto il resto non esista. Quando la realtà si rifà così concreta e pesa sulle pagine di un libro, non si può più fingere che la letteratura sia un’altra cosa. Quando uno fa fino in fondo il suo mestiere, non si può più raccontarsi che tutti i mestieri sono uguali, che le responsabilità sono sempre di qualcun altro, che il problema è che gli amministratori non investono in cultura e bla bla bla... Già, non si può più fare. Io temo solo per alcuni giorni. Intanto, però, è così. Adesso, chiunque voglia parlare di libri e, in senso lato, di cultura, non può che ripartire dalle basi: cosa è l’intellettuale e cosa dovrebbe essere, qual è il suo posto nel mondo e quanto può incidere nella storia, quali sono le sue responsabilità, e via dicendo…
Dopo avere letto Gomorra (tutto, non solo il primo capitolo), ho seguito alcuni dibattiti su Nazione Indiana e altrove in internet. Molti si soffermavano su un tema che mi richiamava alla memoria il Saggio sul romanzo storico e in genere sui componimenti misti di storia ed invenzione di Manzoni. Un dibattito un po’ datato, dunque, peraltro superato dagli eventi che hanno dimostrato la tenuta indiscutibile dei Promessi Sposi. Si discuteva se il libro di Saviano potesse essere sistemato nella categoria del giornalismo d’inchiesta o del romanzo o nella categoria di “qualcos’altro”. Discussioni, a mio modo di vedere, inverosimili che finivano, poi, in rissa (grottesca) tra chi screditava Saviano, chi se ne dichiarava fan, chi dubitava sulle sue capacità di scrittore creativo, chi dubitava sulle sue capacità di giornalista.
Leggere interventi del genere mi portava a riflettere, più in generale, sul fenomeno della letteratura in rete e, ancora più in generale, sulla funzione del libro, della scrittura, della cultura nel nostro mondo. E le idee che mi si andavano formando non mi piacevano per niente. Vedevo, infatti, come un sottomondo di drogati che avevano perso il contatto con il mondo della superficie. Un mondo di penne elettroniche assolutamente inutile nel mondo concreto, ignorate dal mondo concreto, che si crea uno strano status di marginal e che piuttosto che combattere quel mondo dal quale è escluso, esclude la realtà dalla propria mente. La scrittura diventa gioco e, al più, fa il verso alla tivù ed i siti letterari diventano isole dei famosi dove si sgomita per potere apparire e quindi sentire di vivere, mettendosi nudi davanti al vetro, vendendo la propria storia, la propria intimità, aprendosi pornograficamente a tutti i guardoni della rete.
Ecco, questo, da oggi in poi (e, ripeto, temo solo per poco) non si può più fare. Perché il mondo vero ha messo un sasso sin troppo tangibile sulle pagine di un Libro. E in quel sasso sono inciampati tutti i parolai della cultura e con loro sono franate tutte le loro inutili parole. Sì, perché a nessuno verrebbe, in questi giorni, il prurito di chiedersi, per esempio, a che genere appartiene Gomorra. Semplicemente, perché, in questi giorni, risulta quanto mai lampante che il problema non c’è, la questione non esiste proprio e, dunque, non è discutibile. E neanche, sempre in questi giorni, è dibattibile se le tesi del libro di Saviano siano vere o meno, condivisibili o meno. Semplicemente, perché, lo si respira nell’aria, le parole sono tornate ad essere quello che sono: mezzo e non fine. E, così, hanno riacquistato peso, volume, odore. Un peso, un volume, un odore che hanno suscitato qualcosa di drammaticamente concreto: la minaccia di eliminazione fisica e la sensazione del pericolo della eliminazione psicologica.
Le parole per Saviano sono mezzo e non fine. Il sangue non è un colore, non è metafora, non entra in frasi idiomatiche: il sangue sul pavimento di un commerciante ucciso “puzza”. Un morto ammazzato non genera pena e, men che meno, riflessioni: la carne tritata dai kalashnikov fa “vomitare”. Nelle terre della criminalità organizzata i fatti colpiscono allo stomaco in un giorno come un altro, entrano nella quotidianità delle persone e impongono il silenzio che è un silenzio di fatti, prima che di parole. E’ il corpo che recepisce i messaggi della ferocia, prima della mente. E sono i gesti che si trasformano, prima dei pensieri. Tutto questo Saviano te lo fa sentire, perché la paura non si può spiegare, ma provare. La paura non è una colpa, ma una sofferenza.
Le parole per Saviano sono mezzo e non fine. Il capitalismo sfrenato ed anarcoide dei nostri giorni adotta linguaggi criptici (specialistici dicono gli ipocriti) al solo scopo di travestire la nuova frontiera della rapina e del saccheggio. La parola è stravolta e non parla più, ma nasconde. Nasconde quello che Saviano tira fuori dalla foschia delle banche, della borsa e dei grandi capitalisti italiani, affermando un concetto assolutamente lampante una volta depurato dal velo delle finzioni: la criminalità organizzata non è l’anti-Stato, non è l’anti-sistema, ma uno dei motori più potenti dell’economia del mondo, un’enorme turbina che pompa denaro e che, ovviamente, non finisce nei materassi ma nelle banche, in borsa e nelle imprese dell’economia “pulita”.
Le parole per Saviano sono mezzo e non fine. Saviano le usa per capire il mondo che ha attorno, per rimettere i fatti in un ordine verosimile, mentre il sistema (che è molto più ampio ed articolato rispetto ai semplici clan e gruppi di fuoco) le parole e i segni li usa per opprimere, soffocare, costringere. Ogni volta che la camorra ammazza e lo fa per eliminare un nemico, i segni e le parole iniziano l’opera di inquinamento, così sulla vittima cominciano ad addensarsi i sospetti e sempre tutto finisce per diventare la celebre notte in cui tutte le vacche sembrano dello stesso colore.
Roberto Saviano ha fatto il suo mestiere, in un Paese in cui i mestieri non esistono più, perché non esistono più le dignità dei ruoli a vantaggio di un libero e gioioso banditismo. Roberto ha scritto un gran libro perché nato dall’interesse per il mondo, per il prossimo, mentre il prossimo guarda solo se stesso. Dai fatti che riguardano in questi giorni Roberto Saviano, mi auguro, che tutti possiamo ripartire, cominciando dal renderci conto che quei fatti ci riguardano. La vita di Roberto ci riguarda.
Caro Roberto, ti auguro tutto ciò che speri e desideri.
donato pistone (18 ottobre 2006)
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