Acrilico su tela cm 30 x 40 |
Alta e magra era Rosamaria. Bella, senza ombra di dubbio. Lunghi capelli neri e lucenti. Diciassette anni, lo sguardo già profondo, intenso. Occhi scuri con riflessi verdi, in un disegno un po’ orientale. Anche i piedi aveva belli Rosamaria, anzi, pensava fossero le parti più interessanti del suo corpo. Le era capitato di notare che anche nelle persone più avvenenti i piedi, se non proprio sgradevoli, risultavano per lo meno assai trascurati. Quelle estremità del corpo, le più lontane dagli occhi, le più lontane dalla testa, che come qualsiasi zona periferica tende ad essere dimenticata ed abbandonata, in lei erano l’ultima felice regione di una bellezza rigogliosa, armoniosa e completa.
L’estate era la stagione di Rosamaria. Pochi indumenti. La pelle che respira ed acquista i suoi più veri profumi. Il corpo, non nascosto, che può riconquistare il suo naturale con-sentire con la natura fuori.
Tutt’attorno il sole accecante inondava il silenzio della campagna attraversata dal piccolo fiume dove Rosamaria e Roberto avevano fatto il primo bagno dell’anno.
Era quasi un loro posto segreto quel punto in cui il fiume, adagiandosi in un’ansa, creava una pozza d’acqua in cui potersi immergere in piedi fino alle spalle.
Rosamaria conosceva Roberto da quando erano bambini e crescendo era diventato il suo unico vero amico. Avevano la stessa età, ed erano passati con assoluta naturalezza dai giochi alle letture, mentre gli altri coetanei a mala pena aprivano i libri di scuola.
I primi viaggi nella grandezza del mondo, Rosamaria li aveva fatti ascoltando avidamente don Pietro quando, tornato da paesi e città che parevano lontanissimi, ne parlava a cena a donna Elena. Se poteva, indisturbata, lasciava il suo posto a tavola e si raggomitolava sul divano, nell’altra stanza, al buio e chiudeva gli occhi. Le parole del padre la conducevano per mano, per salire sull’auto e vedere la campagna muoversi al finestrino, verso la gente del mondo, verso la pianura, verso il mare.
Era anche capitato, durante pomeriggi invernali di giorni di festa, che don Pietro era stato costretto a restare in casa. Allora Rosamaria aveva sperato che si sedesse sul divano a sfogliare il giornale. Era accaduto raramente, ma era accaduto. E Rosamaria si era seduta vicino al padre, piccolissima, e aveva chiesto: “Mi racconti una storia?” Don Pietro aveva ripiegato il giornale (era accaduto pochissime volte, ma era accaduto), aveva preso tra le sue enormi braccia Rosamaria, ed aveva raccontato di Napoli, del mare, delle navi. Era successo, forse, solo due volte, ma come era stato bello nell’odore di don Pietro attraversare la nebbia ingiallita dai lampioni fuori oltre la finestra e arrivare al mare. Salire sulla nave e andare andare andare.
Don Pietro era dolce, ma il suo tempo era sempre poco. Rosamaria aveva sognato mille interminabili pomeriggi di racconti, che avrebbero potuto essere, ma non furono mai. Aveva sentito che il padre era come uno scrigno pieno di cose inaudite che però non si riusciva a godere, perché il lavoro e il fare venivano sempre prima del sentire e dell’immaginare. La dolcezza di don Pietro, in fondo, aveva qualcosa di rituale che la rendeva fredda e distante.
Un giorno, in fondo ad un cassetto della sua scrivania, aveva trovato un foglietto di carta sul quale, con la grafia incerta di bambina, aveva scritto: “Sono come la goccia sul vetro appannato della vita, che ad ogni istante scivola più in basso”. E le era parso che quelle parole le si fossero formate nella mente proprio durante uno di quei pomeriggi, anche se, forse, quei pomeriggi non erano mai stati.
La scoperta dei libri era stata, per Rosamaria, il momento del disincanto e del distacco. I libri donavano senza parsimonia pomeriggi caldi di abbracci di storie diverse, molto più complicate di quelle di don Pietro, molto più interessanti. I libri erano occasioni che potevano essere e che diventavano vere solo a volerlo. I libri erano tempo dedicato, tempo vero, denso di sentire e immaginare e pensare.
