lunedì 26 dicembre 2011

Il dolore inutile

Riproduzione de L'attesa di Felice Casorati
21 x 29 cm, biro e matite su carta


Tutto era accaduto, inesorabilmente, senza che lei avesse potuto porvi rimedio. La sua vita era cambiata, divenendo indecifrabile, e non aveva mostrato code di filo da cui potere iniziare a dipanare la matassa. Un nodo amaro le era entrato nel petto, da un giorno all’altro. Lei, Matilde, non poteva scioglierlo e non si dava pace. Aveva perduto la casa, aveva perduto i suoi affetti, aveva perduto il suo tempo, aveva perduto se stessa. Sfioriva abbandonata. Nessuno, però, voleva crederle, anzi, nessuno se ne era accorto. La cosa era successa, non avrebbe saputo dire quando, ma, sicuramente, a un certo punto, tutto aveva preso ad andare per il verso sbagliato.
La vita, da un momento all’altro, era andata sottosopra, e non capiva perché. I giorni definitivamente andati sembravano l’unico appiglio per risalire. La sua casa era sempre stata allegra. Soprattutto il pomeriggio, era stato un continuo andare e venire di persone, di parole, di fatti. La mattina tutti a scuola, perché don Pietro ci aveva sempre tenuto, ma, per il resto, bisognava lavorare ché il pane non si trova in terra. E tutti i figli, il pomeriggio, avevano sempre fatto la loro parte, nel negozio di tessuti al pian terreno che era tutt’uno con la casa. La vita era stata vera, piena. Il mondo girava e lei poteva guardarlo muoversi dal centro.
Matilde era la prima figlia, la preferita di don Pietro. Sempre dolce, sempre ubbidiente. Faceva ogni cosa come gliela si chiedeva, senza ma, senza però. Occhi aveva solo per il padre, affettuosi e premurosi, come con nessun altro. Che orgoglio per don Pietro quella figlia assennata, educata e volenterosa! Matilde pareva vivere per lui solo. Sentiva tutto quello che lui desiderava. Lo desiderava prima di lui, per lui. Don Pietro aveva voluto, per il negozio, una sartoria per bene, che si dicesse in giro fino alla città. Perché è così che il cliente si affeziona: quando è trattato col sorriso e può comprare dove tutta la gente vorrebbe comprare. E questo lo diceva a cena, tutte le sere, che i figli erano ancora piccoli: Matilde se lo ricordava. Così come si ricordava che lei s’era messa lì, sul banco, sino a sera tardi per diventare brava, brava brava, come desiderava il padre. E c’era riuscita. Lavorava bene, di fino, e la gente parlava del loro negozio. I clienti venivano a decine dalla città al paese per l’abito buono, e spendevano senza tante storie. Perché, quando la merce è buona ed il lavoro pure, è inutile stare a tirare, si sa. C’era l’orgoglio di dire: la toletta a mia figlia l’ho fatta da don Pietro!
Quella casa era sempre stata felice. Matilde, in quel mondo, aveva il suo posto, il posto che il destino le aveva assegnato. Sapeva che cosa in quel posto le si chiedeva di fare, e lei lo faceva che nessuno poteva avere mai da ridire. Il cuore aveva sentito sempre sereno e le cose giravano come dovevano girare.
Fino a quel giorno a pranzo in cui il padre, lisciandosi un baffo e senza sorriso aveva detto che c’era un giovane medico in paese, una brava persona. Aveva notato Matilde quel giovane e con molto garbo era venuto a presentarsi in negozio. Aveva detto di essere solo al mondo che i suoi, purtroppo, erano prematuramente mancati, quasi insieme, dopo una vita di sacrifici per farlo studiare. Era solo, ma serio, con una professione avviata, e sperava, al più presto di sistemarsi all’ospedale in città. Avrebbe offerto a Matilde tutto il suo cuore, sempreché don Pietro non la vedesse altrimenti. Era solo e per questo si presentava a don Pietro con l’animo d’un figlio, chiedendo di potere frequentare la casa. Matilde aveva provato una pungente ferita, confusa come il bruciore di uno schiaffo che non si è visto arrivare. Sapeva di offesa senza senso che non avrebbe mai potuto essere riparata. Aveva fissato il padre negli occhi, a lungo, come sempre. Ma lo sguardo di Matilde aveva tremato e, per la prima volta, aveva cercato la madre. Gli occhi della madre, però, non avevano saputo rispondere. Matilde, quella sera, aveva scaricato in pianto la novità della solitudine.
