lunedì 26 dicembre 2011

Non è facile cambiare le cose

 

Vado, esco di casa e vado. Da un po’ di tempo ci riesco di nuovo. Per un paio di mesi sono rimasto rinchiuso. Mi sembra un paio di mesi, ma può essere stato anche per sei, un anno, o anche di più. Il fatto è che il tempo ha preso ad andare in una maniera veramente strana, e se ripenso ad un fatto che è successo, di ricordarmelo me lo ricordo, ma stabilire con una certa precisione il quando e la durata non è cosa, proprio non è cosa. Il tempo me lo sento addosso che va e viene, a folate, come il vento. Boh, mi ricordo che quando studiavo avevo letto delle cose molto intelligenti sul concetto. Mi ricordo, però, soltanto che avevo pensato che erano molto intelligenti, di più, mo’, non mi torna in testa. Così, vado, esco di casa e vado e, camminando, mi sembra pure di attraversare il tempo, di esserci tornato dentro. Perché prima, quando non riuscivo ad uscire di casa, per anni, - sì, perché forse sono passati anni – il mio tempo non s’è mosso, non è trascorso. Insomma, onestamente, se voglio ricordare quel periodo, mi pare come una sola lunga giornata in cui mi sono steso sul divano nel salotto e lì mi hanno lasciato stare. Cioè, mi ha lasciato stare mia madre. Vivo con lei, ogni tanto c’è pure mia sorella che non si è sposata. Non ho capito che fa, se lavora, voglio dire, se studia ancora. Forse lo so e non mi ricordo. Non ci parliamo da anni. Ecco, anche qua non so dire quanti anni. Comunque, non ci parliamo, questo è sicuro. Anche se poi, la verità è che non parlo manco con mia madre. E’ una cosa del tipo che ci capiamo al volo. E, poi, è meglio così, perché io e mia madre parlavamo, anzi, è successo che abbiamo parlato pure troppo. E, quando parlavamo, volavano parole grosse, sempre. Le parole sono terribili, tagliano come lamette, oppure t’arrivano in faccia ed allo stomaco come pietre. Una volta lanciate, non tornano mai indietro; lasciano le ferite, ferite inutili che ti rimbombano nel cervello e te le porti dietro. Ogni volta che si ricomincia a parlare, quelle ferite riprendono a bruciare e si riallargano e, più fai per ricucirle, più è come se affondassi le mani nella carne viva. Mia madre è una donna intelligente, tutto sommato. Ha capito, e non ci siamo parlati più. Che bisogno c’era di farci del male? L’abbiamo capito, insieme, ed abbiamo avvolto la casa nel silenzio. Mo’, ci guardiamo a mala pena. Io ci ho la mia vita, lei la sua, non c’è necessità di mischiarle. In questo modo è tornata un po’ di serenità. Io, poi, ho deciso di vivere nel salotto. E’ comodo ed è una stanza grandissima e stava sempre vuoto. I miei non hanno mai avuto amici, non ricevevano nessuno, il salotto era sempre stato lì, al centro della casa, congelato nei suoi mobili antichi e nel buio degli avvolgibili sempre abbassati. Un giorno ho deciso di trasferirmi in quella stanza. E’ stato come cambiare casa e cambiare vita. Ho aperto i due balconi che, dall’ottavo piano, danno sul vialone ed è entrata per la prima volta aria fresca. Me lo ricordo bene quel giorno: era inverno, stava calando il sole, vedevo tutta la città, ce li avevo davanti i tetti ed il vento era forte; pian piano il cielo è impazzito; poi, è diventato viola, violento e, alla fine, è arrivato il nero della notte. Se non mi sbaglio, mi feci una canna e, quando il cielo s’annerì, ricominciai a vedere un blu elettrico che, stavolta, saliva dalla città ed inondava tutto in alto. Da quel giorno sto lì, nel salotto buono, dormo sul divano che s’è fatto vecchio senza essere usato. Ho fatto dei cambiamenti nella stanza, ovviamente. Prima cosa, ho piazzato lo stereo, quello grande a pezzi divisi che era di mio padre e per anni era stato nel suo studio e non si poteva toccare. Ho sistemato le cose per bene, prendendo le giuste distanze e mo’, quando accendo la musica ci sto come immerso dentro in qualunque punto della stanza. Ho fatto fuori i soprammobili. Che palle! Due tavolinetti pieni zeppi di bomboniere inguardabili. Ho comprato – cioè, ho fatto comprare a mia madre – un televisore schermo piatto gigante, e l’ho messo su uno dei due tavolini, nell’angolo. L’altro tavolino l’ho lasciato davanti al divano e sopra ci tengo i telecomandi. Insomma, mi sono organizzato ed ho razionalizzato gli spazi. Quando non uscivo di casa, nella mia stanza, stavo benissimo: ci avevo tutto!