Abbandonata sul pianerottolo tra il primo ed il secondo piano c’era, da sempre, un’esile libreria con i ripiani inferiori chiusi da sportelli in cui tenevano vecchie scarpe, scarponi e stivali per la campagna. Sui ripiani superiori, a vista, c’erano, invece, libri che non si era mai soffermata a guardare. Aveva tentato di afferrare quelli disposti più in alto, dal dorso identico ed elegante, ma si era ritrovata in mano l’intera fila di volumi: libri finti, ornamentali, un corpo unico di cartapesta, cavo all’interno, che non dimenticò mai.
Sul ripiano inferiore, invece, pochi, disuguali e maltrattati dorsi. Tra questi, un libriccino ingiallito prometteva “Le storie della storia del mondo”. Aveva letto, quella sera, di un tale Laomedonte, re di una città lontanissima nella notte dell’antichità. Aveva visto Esione, sua figlia, che si preparava all’estremo sacrificio per la salvezza di tutti i Troiani. Aveva sentito sopra di sé la gravità della decisione e l’altezza del gesto. Aveva vissuto sino in fondo quel primo racconto, tracciato con imperfetti caratteri di stampa sulla carta macchiata ed ammuffita dal tempo e dall’abbandono. Non c’erano soltanto le distanze per viaggiare, ma anche il tempo.
Quella sera aveva pensato che il mondo non è uno. Tanti sono i mondi vivibili, innumerevoli, nello stesso tempo ed anche in diversi tempi. I mondi sono quanti noi siamo, quanti uomini sono stati, quante città e paesi esistono, quante storie possono essere. Don Pietro e i suoi racconti erano diventati solo un mondo tra i tanti e, per di più, ingiustamente inaccessibile.
Lesse, poi, le altre storie di quel libro dalla carta ruvida color latte macchiato e, subito, la passione segreta che ne era derivata, aveva imposto l’esigenza di parlarne con qualcuno.
Roberto aveva voluto vedere quel libro così fantastico che sapeva anche dell’intimità della sua amica, ma non era riuscito ad ottenerlo in prestito perché, finita la lettura, Rosamaria non voleva distaccarsene per nulla al mondo. Continuava a rileggere quelle pagine, a volte anche solo un periodo le bastava per volare via. Essere giunta all’ultima riga era stata un’esperienza dolorosissima. Oltre la copertina null’altro. Quel mondo, quei mondi non potevano finire così, non dovevano scomparire.
Era autunno inoltrato quando Roberto le disse: “Voglio darti una cosa, ma tu, in cambio, devi promettere che mi presterai il tuo libro”. Rosamaria aveva esitato, e solo la febbrile curiosità le aveva concesso, d’un tratto, di sciogliere ogni riserva.
Roberto aveva, così, estratto la sua promessa da una tasca del cappotto. “La ballata di natale” di Dickens. “E’ bellissimo, Rosamaria! Io… questo libro voglio che tu lo tenga con te. Il tuo libro, invece, voglio solo leggerlo e te lo restituirò prestissimo”.
Il distacco, tuttavia, non era stato del tutto indolore, tanto più che, per giorni, Rosamaria non era riuscita ad iniziare la lettura della “Ballata”. Aveva aperto il libro quella sera stessa, ma, subito, le prime parole l’avevano confusa e delusa. Troppo diverso, ed era come se un estraneo si fosse intrufolato nella sua stanza. Non era il suo libro, non era la stessa cosa.
Poi, un pomeriggio, col profumo d’arancia sulle dita ed un’incerta sensazione di tradimento, aveva cominciato a sfogliare le pagine osservando la forma nitida dei caratteri di stampa, notando la qualità della carta liscia e bianca. Era un libro ben tenuto, che diceva di una libreria senza scomparti per gli scarponi e lontana da umidi lucernai. In più, la sicurezza della rilegatura le incuteva un certo timoroso disagio.
Pian piano, la sua esplorazione era tornata a soffermarsi sulla prima pagina: “Marley era morto, tanto per cominciare”. Aveva riletto la prima frase un’infinità di volte, poi, all’improvviso, era scivolata nella storia e l’aveva letta tutta d’un fiato. Era notte, quando spense la luce sul comodino e si addormentò. Al mattino il libro era lì, accanto a lei, non più un estraneo ma un nuovo amore.