Ma aveva conosciuto quel giovane, un laureato, che veniva dalla città a fare il medico condotto: di buona famiglia, gentile.
Carino era carino, male non si presentava. Matilde, però, non pensava agli uomini, e tutta questa faccenda, veniva ad essere come un pasticcio in cui lei, almeno per il momento, non voleva entrare.
Si vedeva quasi ogni giorno il dottore in negozio, dopo l’ambulatorio. All’inizio veniva a trovare don Pietro. Sì sì, veniva ogni sera per i suoi baffi, diceva la madre. Basta non far parlare la gente, per ora. Si saprà, se va bene. Veniva a fare due chiacchiere con don Pietro, ma don Pietro doveva seguire i clienti e pian piano il dottore, tutte le volte, finiva nel retrobottega a salutare Matilde. Che saluti lunghi che fa ‘sto dottore, diceva la sera la madre a don Pietro, ma non che non fosse contenta. Voleva, in quel modo, sentire il marito, come vedeva la cosa procedere.
Matilde rispondeva garbata a quel morbido viso che s’intrufolava cortese in mezzo al lavoro, quel faccino rotondo, da città, ben rasato, un po’ pallido, con gli occhialetti sottili. All'inizio si era detta, in segreto: se non voglio, non voglio, io resto al mio posto, lascerò che si stanchi. Il gioco, in fondo, era nuovo e lei lo aveva preso così. Un passatempo diverso, nei giorni che andavano come prima, con qualcosa in più che, tutto sommato, non dava fastidio. Ma già dopo un paio di settimane lei il dottore, ad una certa ora, lo aspettava e, se non veniva, non era lo stesso. Nell’intimo si domandava cosa poteva essere successo, si diceva che avrebbe tardato ma che poi sarebbe comunque venuto, però avrebbe pure potuto avvertire, e se fosse successo qualcosa, qualcosa di brutto? Forse lei doveva interessarsi, vedere di sapere. Ma così avrebbe dichiarato un interesse che non c’era e non doveva esserci, una preoccupazione che non le spettava.
L’abitudine aveva lavorato a tradimento. Si era affezionata a quel suo nuovo compagno che raccontava di cose che lei non capiva: le questioni internazionali; gli equilibri; il pericolo del mondo moderno; la guerra fredda; i comunisti; le ottuse forze della reazione…
Ma che parole erano? Parole simili si erano sentite soltanto alla televisione. Ma il dottore non era nella televisione, era lì, accanto a lei e parlava a quel modo. Matilde stava in silenzio, le parole andavano, come passavano i telegiornali della sera, ma lasciavano il piacere della loro nuova presenza che le riempiva la vita anche di altro, e le pareva già molto più del normale, di quello che lei aveva normalmente sperato: in verità, Matilde non aveva mai desiderato niente, se non la prosperità della casa.
- Oh, buona sera, signorina Matilde.
- Buona sera a voi, signor dottore.
E il dottore si sedeva su un seggiolone, che, ormai, era diventato il suo seggiolone, sollevava lentamente una gamba e la metteva a cavalcioni, sistemava su per il naso l'esile montatura degli occhialetti, ed accendeva una sigaretta.
Matilde lavorava e lo spiava.
Il dottore svolgeva il giornale, che portava arrotolato in tasca e, dopo una scorsa agli articoli già letti al mattino, prendeva a commentare le notizie di rilievo.
Matilde si era appassionata a questo gioco in cui sentiva parlare di cose sconosciute e di paesi lontani come solo don Pietro, fino a quel momento, pareva essere capace. Aveva cominciato a fare domande, incuriosita dalle cose che, forse, anche il padre conosceva. Ma il dottore non parlava mai della gente, dei commerci, dei campi e delle città. C'erano le forme dei governi, e i padroni, gli sfruttati, i popoli oppressi e i popoli arroganti, le grandi decisioni, le responsabilità storiche, le arretratezze ataviche, il gioco degli equilibri, le potenze, i manovratori, i retaggi culturali. E Matilde giù a domandare, cercando in quei discorsi i paesi inglesi e le città francesi, e i padri e madri e figliuoli americani; le cose, le quotidianità che non capiva dei cinesi; e quei russi, poi, che erano così cattivi, perché al dottore parevano diversi? Era un gioco bello, un altro mondo all’improvviso come in un romanzo, sempre nuovo. E i pomeriggi, zeppi di quei fatti mai sentiti, volavano nell'odore acre della stampa ed il crepitare della carta del giornale; volavano, con le belle mani del dottore che si muovevano come i colombi sopra i tetti, bianche e leggere.