Ho misurato la stanza. L’avrò fatto un centinaio di volte, quando non uscivo di casa. Contando i passi, per il lungo, ne facevo dieci. Sul lato corto, ne facevo quasi sei. Considerato che ogni passo dovrebbe essere qualcosa in meno di un metro, direi che la mia stanza è circa un 35 metri quadrati. Saloni così non se ne vedono nelle case moderne, è come un monolocale. Insomma, posso dire di vivere in un monolocale, confortevole, non c’è che dire. Mi sono sistemato pian piano: tutto sta andando a posto. Ho la ragazza, una bella ragazza. Ogni tanto mi chiedo com’è che fa a stare con me. Perché, voglio dire, lei è tranquilla, non beve e non fuma, ha sempre frequentato gente normale, insomma, non quelli come me, ecco! Perciò, ogni tanto, me lo chiedo. Però, è pure vero che di gente normale ce ne sta tanta in giro, ma, di questi, ci stanno un sacco di stupidi… Quando ci penso, mi dico che io, passi tutto, ma stupido non sono stato mai. Mi sono perso, mi sono lasciato andare in mille modi, mi sono distrutto la salute e, forse, mi sono pure bruciato il cervello, ma stupido no, e, quando ho potuto, ho sempre saputo ragionare meglio di tanti altri. Poi, ultimamente, sono pure migliorato d’aspetto. Mi guardo allo specchio, prima d’uscire, ed ho l’impressione che il tempo, in fondo e nonostante tutto, ha lavorato decentemente. Ci ho un certo fascino. E’ sparita la faccia da bambino che sembrava non abbandonarmi mai e mo’ l’espressione è un po’ sofferta e un po’ navigata, un misto da uomo maturo con esperienza, storie tremende alle spalle, pelle malandata ed indurita dagli anni. La mia ragazza, invece, ha la pelle che è una seta, che profuma di suo. Siamo assortiti, la vita è così, lo sto imparando: accosta gli estremi, evita la banalità.


Così, adesso, esco e vado, come una cosa normale. E, invece, non è così, non è normale per niente. Al solo pensiero di essere in strada, mi mancava il fiato. Allora, aprivo i balconi e mi guardavo la città da sopra. La vista, dall’ottavo piano, è bella, mi è sempre piaciuta. Il cielo di questa città, poi, è come il senso stesso della libertà, della vita. E’ una scena che cambia sempre col vento che non si ferma mai. La luce t’arriva sempre diversa. Ne ho passate di ore sul balcone! Mi sedevo in terra ed era come stare sul bordo di un canyon. A guardare, semplicemente, il mondo. Anzi, più che guardare, a sentire tutto l’universo attorno. Sarà per la luce che cambia in continuazione, sarà per il vento che porta sempre aria nuova, sarà per le penombre che occupano le strade, questa città mi piace. Seduto sul bordo del canyon, ho visto venire sera, sentendo la compagnia del traffico, giù nel vialone, che va, proprio come un fiume, continuamente. Passano gli autobus per tutti i paesi del subappennino, che è come il passaggio di enormi animali. Le vibrazioni ed i ruggiti salgono salgono su per le pareti dei palazzi, ed il cemento armato sottile dei balconi trema ogni volta ed al boato tintinnano i vetri. Un sacco di volte sono stato seduto lì fuori, immobilizzato dalle ombre e dal vento e dai rumori meccanici. Lì ho avuto tutto il tempo per pensare alla vita, ma più spesso dormivo con l’alcol in corpo che mi aiutava a superare i ricordi.


Di ricordi ne ho pure adesso. Quelli - che vuoi - non li cancelli più. La differenza è che, adesso, non mi paiono né buoni né cattivi. Sono cose passate, in genere, spiacevoli, ma stanno al loro posto, dentro la testa, e non mi saltano addosso per forza. Ho vissuto per anni in strada, continuamente, ho conosciuto centinaia di persone. Ho tentato di parlare, di capire di più. Alla fine, ci facevamo e basta, e c’è stato sempre qualcuno che m’ha fregato, ma, allora, non mi importava neanche. Insomma, allora, già lo sapevo che finiva sempre in un modo e che ogni storia s’apriva e chiudeva alla stessa maniera. Che ti vuoi aspettare dai tossici? Quando dico ricordi, però, penso piuttosto ai ricordi di quando facevo una vita normale e cominciai a soffrire come un cane e, come un cane, mi ritrovai da solo. Non lo so se è destino, non lo so se ognuno di noi è in qualche modo marchiato. Ci ho pensato milioni di volte, ma io di questa cosa che la vita è una pagina già scritta o una pagina bianca, non ne vengo a capo. E, soprattutto, m’accorgo che, come la vuoi mettere, torna. Se la vuoi mettere che il destino esiste, trovi tutti i casi di gente che, nonostante ogni sforzo, sono finiti proprio dove non avrebbero mai voluto finire. E, così, al contrario, se ti vuoi convincere che niente è predeterminato, trovi tutti gli esempi di gente che ha fatto esattamente quello che aveva intenzione di fare. Io, insomma, non so a cosa credere, ma il fatto rimane: mentre facevo la vita normale, ad un certo punto, non ce l’ho fatta più, ho avuto paura.