Rosamaria aveva conosciuto l’amore ed imparato ad amare così. La scoperta, il possesso, la novità, le diversità, la ricchezza dei mondi oltre il suo mondo, la sete e la fame dell’alterità, la prepotenza del desiderio, ed il darsi ed il divorare ed il tornare ad assaggiare. Il gioco dello scambio dei libri era stato il primo grande fatto d’amore della sua vita, con il senso di colpa del tradimento, con il vuoto dell’allontanamento, con il fremito della novità, l’invasione degli odori nella percezione acuta della lettura che la iniziava alla partecipazione carnale e totalizzante all’universo degli altri mondi. Per sentire, alla fine, l’ebbrezza di una ricchezza composita e completa fatta di dolcezze sempre rinnovate mai stancamente ripetute.
Dalla fessura delle palpebre Rosamaria spiava il mondo immerso nell’oceano di luce della prima estate, mentre il sole faceva sentire il suo pesante furore sul corpo disteso ad asciugare. Roberto era disteso accanto, anche lui in silenzio. Dalla fessura Rosamaria giocava a vedere segretamente cosa accadeva lì fuori. In quel momento, anche il suo corpo le pareva un perfettamente fuori: tutta la fisicità del mondo oltre la tendina delle ciglia; al di qua, soltanto l’anima, impalpabile ma distinta. Le pareva che in questo modo fosse possibile cogliere con maggiore chiarezza le linee e i colori e i pieni e i vuoti della bellezza intorno, l’ondeggiare giallo dei campi sui profili delle colline in fondo, ed il cielo mai stanco di mutare tonalità. Ciò che però le dava il senso più intenso della bellezza proveniva dal suo stesso corpo, le cui linee immerse nel resto sapevano dell’armonia viva, incarnata.
Lievemente girata su un fianco, vedeva le sue lunghe dita della mano destra poggiate sull’anca: una mano agile, elegante, curata ma naturalmente aggraziata, come levigata nel marmo michelangiolesco. E così il profilo della lunga coscia dalla pelle fresca, tesa e liscia.
La vera bellezza, però, era alla fine, lì in fondo, dove imponente si inarcava il collo di un piede lungo ma perfetto, disegnato da nervi e vene evidenti tanto da esprimere l’energia armonica dell’intero corpo.
Rosamaria era inebriata dalla singolare bellezza del suo fisico, ma ciò che le interessava era l’anima, quel tutto vero al di qua della fessura delle sue palpebre. L’anima che sente, percepisce, pensa, ragiona, memorizza, vola, si proietta, sogna, vede l’invisibile, crea, può l’impossibile pur costretta nella gabbia corporea.
La materia può essere plasmata, modellata, raffinata con ogni maestria ma permane in essa sempre l’originale pesantezza, che prima o poi restituisce la noia. Perciò il bello informato non può mai essere eterno, non può mai veramente farsi divino; può soltanto evocare, echeggiare quell’idea pura perfetta cristallina.
Rosamaria aveva dato il suo corpo a Fernando, per la prima volta, ed era andata come lei immaginava. Lui aveva molti anni più di lei. Impiegato in città, non bello anche se alto, un po’ grasso. Un giorno era venuto al negozio di don Pietro per comprare la stoffa per un vestito buono, e quel giorno per puro caso s’era trovata lei a servirlo. Come era sua abitudine, Rosamaria aveva sorriso e aveva detto con voce chiara:”In che posso esserle utile?”, guardandolo dritto e fissamente negli occhi. Fernando distogliendo lo sguardo aveva risposto, e per Rosamaria era iniziato il divertimento. Non era la prima volta che giocava così e già in tante altre occasioni aveva visto uomini confondersi, balbettare e dire frasi assolutamente fuori posto o assolutamente sciocche, solo che lei gli avesse sorriso. Ma quel giorno, chissà perché, il gioco era andato oltre. Rosamaria aveva fatto parlare gli occhi e tutto il suo corpo per vedere che reazioni riusciva a suscitare, ma prima che Fernando, già stremato dal gioco, fosse riuscito ad andare via, aveva fatto in modo di sfiorare con le sue dita la mano di lui.
