lunedì 26 dicembre 2011

mASIAfucker di Il'ja Stogoff (19/03/2006)

La Russia: "una prospettiva (dolorosamente) privilegiata del crocevia contemporaneo"
Come leggere, oggi, il nostro mondo? Si ha l’impressione di avere perso le categorie interpretative; mentre il concetto onnicomprensivo di globalizzazione spiega tutto ma non dice, in fondo, niente: sembra aggiungere sempre meno alla superficie delle cose, dei fatti, delle persone. Siamo tornati a parlare di religione, senza essere religiosi; dividiamo l’Umanità, conoscendola meno di prima; vogliamo esaltare la nostra civiltà occidentale, mostrando di aver dimenticato cosa sia stata. La storia non è finita affatto, ma il senso ci sfugge continuamente, sommersi, come siamo, dal “troppo insignificante” che riempie le nostre giornate.
Come tornare, oggi, allo sforzo di leggere il mondo? Come tentare di liberarci dal guardare senza capire? Abbiamo ancora speranza di potere fuggire dalla gabbia prospettica di televisori sempre più grandi che vomitano rimasticate immagini provenienti da tutto il mondo, buone per andare dritte allo stomaco, velocemente, e repentinamente dissolversi? E se cominciassimo dal guardare ad est? Alla Russia, alla ex Unione Sovietica? A questo sterminato e sconosciuto universo umano, che ha smesso di essere l’anti-noi, l’anti-occidente, l’anti che dava senso ad un mondo che, oggi, non è più e non sa che cos’è?
mASIAfucker è il secondo libro di Il’ja Stogoff, scrittore pietroburghese di trentacinque anni. Nella terza di copertina una cartina, con tanto di itinerario, e la scrittura in prima persona che si coglie immediatamente, lascerebbero pensare a ricordi di viaggio di un giovane Russo che si è spinto, attraverso il Kazakistan fino all’Uzbekistan, della leggendaria Samarcanda, e da qui ai confini orientali dell’impero, sul Pacifico, per poi intraprendere la via del ritorno in Transiberiana. Non è questo o, perlomeno, non è solo e tanto questo: è molto di più, e lo dichiara il sottotitolo: Cronaca del perdersi e (forse) del trovarsi.
Il libro è intessuto di piani metaforici che danno a questa scrittura una leggerissima profondità. La lettura ci spinge effettivamente in viaggio, ma è un viaggio che continuamente propone dimensioni molteplici. Il realismo di queste pagine è dei più convincenti, perché gratta a fondo nel barile del ventesimo secolo e ne restituisce, dai suoi ultimi decenni, una visione complessa, dolorosa ma ampia. Una prospettiva diversa che confligge, naturalmente, con le sciatte semplificazioni fornite dai berlusconismi, e che inizia a forgiare gli strumenti per orientarsi – evitando scorciatoie consolatorie – nella storia di oggi.
È il racconto di una fuga che interseca i livelli della coscienza collettiva con quelli del singolo, il livello della storia con quello della cronaca. È una fuga che inizia senza manifeste e chiare ragioni da Mosca, la Mosca dei giorni presenti, in cui il mondo del benessere è entrato con i suoi simboli ed i suoi idoli: dal dollaro a tutti i mezzi del “divertissement” (stampa ridotta a rivista patinata, night club dove pian piano marcire nell’alcol, musica punk ed immagini e suoni di MTV). La Mosca in cui la nostra civiltà ha rapidamente esportato “valori”. Parola con cui troppi politici nostrani si riempiono la bocca e che, forse, non sono che la nostra sub-cultura del controllo di massa che lì, in Russia, immediatamente si apparenta con lo strumento locale: la vodka.
Di fronte alla stazione ferroviaria di Kazanskij, il protagonista si accorge di non avere mai varcato questa porta verso il sud dell’ex Unione Sovietica, verso un lontano mondo Kazako, verso la favolosa località dello spirito di “tantiposti”. E la decisione è presa: verso il sud, dove “crescono meloni ed eroina, in cui le ragazze hanno profili aztechi e nessuno sa che Jimi Hendrix è morto”, verso “tantiposti”.
Dalla Russia desolante e desolata, popolata da un’umanità stanca, piuttosto che liberata, intorpidita ed abbrutita dall’alcol, non più soggetta ad uno stato di polizia ma già schiava dei miti occidentali, verso uno dei sud del mondo dove, immancabilmente, “è molto importante che tra noi e tutto il resto ci sia un vetro. Uno schermo piatto. Se c’è un vetro è tutto okay. Si può far conto che si tratti solo di un film. Se non c’è il vetro, ci tocca ammettere che tutto il casino di questo mondo in qualche maniera ci riguarda… ci riguarda seriamente”. Un sud del mondo che era un solo Stato (l’URSS) – come tante altre realtà che ci è toccato scoprire – che è di una estraneità totale rispetto a noi, estraneità per la quale conosciamo Samarcanda dai libri di storia. Ma non c’è più alcuna via della seta laggiù, c’è un inferno di odii e di povertà.
Anche il nostro pietroburghese è lì spaesato totalmente, immerso, d’un tratto, in rapporti umani primordiali, di pura lotta per la sopravvivenza, per cui la vita riacquista senso nel momento stesso in cui diviene chiaramente il primo bene, minacciato, com’è, in ogni istante: “A quanto ho capito, la principale condizione di sopravvivenza in Asia è la rinuncia al concetto di spazio vitale… la capacità di sorridere mentre viaggi su un pullman strapieno e all’improvviso ti franano addosso diverse persone, e non sai dove trovare scampo dalla puzza dei corpi altrui accaldati”.
È una discesa agli inferi. Una sonda che cala nel mondo mentale e materiale di oggi, del tutto destrutturato. Un mondo, ormai, fuori dalle illusioni della seconda metà del secolo scorso, ma senza parametri, che si aggrappa a categorie precolombiane per spiegarsi e, fragilmente, frana all’indietro. Slitta, arrancando, su idee antiche che credevamo morte, dalle quali ci credevamo ormai immuni.
La scrittura di Stogoff è apparentemente semplice, fluida ma è densa di richiami analogici e metaforici. Una scrittura vera, contemporanea, che parla di noi e parla a noi, da una prospettiva (forse) dolorosamente privilegiata: la Russia, complicato crocevia della Storia, problematica realtà geopolitica, intricato coagulo di orgoglio e prostrazione.


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