Paura: non so mica spiegarla bene questa cosa. Allora, l’unica parola che mi venne per definire quello che mi accadeva, fu quella. Cioè, sentivo quello che sentivo, e l’unica cosa che potevo dire, che potevo dirmi, era: paura. Di che? Non lo so, ed è la cosa peggiore. Poi, la cosa è passata, per un certo periodo. E, all’improvviso, è tornata, diversa. Non riuscivo ad uscire di casa. Il solo pensiero di essere in strada, mi toglieva il respiro. All’inizio è cominciata come una cosa normale. Mi pareva fosse la mia volontà a determinare tutto. Pensavo, semplicemente, di volere stare in casa. Fu in quel periodo che mi organizzai nel salotto. Con una certa meticolosità, come se stessi ricostruendomi la vita. Poi, su quel balcone, cominciai a pensare. E, più pensavo, più l’angoscia si dilatava. Non mi facevo più da un po’ di tempo. Ne stavo uscendo, tanto più che non sono mai stato un vero tossico. Quando, però, sentivo che la paura cominciava a crescere, prendevo la bottiglia del whiskey o della vodka. Bevevo un po’ e ci fumavo su. Mi veniva voglia di un po’ di fumo, ma a mia madre potevo chiedere soltanto di comprarmi le sigarette e gli alcolici. Glielo scrivevo su pezzettini di carta che lasciavo sul mobiletto basso, vicino alla cappelliera, nell’ingresso. Non ci parlavamo già più: l’ho detto, non era necessario. Lei usciva tutti i giorni per la spesa e non le costava niente prendere anche una bottiglia ed una stecca di sigarette. Poi, trovavo tutto proprio lì dove avevo lasciato il biglietto. Ma il fumo, ovviamente, non potevo chiederglielo. Così, la paura arrivava e ci bevevo e fumavo sopra, e un po’ si ammorbidiva. La luce, sopra la città, da cattiva diventava poetica. E, a furia di bere, m’addormentavo. I pensieri, però, tornavano, i ricordi non tanto di fatti, ma di quello che avevo provato, quelle maledette sensazioni che gli altri mi avevano fatto sentire. Facce che ridono, occhi felici che brillano mentre ti stanno uccidendo, frasi spiritose che creano allegria tutt’intorno e a te ti isolano e ti massacrano dentro. E tu speri che la cosa finisca, che prima o poi qualcuno s’accorga di cosa ti stanno facendo. Speri che il tuo silenzio cominci a parlare a qualcuno. Ma niente, il dolore s’allarga, diventa voragine, e il ricordo che ti prende è di buio, di freddo, di vuoto. Isolarsi diventa l’unica via per sopravvivere a te stesso, per diluire la vergogna che provi per te stesso. Perché cominci a chiederti: perché devo continuare a subire? E cominci a pensare al dolore fisico che vorresti infliggere. Finisce, però, che quei sorrisi, quegli occhi felici, tu li ami e, quando li incontri, speri sempre che quelli, finalmente, sorridano a te, non di te. Ma non avviene, non avviene. Passano i giorni, e certe cose non cambiano, e tu vorresti gridarlo, ma ti trovi da solo e ti urli dentro che ti fa un male bestia. E’ allora che ti trovi una via diversa, dove gli altri ti sembrano come te, tutti dentro un mondo dove la memoria si scioglie ed evapora. Per sopravvivere, solo per sopravvivere.


Sopra il canyon, ogni tanto, mi tornava in mente anche Urbino. C’ero arrivato con tante speranze…Dopo il liceo, avevo scelto quell’università, perché nessuno che conoscevo aveva deciso di andarci. M’ero comprato dei vestiti nuovi. A casa dei miei i soldi non sono mai mancati e tenevano loro per primi a come mi vestivo. Un figlio di buona famiglia deve presentarsi che si capisce che è di buona famiglia. Che deve dire la gente se vai in giro come il figlio di nessuno? Ora mi viene da ridere a pensare queste cose. “Che doveva dire la gente”, allora, di questo si preoccupavano i miei. Si preoccupavano dei vestiti. Erano capaci di addolorarsi per cazzate del genere. E, oggi, a ripensarci, mi pare che tanto si sono addolorati quando era assolutamente esagerato e inutile, da non avere più riserve di dolore quando poi, forse, serviva veramente. Quando sono diventato “il drogato” del quartiere. A Urbino potevo ricominciare, questo avevo pensato. Io non mi sono mai sentito più fesso degli altri. Però si sa – lo so anch’io – quando si è ragazzi succede che uno finisce sotto. La prima volta, quasi per caso. Poi la seconda, la terza… E diventa un’abitudine. Io non ho saputo reagire per tempo. Queste cose si capiscono dopo e allora non c’è modo di tornare indietro. A Urbino arrivai coi miei vestiti nuovi tutti di gran marca e alla moda. Avevo ancora una faccia da bambino, questo sì, ma da un po’ era arrivata la barba e la lasciavo incolta, così mi pareva di essere un po’ più interessante. M’ero fatto pure degli atteggiamenti. Sì, me li ero creati e studiati durante buona parte dell’estate. A Foggia m’avrebbero preso per il culo, ma solo perché, è ovvio, uno non è che può cambiare modi di fare dall’oggi al domani. Ma a Urbino i nuovi che avrei conosciuto, m’avrebbero visto così come mi ero pensato e rifatto. I primi giorni davvero mi sentivo un altro ed ero felice mentre salivo e scendevo per le vie, o quando mi sedevo nei bar all’aperto e mi bevevo una cosa. Mi vedevo bene, mi vedevo bello. L’aria da bambino doveva sparire e bevevo e fumavo continuamente. Quando conobbi le prime persone raddoppiai le bevute e le fumate. Conobbi quelli che spacciavano il fumo e, senza farci caso, divenni anch’io uno di quelli per i miei conoscenti. Mi pareva di stare sulla strada giusta. Mi sentivo veramente rinato. Sentivo che, ogni giorno, ero una persona più nuova. Io non ero più io. Non mi sfotteva nessuno a Urbino. Avevo conosciuto quasi tutti gli studenti in pochissimi mesi. Aveva nevicato e c’eravamo sfatti nella neve che non me l’ero mai goduta così. Poi m’ero pure fissato con una. Ma quella la volevano tutti. Identica a Claudia Schiffer. Però non la dava a nessuno e si faceva toccare da tutti. Quasi da tutti; da me no. Così la fissa aumentò per un po’, perché mi dissi che visto che si faceva toccare