Fernando aveva lasciato il negozio con il sangue in tumulto e le tempie che bruciavano. Rosamaria gli era entrata nella carne come una febbre, e quando ebbe riconquistato un po’ di coraggio per tornare al negozio, con una scusa, capì di essere in preda alla follia. Quel pomeriggio, infatti, nel negozio c’erano molti clienti e Rosamaria stava mostrando tessuti e biancheria destinati al corredo di un matrimonio: cosa lunga. La figlia più grande di don Pietro si era, invece, presto liberata, e Fernando aveva dovuto sprecare con lei la scusa preparata. Il negozio era ampio e Rosamaria lontana, ma il turbamento di Fernando ne aveva tratto, comunque, violento nutrimento.
I giorni di Fernando non erano più gli stessi e la solitudine della sua casa era divenuta ben altra rispetto a quella che si era insediata alla morte della madre. Allora aveva ristrutturato l’appartamento e vi aveva disposto dei mobili decorosissimi. Aveva iniziato una nuova vita in spazi finalmente suoi, libero per la prima volta di organizzare il quotidiano con ritmi appartenenti alla sua sola esistenza, come un rispettabile impiegato dello Stato, fuori dalla povertà che s’era trascinato dall’infanzia. Con Rosamaria ossessivamente tra i pensieri, tutto era mutato nuovamente, ed il tempo era diventato puro spazio di lontananza da lei.
Fernando era tornato in negozio per le prove del vestito buono che aveva commissionato, ma nella sartoria aveva trovato sempre e solo Matilde. Lo stesso sangue, la stessa carne, eppure Matilde non aveva alcunché di Rosamaria.
Un pomeriggio, mentre con indosso l’abito quasi finito guardava nello specchio della sartoria senza distinguersi, era apparsa Rosamaria. Alta e magra e sorridente, i capelli raccolti in una lunga coda lucente. Un refolo profumato aveva accarezzato Fernando. Si era chinata veloce a parlare di qualcosa in confidenza con la sorella seduta alla macchina per cucire. Poi un volo dei capelli neri e si era voltata verso l’ombra prima indistinta e aveva visto Fernando che guardava di pietra verso di lei.
“Da quanto tempo, signor Fernando! E come viene l’abito? Come viene?” Gli aveva girato intorno rapida e leggera. Poi si era fermata dietro lo specchio sporgendosi da un lato. “A me pare… bene… sì… d’altronde Matilde ha le mani d’oro. Ma… guardatevi, signor Fernando, guardatevi! Voi che ne dite?” Aveva così ripreso il gioco, Rosamaria, immediatamente attirata dallo sbigottimento che leggeva negli occhi di Fernando, incertamente immobili su di lei. “E su… guardatevi e dite! Non avrete fastidio che io sia qui…”
Fernando, dopo un po’ aveva distinto se stesso nello specchio e ne aveva tratto amarezza, come fosse incorso in un tranello. Distogliendo lo sguardo da quella leggiadria, aveva scoperto se stesso: goffo grigio senza espressione.
Rosamaria aveva continuato il gioco, sempre più divertita. Si era complimentata per il gusto di Fernando nello scegliere il tessuto, certo una lana classica ma sempre apprezzabile, in specie indosso ad un funzionario pubblico. Aveva lodato il taglio delle tasche, alla moda, che davano un tocco giovanile, come si conveniva ad un uomo prestante e, chissà, anche un po’ sportivo. Ed aveva aggiunto, con discrezione e grazia, che, magari, quelle scarpe lì, forse, non valorizzavano a dovere l’intero, e che, ovvio, erano le scarpe di tutti i giorni e che stonare non stonavano neppure troppo. Tuttavia, una scarpa nuova, di un bel pellame di qualità, ecco che avrebbe completato.
Fernando aveva tentato di seguire le osservazioni di Rosamaria, ma Rosamaria era troppo bella per riuscire a stare dietro al senso delle sue parole. Solo l’accenno alle scarpe lo aveva indotto a guardarsele, ed ancora una volta era stato invaso dall’amarezza.
Da tempo Rosamaria aveva scoperto l’effetto che provocava negli uomini, ma non ne aveva una piena e chiara consapevolezza. Era interessata, più che altro, dagli aspetti comici che l’attenzione suscitata recava con sé.