da tutti tranne che da me, ci avevo una speranza. Ma ‘sta cazzata me la sono raccontata solo per un paio di settimane. Perché poi, per fortuna, è arrivata Marina che me l’ha messa in faccia. E ho cominciato a scopare tutti i giorni. Marina era un’impasticcata del cazzo. Però scopava e m’ha fottuto. Perché con quelle pasticche di merda io sono andato giù di testa e ho cominciato come ad impazzire. Poi, una sera, che m’aveva appena scopato e, godendo come una stronza, m’aveva chiamato con un altro nome, me ne sono uscito da solo, perché dovevo darci un taglio con tutta quella storia. Mi sono fermato al solito bar. Mi sono preso una birra e mi sono rullato una canna. Le canne sono una cosa, con le pasticche ti squagli i nervi. Mi sono visto da fuori e mi sono piaciuto. Mi sono detto che con quella vacca dovevo chiudere per bene, perché mi stavo fregando. Mi stavo piacendo, troppo, così con la birra in mano. Allora, la canna l’ho messa nel pacchetto delle sigarette e mi sono fumato tabacco innocente e mi sono scolato un’altra birra. Piano piano mi stavo riprendendo. Poi, non so come, ad un tratto, mi sono accorto che nessuno si sedeva al mio tavolino. Li conoscevo tutti là attorno, ma nessuno si veniva a sedere. Certo, anch’io non stavo salutando nessuno né invitando nessuno. Ma dove sta scritto che dovevo essere io a salutare e ad invitare. Così mi ci sono fissato, e ho cominciato a guardare l’orologio. Volevo vedere quanto tempo passava prima che qualcuno mi salutasse. Ma in quel modo mi sono soltanto invelenito. Non si è avvicinato nessuno e, anzi, alla terza birra mi è parso che gli facevo anche schifo se li fissavo. Che stronzi che siete!, gli ho detto, gliel’ho detto nella mia testa. Mi sono fatto portare la quarta birra e mi sono acceso la canna. Ho pagato e ho detto grazie e vaffanculo tra i denti al cameriere e me ne sono andato. Ho sentito che il vuoto tornava e mi sono sentito impazzire. Avevo bisogno di vento e ho cominciato a correre, ma era poco, era poca la velocità delle mie gambe. Così, mi sono ricordato di Antonello che abitava con me e ci aveva il motorino, un cinquantino di quelli con le marce che mo’ non esistono più. Sono arrivato a casa e il motorino era lì. Ci ho pensato solo una volta di chiederglielo. Ma ho pensato che m’avrebbe fatto troppo incazzare se mi avesse risposto di no. Sapevo come accendere quel ferro vecchio senza chiavi e l’ho fatto. Sono partito e, per un attimo, ho pensato che Antonello a quell’ora stava studiando. Pareva un bravo ragazzo, ma era troppo normale… Ho girato prima con calma in mezzo alle vie, poi m’è tornata in mente la vacca schifosa, quegli stronzetti in piazza e ho sentito di nuovo il vuoto e il bisogno di vento. Ero fuori da Urbino, già sulla statale, il motorino a manetta lanciato nel buio. La sapevo la curva, la sapevo, ma il vento era poco. Ho cominciato ad urlare – ci voleva un motore maggiore-, avrei voluto una forza maggiore. La sapevo la curva, ma in quel momento mi è parso l’unico modo per entrare nel vento per uscire da me. Liberarmi. La sapevo la curva e ci sono andato dentro a manetta a schiantare il motorino sul guardrail e io a prendere un volo fino a un dolore di un attimo e a perdere i sensi. Quella sera mi sono sfondato la cassa toracica, spezzato le braccia ma la vita mi è rimasta appiccicata addosso.


Così adesso vado: esco di casa e faccio chilometri a piedi. Mi piace soprattutto il pomeriggio presto, subito dopo pranzo, che per le vie non gira nessuno, e la sera sul tardi. Questa, a suo modo, è una città fantastica. Ci sono ancora certi ritmi, come la lunga pausa della controra e la notte: sono spazi per quelli come me. La gente se ne sta in casa o solo in certi posti, e la città diventa un’altra e la puoi camminare come un gatto randagio, senza casini, senza che nessuno ti dia problemi. Un tempo, anche per comprare le sigarette, prendevo la macchina. D’accordo, era una macchina come si deve, comoda con tutti i confort, che, alla fine, avrei potuto viverci e tutto quanto. Scendevo di casa direttamente al piano interrato dove sono i box condominiali, salivo in macchina e andavo. Era come non uscire mai di casa, alla fine. E, infatti, piano piano, avvenne proprio quello. Voglio dire, stava già avvenendo e non me ne accorgevo. Non so neanche come ero riuscito a convincere i miei a comprarmela. Forse, era stato il fatto dell’incidente col motorino, lo spavento intendo. Non mi ero ancora rimesso totalmente che mi ero cacciato in testa ‘sta cosa della macchina. Una certa idea già ce l’avevo. Cioè, due o tre tipi di auto già mi piacevano, però non avevo certo le idee chiare. Cominciavo a stare meglio e cominciavo ad annoiarmi, tutto il giorno tra letto e poltrona. Mi feci comprare da mia madre qualche periodico. Prima quelli di musica, che è la mia vera passione, forse, poi quelli di auto. Così, mi fissai con la macchina più figa che c’era in quel momento: la Lancia Delta integrale. Un mostro! Veramente, ancora non mi pare vero: come lo dissi, i miei me la comprarono per davvero, e con tutti gli optional che volevo. Per un paio di volte mi dissi pure che avevo sempre pensato male dei miei ingiustamente. Mia madre, facendomi vedere le chiavi della macchina, si era commossa. Era stata dolcissima. Quasi, mi mettevo a piangere pure io. Poi, aveva attaccato con le solite cose: i sacrifici dei genitori, e il senso di responsabilità, e la gratitudine, e le promesse di mettere la testa a posto, e via così. Cioè, i soliti fatti dei genitori che chiedono qualcosa in cambio. Un mercato, pure in casa! Non l’ho mai sopportato. Cioè, i genitori facciano i genitori: hanno fatto le loro scelte, e chi ci mette bocca? Poi, alle loro scelte ci devono pure pensare! O no? Io sono una delle loro scelte. Nessuno li ha obbligati. Quindi, che provvedano a me. Chi glielo ha chiesto? Io non devo ricambiare, non devo restituire nulla. Io non ho chiesto un cazzo, quindi? L’HF sì che era una macchina! Fino ad allora avevo guidato solo quella dei miei: un’utilitaria della Fiat, da vergognarsi a girare con quella, e pure senza lo stereo. Nella mia, invece, avevo fatto mettere il migliore, con le casse sistemate sul pianalino di dietro, fatto rifare appositamente da un falegname, in ciliegio, in modo da sostenere adeguatamente le vibrazioni. Il suono era perfetto, pulitissimo. La musica è sempre stata la mia grande passione. Suonare uno strumento, ci ho provato ma niente. Però ascoltarla… Alla vita manca la colonna sonora. Se ci metti sotto la musica giusta, invece, le cose cambiano e la vita si fa densa. E’ come se, con la musica attorno, i minuti non si disperdano più di qua e di là, in tutte le direzioni, senza senso. Il tempo, con la musica giusta, comincia a girare in tondo e, piano piano, ti avvolge, e tu, pian piano , torni ad essere una cosa vera. Con contorni di un certo tipo, voglio dire. Con la mia macchina ho conosciuto il subappennino ed il gargano. Giravo tutti i giorni su quelle strade. Roba da duecento chilometri al giorno. M’ero fatto tutto un giro di amicizie. Nei paesi il fumo va alla grande, e con un minimo di buona volontà ci tiri su di che campare bene senza troppi problemi. Poi, queste cose, vengono da sé, non è che ci stai a pensare a tavolino. Se giri, compri qua e rivendi là, e non è neanche un gran lavoro. Quel che viene viene. Voglio dire, non è che ci hai orari d’ufficio! Mi piaceva stare lontano da Foggia, troppa gente che mi sta sulle palle, troppi casini successi, troppi impicci. Invece, andare, così, girando per posti nuovi e conoscere nuova gente: mi sentivo bene. Era un buon periodo. Io ero quello che arrivava con l’HF nera! Ero quello che, se voleva, sapeva parlare italiano senza cadenze e cantilene. Vestivo alla grande: lo vedevo come mi guardavano i paesani. La cosa più bella era che potevo sempre andarmene quando volevo. Salivo in auto e andavo. Decidevo la colonna sonora e ripartivo. Così, senza crisi, tra le colline mi raggrumavo e mi ricostruivo. Certi pomeriggi d’inverno la gente non sa che cosa c’è su quelle strade, perché per saperlo ti devi fermare e devi ascoltare. Il vento ti cambia il cielo continuamente. La luce è sempre diversa. E’ una cosa che non si fa afferrare. Te la puoi godere soltanto lì, proprio in quel posto proprio in quel giorno e proprio a quell’ora. Ci puoi solo capitare. E, se ci capiti, devi saperla prendere al volo. Non puoi mai dire qual è il colore dominante, perché mentre lo stai dicendo è già diverso e le ombre hanno già dato a tutto un altro profilo. Tra le cose più belle è fermarsi tra collina e collina, scendere dalla macchina e pisciare nel vento, mentre attorno non c’è anima viva ed il cielo ti corre sopra come impazzito. La colonna sonora lì deve essere di violoncello o di clavicembalo. Onestamente, andrebbe anche Tom Waits o Capossela, ma la luce non deve ancora essere troppo bassa, perché con loro la gola, non lo so perché, ti si secca prima e, allora, cominci a bere e a fumare di brutto e tutto diventa troppo pesante. Con Bach, invece, la luce torna su e comincia a girare portata dal vento, e riesci pure a calmarti e, magari, ti siedi su un sasso e ti sembra di sentirti tutto addosso. Ma leggero, come una carezza. Ti sembra di respirare il tempo che riprende ad andare. Certi pomeriggi, c’è un odore di nebbia nell’aria che ti fa dimenticare tutto, e ti sembra impossibile che devi tornartene a casa la sera, perché la cosa più ovvia sarebbe prendere un avvallamento e cominciare ad andare. Andare… Andare… Andare… Ma, poi, c’è sempre un rumore, una macchina passa e ti ritrovi lì, su quella pietra dove ti sei seduto dopo avere pisciato, e ti senti uno stronzo. Un vuoto ti sfonda lo stomaco. Quel pomeriggio è successo esattamente così. Avevo un viola davanti che avrei voluto sapere dipingere per non lasciarlo scappare. Quel pomeriggio stava avvenendo qualcosa che sembrava una magia: il tempo s’era sospeso su quelle pietre del gargano. Chissà da quando quel viola era lì, dentro al cielo, e non voleva sparire? Chissà da quando io ero lì, dentro a quel cielo come un liquido ad ondeggiare piano, mentre altri liquidi mi attraversavano? Non doveva sparire, non doveva sparire mai, mai più! Però, un’auto, ad un certo punto è passata. Il cielo è diventato d’alluminio, immediatamente, e dentro mi si è allargato un vuoto. Mi sono sentito pesante nell’alzarmi. Ho preso una birra dal cruscotto. Ho aspettato, ma il cielo viola non tornava, e l’alluminio cominciava ad essere dappertutto. Anche la seconda birra sapeva di metallo e, allora, ci ho fumato sopra. La tristezza, però, era diventata violenta. Mi sono rullato una canna. Ho pisciato nel vento che era diventato buio. La terza birra l’ho bevuta mentre il mondo è diventato nero. Ho messo su Tom Waits. Mi sono sentito rauco anch’io. Il motore dell’HF, invece, era, come sempre, un ruggito regolare, senza sbavature, rotondo e pieno. Me lo ricordo Tom Waits, quella sera, sembrava non farcela a cantare ancora; mentre la mia macchina sembrava potere fare tutto, anche ridarmi quel viola. E, quella sera, alla fine, il viola l’ho rivisto, per un attimo ancora, poi mi sono addormentato. Il mattino dopo, m’ha svegliato un tizio che urlava. E, mentre mi svegliavo, sentivo un freddo terribile che si risvegliava da dentro più velocemente. La mia macchina era cappottata in un fosso, ed io ero dentro come se mi ci avessero messo dopo. Non avevo un graffio, insomma, ero solo morto di freddo. Ci ho messo un po’ per capire, per ricordare. Più che altro, per immaginare quello che era potuto succedere. Ma avevo freddo, freddo da non stare in piedi, e devo essere svenuto. Quel viola non l’ho mai più rivisto. Perso, come tante altre cose. La macchina è andata e la patente pure.