Donna Elena si era accorta assai per tempo della rara e pericolosa bellezza della figlia, e a don Pietro aveva detto che Rosamaria era un guaio, un guaio grosso; che con quel seno e quelle forme era miele per le mosche e non c’era da lasciarla sola un momento, ché di mosconi già se ne erano visti troppi.
Don Pietro aveva riso di gioia orgogliosa ed aveva risposto che il loro sangue era buono ed aveva fatto buona carne: tre figli sani e forti e belli. Rosamaria era un fiore speciale, di quelli che si vedono da lontano, sulle colline, e non si confondono nelle onde del grano.
Ma il cuore di donna Elena non era più tranquillo. Gli occhi degli uomini lei li vedeva su Rosamaria e sapeva i pensieri che c’erano dietro, mentre sua figlia pareva non sapere ancora nulla della vita.
“Un fiore”, aveva continuato don Pietro, “alto, fresco, acceso, forse un po’ selvaggio, come non se ne vedono facilmente! E come ogni fiore straordinario, meriterà di essere colto, ben raccolto. E ciò accadrà quando sarà tempo. Tu, stalle attorno, ma vedrai: la bellezza porta felicità, non sventure”.
Ma i timori di donna Elena erano aumentati quando aveva provato a parlare con la figlia per metterla in guardia. Rosamaria si era immediatamente trasfigurata, il volto teso e lo sguardo duro, e aveva detto che non voleva saperne di questi discorsi da paese, che non si faceva altro che vivere di chiacchiere sciocche, senza riuscire a guardare un po’ al di là del proprio naso. Aveva alzato la voce e aveva detto che lei era interessata a ben altro, e che non aveva alcuna intenzione di vivere come la madre, dando importanza alla superficie delle cose, soltanto a ciò che appare, senza pensare mai a ciò che c’è sotto, dentro, in mezzo, a ciò che magari è nascosto ma più vero. Voleva studiare, Rosamaria, studiare per potere andare via, ecco cosa voleva fare. Perché non ne poteva più delle forme. Forme, solo forme di cartapesta, vuote e pesanti insieme. Non ne poteva più delle finzioni d’un paese stupido, dove si pensa che la vita sia tutta nello sposarsi e fare figli, dove il tempo è interminabilmente riempito di parole incoerenti e sempre uguali, che non aggiungono e non tolgono niente. Dove la testa deve girare sempre e solo prevedibilmente, come un carillon a cui si dà la carica per avere monotonamente la stessa musica e lo stesso giro di pupi. E si sta così, tutti tranquilli del ben noto, del ben fatto.
Aveva aggiunto, infine, che gli uomini, “quegli uomini”, non la interessavano per nulla al mondo e che, quindi, donna Elena poteva ben stare serena che nulla avrebbe potuto accadere. Perché l’unica cosa che gli uomini di quel paese potevano fare a lei, Rosamaria, era farla ridere a crepapelle per quanto erano vuoti e caproni, volgari e fissati e chiusi, come tutti.
Rosamaria negli occhi degli uomini non sapeva ancora leggere. Lei vedeva solo lo sconcerto e la confusione. Si vedeva riflessa, in quegli occhi, come l’immagine stessa del disordine, come un temporale che si specchi e riversi all’improvviso in uno stagno. Il divertimento nasceva da questo potere che Rosamaria pensava possedere nell’anima, convinta che fossero le sue frasi argute, allusive, ironiche a generare il disorientamento.
Il mondo del paese si stringeva sempre più piccolo intorno a Rosamaria, così come i suoi pensieri aumentavano e si complicavano attraverso le letture, attraverso la conoscenza di uomini che avevano varcato l’oceano immenso dell’essere alla ricerca della massima leggerezza per consentire all’anima il volo finalmente libero, oltre le reti e le catene dell’uomo comune.
Che vita era quella del signor Fernando? Che vita mai poteva essere, stretto in quei vestiti sempre troppo vecchi e in quelle scarpe esauste indurite dalla cromatina? Col conto in banca che cresce pian piano e la pensione certa che matura? Con quelle sigarette fumate in solitudine, su e giù per il paese sempre alla stessa ora della sera, come un quadro vecchio e brutto da dimenticare in cantina. Con quel faccione rosso e quegli occhietti affondati e inespressivi. Con quel suo essere invidiabilmente impiegato statale che lo incorniciava nel salotto buono del paese. Che vita poteva essere, se non di squallida ripetitività, ma con il plauso silenzioso della gente?