Detesto i cimiteri. Non è sempre stato così, ma da un po’ di tempo non ne voglio sapere, non voglio sentire parlare di malattie, di morti e tutto il resto. Mia madre, su questo punto, qualche volta, ha ripreso a parlare e fa la disperata. Dice che almeno una volta all’anno dovrei andare a trovare mio padre. Dice che è una cosa che non si è mai vista che un figlio non voglia trovare nemmeno cinque minuti in un anno per andare a portare un fiore sulla tomba del padre. E piange. “Ti chiedo solo questo – dice -. Fai tutto quello che vuoi. Non ti dico niente. Sei la mia croce, il Signore ha deciso così. Ho capito che non posso farci niente ed io ‘sta croce la porto. Ma una cosa, una piccola cosa ti chiede il cuore di tua madre…” Non vuole capire. Si fissa su ‘ste cose della “croce” e il “cuore di mamma” e va avanti come un disco rotto. Non vuole capire. Io nei cimiteri ci sono andato pure troppo. Ho sempre voluto fare cose strane, così, per vedere che effetto faceva. C’è stato un periodo che con alcuni amici mi sono fatto quasi tutti i cimiteri della provincia. Ci andavamo di notte. Mi ricordo che prima facevamo il carico di birre. Uno di noi portava uno zaino. Ci bastava mettere insieme i soldi per comprarne una di bottiglia da tre quarti. Organizzazione perfetta, più che collaudata. Il nostro negozietto di fiducia era il “papanonno”. Mi viene da ridere: a ripensarci m’accorgo che non ho mai fatto caso al vero nome di quel minimarket. Per noi era semplicemente il “papanonno”, perché c’era sempre ‘sto vecchio (a volte con la moglie, vecchia pure lei) che era una passeggiata fregarlo. Insomma, si entrava in questo negozietto tutto angusto. Quello di noi che aveva lo zaino, faceva il servizio in silenzio e senza fare casini, mentre gli altri due dovevano creare il maggior numero di diversivi facendo domande, battute, toccando di qua e di là platealmente. Alla fine, il copione aveva sempre lo stesso finale, si pagava una birra e se ne portavano via cinque o sei offerte inconsapevolmente dal “papanonno”. Per il cimitero ci volevano almeno un paio di tre quarti a testa. Allora eravamo ancora alle prime sbronze e l’euforia di due birre poteva ancora bastare. Poi, buona parte dell’eccitazione, veniva dal fatto in sé: violare un luogo chiuso, trovare la soluzione migliore per scavalcare il muro di cinta, ma soprattutto fare quelli che riescono a superare sciocche paure e avvicinarsi, in quel modo, all’estremo, alla cosa più estrema che l’uomo possa concepire. Stare lì vicini alla morte, sentire la morte, farne una cosa con la quale si ha confidenza. Le varianti, poi, venivano da sé: pisciare sulla lapide di maggiore cattivo gusto o con la frase più retorica o con la foto più pretenziosa; dare fuoco ai fiori finti dell’ossario; calarsi in una buca appena scavata e pronta all’uso; sedersi sui marmi nell’umida luna e bere e fumare e sussurrare per ore sul senso del mondo. Ci sono molte tombe a catacomba, nel cimitero di Foggia. Sono stanzette sotterranee chiuse da un pesantissimo coperchio di cemento che puoi aprire solo dall’esterno, facendolo scorrere sul pavimento. Alcuni avevano i binari così arrugginiti che, per farli scorrere, dovevamo metterci in tre a fare forza sul maniglione esterno. In una di queste tombe, una volta, i miei amici mi chiusero per fare uno scherzo. Io feci il superiore, accettai lo scherzo. I minuti passavano ed io non feci una piega. Incrociai le braccia, col sorriso sulle labbra. Poi le labbra mi fecero male ed il sorriso sparì. Ero in piedi, appoggiato ad una lapide, in un angolo, braccia e gambe incrociate. M’ero dato un tono, ma il tempo passava e pure quel tono sparì. Cambiai posizione, mi stavo stancando a stare immobile. Salii qualche gradino della scala e, con le braccia sollevate sopra la testa provai a smuovere il coperchio, ma senza maniglie era proprio impensabile aprirlo. Il tempo cominciò a passare senza un rumore e capii che lo scherzo, quella volta, sarebbe stato più lungo. La stanza non era più alta di un metro e ottanta. I loculi erano disposti solo su tre pareti, perché la quarta era completamente occupata dalla scala, sulla quale, in quel momento, m’ero seduto. I loculi erano tutti occupati ed i morti, lì dentro, erano tutti morti vecchi. L’ultimo era morto nel 1969. Due anni prima che nascessi io. La notte passò, e non fu piacevole. Non potevo neanche fumare, perché d’aria ce n’era davvero poca e non ci pensavo neanche. Il peggio, però, venne al mattino. Perché m’aspettavo che, passata la notte, la cosa sarebbe finita. E, invece, passò anche tutta la mattinata, senza un rumore. Quei due stronzi dei miei amici arrivarono soltanto alle due del pomeriggio. E come ridevano… Dovetti ridere anch’io. Insomma, il cimitero l’ho frequentato come nessun altro e non è questo il punto. Il punto è che ci sono stato troppe volte vicino alla morte. Adesso che ho deciso di ricominciare non ne voglio più sapere. Non voglio più neanche