Rosamaria parlava, alludeva, ironizzava e sentiva il piacere del disordine che riusciva a gettare in quelle teste regolari, piantate a dovere nel terreno.
Quel pomeriggio il suo giocattolo era stato quel grosso omone intimidito che non sapeva dove nascondere le mani troppo grosse, ma il gioco, all’improvviso, aveva mutato le sue regole e la leggerezza del divertimento si era cambiata in qualcos’altro.
Con la voglia irresistibile, infatti, di andare oltre, aveva ancora e più volte volteggiato attorno al signor Fernando e, ad un certo punto, alle sue spalle, con il pretesto di saggiare la linea del vestito, lo aveva cinto con le braccia. Il gioco era terminato. Rosamaria s’era vista nello specchio abbracciare un uomo e, nello stesso tempo e fulmineamente, aveva sentito tutt’intero il proprio corpo ed il corpo di lui. Aveva percepito la vibrazione dell’uomo, ma insieme ed oltre la propria volontà, aveva sentito vivere il proprio corpo.
S’era ritratta, Rosamaria, col sorriso ancora sulle labbra che, nello specchio, non era più fresco e leggero come un attimo prima. L’allegria si era incagliata in qualcosa di complicato ed aggrovigliato che appariva ora sul suo volto diverso ed ancora più di donna.
Era scappata via, allora, Rosamaria, farfugliando parole in disordine, con Matilde che da sopra la macchina per cucire guardava interrogativa ed il signor Fernando che si lisciava i fianchi della giacca, meccanicamente, dove aveva sentito la lieve pressione delle mani di lei.
Il gioco era andato oltre, e Rosamaria ancora non lo sapeva. Quella notte era stato difficile addormentarsi e, poi, il sonno era stato agitato e confuso. La mattina seguente, a scuola, non era riuscita a togliersi di dosso uno stato di straniamento accompagnato da una percezione acuta che apparteneva al sogno di quella notte. Non era riuscita, però, a legare quella eco ad alcuna immagine o situazione. La notte aveva lasciato soltanto una densa nebbia mattutina dai chiarori allucinanti. C’era, però, qualcosa di forte ed intenso che si muoveva o accadeva dentro quella foschia.
Era sabato, ed era tornata a casa con la solita corriera. Non era riuscita a leggere una sola pagina del libro che le era rimasto tra le mani aperto per tutto il viaggio, né era riuscita a guardare fuori il solito paesaggio, né era riuscita a pensare. Aveva mangiato pochissimo, perché la fame era finita dietro all’urgenza di ricordare, ricostruire, capire. Il pomeriggio aveva dato una mano in negozio, ma il tempo era diventato inconsistente con quel ronzio piatto nella mente svuotata. Quando, però, a sera, era tornata un attimo in camera sua, prima della cena, aveva provato il desiderio di fare un bagno, di immergersi in acqua caldissima, di lavarsi accuratamente. Nella vasca, col corpo che si abbandonava al calore, aveva chiuso gli occhi e, pian piano, le si erano andate ricomponendo disordinate sequenze del sogno.