sentire cose di morti e tutto il resto. Mesi fa sono stato malissimo e lo so solo io come ci si sente. Ho avuto tre, quattro infarti nel giro di poche settimane. E’ orribile. Lo senti proprio il fisico che ti abbandona, che non ce la fa, e quel fisico sei tu, sei la tua vita che sta finendo, si sta spegnendo. Ho cominciato a sentire il cuore. E non è normale. Cioè il cuore fa il suo lavoro, ma tu non è che lo senti continuamente, ogni battito mica lo senti nel petto e in gola e in testa e poi nelle braccia e nelle gambe. Be’, io ho cominciato a sentirlo sempre, qualsiasi cosa facevo, lo sentivo. Poi il ritmo ha cominciato a non essere più regolare. Si fermava bruscamente e ripartiva con un botto che si ripercuoteva in tutto il torace. E sono iniziati i dolori. Come dei bruciori nei polmoni, delle fitte alle spalle e in testa. Ogni tanto, le vene delle gambe si ostruivano ed i piedi mi si gelavano. Non mi alzavo più dal divano. Ho smesso di bere. L’alcol mi stava scombussolando tutto ed il cuore non reggeva. Ma pure le sigarette: dovevo smettere. Ho ridotto drasticamente. Il dolore sotto lo sterno, però, era ormai continuo. Sentivo la schiena spappolata da un tumore. Le braccia erano continuamente intorpidite. Quando riuscivo ad addormentarmi ero risvegliato da un battito aritmico e, così come mi svegliavo, il cuore partiva a tremila. Sentivo tutte le vene indurite e avevo freddo, sempre freddo. Ormai non uscivo neanche più sul balcone. Speravo che passasse. Avevo smesso di bere e di sigarette ne fumavo sì e no cinque. Niente! Stavo morendo. Avrei dovuto chiamare il medico. Ma cosa poteva dirmi il medico? Con la vita che ho fatto, lo so pure io che non si può reggere a lungo. Un giorno, mi è andato via il respiro e il medico lo ha chiamato mia madre. Mi ha detto che non era l’infarto, ma ansia. Mi ha detto che avevo delle crisi di ansia e mi ha dato delle gocce. Io l’infarto l’ho avuto davvero. Anzi tre o quattro, ma il fisico ha retto.


Da un po’ di tempo, non bevo più. Cioè, voglio dire, solo ogni tanto. Ed ho diminuito le sigarette. Così, pian piano, mi dovrei un po’ rimettere in sesto. Ci sono stato troppo vicino. Anzi, ci sto ancora troppo vicino, secondo me. Quel medico non capisce un cazzo. Quando la menano sullo stress e fatti d’ansia, vuol dire che non ne capiscono. Non è la prima volta che si sente. Per la miseria: saprò ben io che cosa ho avuto?! Insomma il fisico è compromesso, e non può essere che così con la vita che ho fatto. Qualcosa, però, forse, la posso recuperare. Intanto, adesso, non bevo più, che è già qualcosa, anche se continuo a sentire dolori strani e una continua stanchezza. Ma lo so anch’io: non è che posso rimettermi in quattro e quattro otto. Oggi, per esempio, sento un groppo in gola da stamattina quando mi sono svegliato, e non va via. Anche delle fitte in testa. Comunque, adesso sono per strada. Ho appena mangiato. Mia madre mi ha fatto una fettina di carne con l’insalata che è andata giù bene. Il caffè non l’ho preso. Non ne bevo più il pomeriggio. Solo uno, quando mi sveglio la mattina. Sono le due e mezza del pomeriggio. Oggi il cielo è di latte, immobile. Non mi dispiace. Fa freddo – è dicembre, è normale -, ma io sono ben coperto. Tutta roba di marca, nuovissima e bellissima. Ho anche un cappello con visiera all’americana, ma di lana, molto inglese. E adesso mi metto pure gli occhiali da sole. Onestamente, ci vedrei meglio senza, ma mi stanno da dio. Non so dove andare, ma sento che camminare mi fa bene alla circolazione, e anche l’umore migliora. Foggia dorme a quest’ora e ci sono delle vie dove il silenzio è totale. Una mezza intenzione di andare a prendere un film l’avrei. Ma la videoteca è dall’altra parte e, non lo so perché, voglio andare verso il centro e sto già andando proprio in questa direzione. Mi viene in mente che proprio ieri mi sono accorto, per la prima volta, di come stanno divisi i film al Blockbuster dove vado io. Dunque: 1) emozioni; 2) in famiglia; 3) relax; 4) adrenalina. Non c’è altro. Solo queste quattro categorie. Capito? Il mondo diviso in quattro, nient’altro. Poi, per me il cinema è cultura. Sì, voglio dire, una parte della cultura. Io non sono un ignorante. Certe cose ci arrivo ancora. E se la cultura delle immagini la dividiamo così, significa ridurre tutto a in famiglia, relax, emozioni e adrenalina. Queste non sono categorie culturali, sono solo distinzioni da dopolavoro. Cioè, vogliamo riempire il tempo, questo è il punto, le cose ci servono per fare passare il tempo. Io, invece, penso che di tempo ne ho poco e quello che ho speso è ancora tutto impicciato. E’ difficile cambiare le cose, questo l’ho capito, e forse per questo mi sono incasinato la vita. Non l’ho voluta accettare così com’è. E, invece, certe cose è inutile andarci contro. Ora, voglio solo stare bene. Con la mia ragazza non ci vediamo da un po’. E’ per un insieme di fatti. Lei studia, ma sta a casa perché la madre è vecchia, mezza paralitica mi pare. Io, ultimamente, sono stato come sono stato… Ma adesso sarà diverso. Anzi, ecco perché sto camminando in questa direzione: sto andando verso casa sua. Potrei chiamarla, un attimo, per vederla solo un attimo. Dietro questo palazzone enorme che ho davanti, ci sta un quartierino popolare. Sì, lei vive là, in una casa a piano terra. Ci vado. E’ tanto che non la vedo. Solo un saluto, non sono uno che rompe. Poi, è proprio qua, dietro a questo palazzo. All’angolo giro. E’ una bella ragazza Claudia. E’ semplice. Ha quelle bellezze perfette, voglio dire, naturali, senza esagerazioni. Ho girato l’angolo, ma… il palazzo prosegue anche da ‘sto lato. Forse, è l’angolo ancora dopo, Sì, senz’altro, mi sono un po’ confuso. Al prossimo angolo, giro e c’è una specie di piazzetta con case basse, tutte a piano terra. E’ lì che abita Carla… O Claudia… Come cazzo è che non mi ricordo il nome della mia ragazza. Che testa di merda che ho! Claudia, Claudia, deve essere. Ecco, giro l’angolo, ma il palazzo continua pure da ‘sto lato. Guardo in su: il palazzo è altissimo. Conto i piani: dieci, e si intravede, anche, una mansarda. E’ nuovo ‘sto palazzo. Mi pare nuovo, almeno. Era qui che abitava Carla. Sì, insomma, Claudia o Carla, lei. Lei, mi ricordo che era qui… Faccio ancora il giro dell’isolato, tutto. Stavolta mi sembra anche diverso da prima. Mi sento sudato, ma fa freddo. Non devo strapazzarmi. Vado a sedermi su una panchina che sta lì, sul marciapiede del corso. Mi tolgo il cappello, mi asciugo il sudore, allento un po’ la sciarpa. La testa mi gira ma, soprattutto, ho una fitta che mi ferma i pensieri. Non penso. Non voglio pensare. Le cose devono rimanere come sono. Un film tranquillo, di questo ho bisogno. In casa fa caldo, si sta bene. Guarderò un film rilassante e a tutta questa cosa ci penserò un’altra volta. Sì, un’altra volta.


Così, è un bel po’ di tempo che posso andare solo a piedi. Ma, in parte, ne sono contento. Oltretutto, da quando ho ripreso fiducia, andare, girare, è la cosa che mi tiene vivo. Ormai, in questa città, dopo tanti anni, non conosco quasi più nessuno. Tutti quelli della mia generazione sono scomparsi, si sono fatti una vita altrove. Tutti gli scombinati che frequentavo non sono più in giro. Alcuni sono morti, altri si stanno recuperando, di alcuni non ho più notizie. Delle facce note, ogni tanto, riappaiono, ma non c’è problema perché ci evitiamo. Sarebbe troppo stare, così, l’uno davanti all’altro. A dirci, poi, cosa? Ognuno vedrebbe nell’altro che schifo ha combinato della sua vita. Allora, lasciamo perdere. Chi prima vede l’altro cambia strada. Non è bello ricordarsi certe cose. Poi, appunto, ci sono i morti di mezzo, e ci sono storie tremende che, allora, scivolavano normali, ma che oggi lo stomaco non le sopporta. E’ come una città fantasma questa per uno come me, un sopravvissuto. Tutte le ombre delle nostre vite storte sono già sparite. Mi capita, per esempio, di vedere per strada le madri di alcuni che erano nel giro con me. Sono donne anziane ma in forma. Le vedo portare delle buste della spesa che io mi schianterei. E poi, io lo so che cosa è successo nelle loro case, ma non sembra, non lo vedi su quelle facce. I figli si sono giocati la vita e quelle donne niente, a vederle mi sembrano indistruttibili, eterne. Sono capaci di piangere tutte le lacrime del mondo, ma campare cent’anni; mentre i figli alla prima cazzata ci lasciano la pelle. C’era uno che chiamavamo Attila, tanto che non mi ricordo più qual era il suo nome vero. La sera che l’Italia ha vinto la coppa del mondo, nella fontana davanti alla villa ha menato una ventina di persone. Tutte insieme. Me lo ricordo che lo vedevo da lontano, mentre ci stavo ancora arrivando alla piazza. Si vedeva solo lui, in mezzo, altissimo, e solo spruzzi attorno. Da lontano, sembrava che la grande vasca della fontana ribolliva e sfiatava come un geiser. Poi, quando mi sono avvicinato, ho capito che era scoppiata una rissa. Una ventina di stronzetti contro Attila. Sono finiti quasi tutti al pronto soccorso. Una scena epica. Pareva avere cinque sei braccia che andavano ad una velocità impossibile. Menava che era una bellezza stare a vederlo e compatire quei fessi che, evidentemente, non lo conoscevano per mettersi contro. Quella sera stessa, seppi che s’era ribaltato con la macchina, in pieno centro, (chissà a quanto andava?) e pure nell’incidente non s’era fatto niente. Una forza della natura… E mo’ sta in un ospedale del nord che non è proprio un ospedale: è una via di mezzo tra una clinica e un manicomio. M’hanno detto che sta come scimunito, il cervello non funziona più e c’è bisogno di gente pure per farlo mangiare e tutto il resto. Insomma, io ci sto ancora vivo qua in mezzo, e ragiono e cammino. Tengo duro, per mo’. Non è facile cambiare le cose, però io sto qua. Vedremo…
donato pistone (gennaio 2007)

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