Distingueva, a mala pena, dall’alto, la madre che mostrava sul bancone più lungo del negozio stoffe chiare, delle sete. Ma a chi le mostrava? Di fronte a donna Elena un capannello nero… donne vecchie, tutte vestite di nero, piccole, magre, dalle schiene curvate. Rosamaria, ora, vedeva quel capannello nero di fronte, era a fianco alla madre, forse un po’ dietro la madre. Donna Elena tastava i tessuti, li svolgeva e vi faceva scorrere sotto il braccio per farne apprezzare la luce e la leggerezza. “Seta magnifica”, diceva, “dovete prendere questa. Per una sposa non potete prendere altro. Il prezzo è buono, per questa qualità, e non potreste andare meglio. Questa è la roba buona ed è per una sposa… Non si può fare altrimenti… La gente che direbbe?! E, comunque, credete, oggi come oggi, questa offerta è un affare, un vero affare!” Un paio di volti deformati e asciugati dall’età nel folto del capannello parevano consultarsi per dire poi che il prezzo era alto, che quella stoffa… bella era bella, ma sempre troppo costava, e che non era mica lì che finiva: c’era pure il lavoro di sartoria da aggiungere. E il prezzo o calava o non se ne faceva niente. “Ma che dite?”, rideva donna Elena, “la sposa la mandiamo in giro nuda… Perché, a questo punto, meglio nuda che vestita come una poverella da fare ridere tutto il paese. Signore mie, lo sapete, certe cose vanno fatte. E si possono fare solo in un modo. Non è che c’è tanto da scegliere. E le figlie femmine sono un guaio… C’è da fare un sacrificio in più, ma nessuno potrà dire… Se poi volete fare parlare la gente, questo è un altro paio di maniche. Io sono commerciante: o vendo un articolo o ne vendo un altro, per me… L’importante è accontentare il cliente, però certe cose ve le devo dire, che poi non facciamo che la cosa finisce in un certo modo e venite poi qua a lamentarvi…” Seguiva qualche attimo di silenzio per vedere se le parole producevano qualche effetto nelle vecchie. Poi donna Elena, scostandosi un po’ da parte e lasciando in primo piano la figlia riprendeva col dire che guardassero Rosamaria, aveva indosso soltanto una camiciola semplicissima, ma di seta. Eh?! Non pareva un incanto? Come il tessuto accarezzava le forme… “Il tessuto…”, chiedeva una vecchia sporgendosi in avanti, “la seta è la stessa? La stessa qualità…” Mentre domandava, allungava una scarna e livida mano a toccare la camicia e così subito tutte le altre. Rosamaria sentiva il freddo delle mani che le sfioravano i seni o sulle braccia, freddo che diventava punture, spilli sulla pelle e poi ancora dita strette sui capezzoli e graffi e il capannello nero che si apriva e sbatteva come un covo di pipistrelli che le venivano contro e l’assalivano. Rosamaria scappava via, fuori dal negozio, nelle vie del paese con quella nuvola di pipistrelli che la inseguiva e non riusciva a distinguere le vie in cui voltava disperata e li sentiva sempre sopra di sé. Finché finiva nelle braccia del padre. Dove? Era a casa. Don Pietro la teneva teneramente tra le braccia e le accarezzava i capelli. Era enorme don Pietro, le sue mani gigantesche e le carezze tante, calde rasserenanti. Quelle mani però non erano più quelle di don Pietro: erano grandi sì, ma grosse anche e poco curate. Erano le mani del signor Fernando che accarezzava il volto di Rosamaria adagiato sul suo petto e lui che guardava tenero cogli occhietti affondati ma buoni.
Rosamaria aveva avuto un brivido e le immagini si erano dissolte nel fumo che saliva dall’acqua caldissima. Si era allora accorta che teneva i pugni stretti sino a provarne dolore e che tutti i muscoli erano tesi senza alcuna necessità. Si era, dunque, sollevata oltre il pelo dell’acqua per qualche istante e, immergendosi nuovamente, il contrasto di temperatura le aveva concesso una gradevole distensione. Le immagini del sogno, recuperate per brevi attimi, avevano ridestato sensazioni contrastanti che si facevano sentire, come una matassa intricata, nell’addome. Le mani di Rosamaria avevano cominciato a lavare con attenta dolcezza le braccia ed i seni martoriati dalle ossute e gelide mani delle vecchie. Paura, ribrezzo e rabbia si impastavano a tristezza e nostalgia sulla pelle e nella carne devastate dalle ferite. Ed il suo corpo non era più il suo; come persa l’originaria integrità, lo sentiva lontano, diverso, distante, irrimediabilmente guastato. E diverse erano state le carezze del padre, che avevano lasciato la presenza di un piacere mutato in qualcos’altro che le dava la nausea. Le mani di Fernando, invece, erano state leggere. Rosamaria le aveva, alla fine, seguite con le sue, nell’acqua, e le sensazioni avevano preso a convergere verso quel punto dove la matassa intricata si era andata sciogliendo in un appagamento che era cresciuto, stupito, inesorabilmente. Rosamaria aveva conosciuto, così, il piacere che il suo corpo sapeva prendere. E questo le aveva dato, ancora di più, l’idea della distinzione con la sua anima ignara. La fisicità viveva una sua vita indipendente, fatta di sensazioni e istinti, probabilmente, che si riverberavano poi nello spirito, lasciando delle orme come quelle del sogno. Nell’autopercezione di Rosamaria il corpo aveva preso il suo spazio, anzi, aveva ingombrato ogni spazio in maniera imbarazzante. I suoi seni erano troppo grossi, le sue coscie troppo lunghe, le sue labbra troppo accese. Ora Rosamaria sapeva cosa il suo corpo voleva, e cosa volevano gli altri corpi. Sapeva a cosa i suoi organi tendevano istintivamente, al di là della sua consapevolezza. Le sfuggiva del tutto il controllo su una parte di sé, e quella parte viveva liberamente intrecciata alla rete delle relazioni della materia, richiamando e rispondendo oltre la coscienza.
Quella settimana aveva nevicato quasi di continuo, ma la domenica il sole splendente nel cielo pulito sapeva già di primavera. Rosamaria era uscita di casa in quella luce accecante per recuperare un po’ il senso di se stessa, che pareva smarrito nel grigio dell’inverno. Aveva preso la via più breve per uscire dal paese e nei campi, ad un tratto, aveva percepito l’onda della bellezza: il profumo nuovo dell’aria pulita sopra le forme delle colline esaltate dalla neve brillante in contrasto con l’azzurro del cielo. Era un tutto fermo a riposare nel tepore del sole. Allora, anche Rosamaria si era fermata, si era seduta su un muricciolo a secco, aveva raccolto le gambe tra le braccia e, chiusi gli occhi, aveva rivolto il viso al sole. Le si era sciolto dentro un calore rigenerante e rasserenante. Si era sentita donna, nella pienezza del suo corpo, e felice nell’aria fragile che accarezzava il tutto attorno vivo. E l’onda della bellezza pareva interminabile. Quei lunghi momenti le erano parsi di purificazione, liberandola da ogni pensiero, lasciando spazio alla casualità delle percezioni. Sentire in maniera così forte la natura e la sua bellezza l’aveva persuasa dell’assoluta bontà della materia, estranea ad ogni volontà, priva di qualsivoglia direzione, meravigliosamente ciclica e incolpevole. La materia segue sempre e solo le sue stesse tracce, riverberi incerti di qualcosa d’altro che è dovunque e non è in alcun luogo, una perfezione ed un’infinità di cui si può soltanto percepire l’esistenza. E l’uomo è questo strano impasto che ne fa un essere continuamente disorientato che non può adagiarsi nella natura e non può vaporare nello spirito, ma che dell’infinito ha pure un intimo sentimento. Rosamaria aveva, infine, pensato a Fernando, a come, nel sogno, erano state dolci le sue carezze ed allo sguardo che era stato come un generoso abbraccio che aveva dissolto l’angoscia della fuga. E poi aveva ripensato a quanto era successo in sartoria davanti allo specchio con Fernando ed il suo abito nuovo, ma allora era scesa dal muretto e si era incamminata verso casa. Tornando si era trovata a percorrere delle vie in cui il sole non poteva filtrare. Pioveva dai tetti la neve che si andava sciogliendo in un’aria umida di desolazione ed in terra il ghiaccio crepitava sotto i passi misto a fango. Qualcosa stava cambiando e Rosamaria non riusciva a sistemarla dentro di sé. L’estraneità del corpo non le dava pace. Con gli indumenti aveva, in ogni modo, tentato di nascondere e deprimere le sue forme, che parlavano un linguaggio nuovo che lei non voleva sentire. Ma il disagio era comunque presente, perché la sua fisicità le pareva costantemente qualcosa di proiettato fuori, gettato al di là di se stessa, che si fissava nella percezione degli altri come una forma, soltanto come una forma cava all’interno.
A lei Fernando era parso esattamente come una forma vuota, una forma con cui giocare, una forma a cui lei aveva dato contenuto. E soltanto il sogno le aveva rivelato una possibilità altra, un’ipotesi di Fernando, solo un’ipotesi, ma che le pareva più vera, più profonda. Un’ipotesi, d’altronde, che forse si era formata da quel contatto tra i corpi in sartoria.
!!! E se l’anima non fosse che un formidabile inganno? Se non fosse altro che una raffinatissima tecnica dell’animale umano per perpetuarsi, mettendo nell’angolo le evidenze della finitezza corporea? !!!
donato pistone (27 giugno 2009)
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