Tutti dicevano che aveva il fidanzato, come fosse una cosa importante. Per Matilde era lo stesso. La sua vita continuava come prima. Che cosa era cambiato? Aveva il fidanzato? Va bene, se volevano chiamarlo così. Sembrava che le sue sorelle si divertissero, ogni tanto, tirando fuori questa storia dell’amore per fare domande sulle quali ridevano e poi si guardavano e si parlavano all’orecchio. Bene, per lei andava bene. Se i suoi erano allegri, anche lei era contenta. In fondo, non c’era un granché di nuovo: la sua vita continuava come prima.
Tutti i giorni, da cinque mesi, Matilde era in negozio anche la mattina. Poteva essere ancora più d’aiuto ora che aveva finito di studiare. Quando don Pietro era in giro per gli affari, con lei stava la madre che appena l’ultimo cliente usciva dalla porta riprendeva a sospirare: “Ah, figlia mia come faremo senza di te. Proprio adesso che le cose cominciavano ad andare così bene. Hai visto quanti nuovi clienti quest’anno? E proprio adesso un pezzo se ne deve andare. Tua sorella con l’ago e il filo non va tanto d’accordo. E’ brava, non voglio dire, quando si mette è capace, ma ci vuole sempre uno che le stia dietro, che lei da sola non si spiccia, si dimentica, non sta accorta. Il pomeriggio, mettiti un po’ di più vicino a lei, dalle i consigli. E’ distratta, è troppo distratta. Deve capire che quando non ci sarai più tu a finire quello che lei s’è scordata e il cliente viene per il giorno della consegna e la roba non è pronta, allora così si perde la clientela e si perde il nome. Queste cose le deve capire, e gliele devi fare capire tu che sei la sorella maggiore, la sorella che da un giorno all’altro non starà più qua a mettere le pezze. Deve sapere fare anche da sola, faglielo capire. Mo’ che te ne vai, come deve fare se non si abitua prima? Che ci dobbiamo mettere gli estranei in casa per non perdere i clienti?”. E Matilde alzava le spalle, perché lei non se ne sarebbe andata, dove doveva andare? Che preoccupazione era, quella? D’accordo, la sorella aveva un po’ la testa fra le nuvole e non era proprio precisa, ma il lavoro, alla fine, lo riguardava sempre lei, e riprendeva quello che c’era da riprendere. Non si era mica mai lamentata! Perché queste storie? Il mondo stava girando, ma lei non si muoveva. Lei non doveva andare da nessuna parte.
Era tornato il freddo dell’inverno, ma già si sentivano le feste di natale. I raccolti erano stati buoni e la gente comprava più dell’anno prima. Lei era sempre lì tra le sue cose che le pareva di non essere mai stata così bene, a posto e utile. Le giornate volavano via e si faceva un mucchio di lavoro che non sembrava, ascoltando i clienti che erano mille storie del paese, mentre la casa prosperava e tutti sorridevano.
Don Pietro entrava, da un po’, tutte le sere nel retrobottega e dava grandi pacche sulle spalle del dottore.
- E allora, ci siamo?
- Beh, dovremmo esserci, don Pietro, a momenti...
- Bene, bene, bene...
Ed il giorno era arrivato: il dottore aveva avuto il posto all'ospedale in città.
Una sera il dottore era rimasto a cena: "Caro dottore", aveva iniziato don Pietro, e si era finiti con "Viva gli sposi!"
La notte Matilde aveva pianto con quella disperazione che, presto, rassegnata, si volge in amarezza.
Sola, senza via di scampo.
Nulla era più come prima: le sue sorelle, la madre, parlavano del matrimonio, e della sposa, e della casa in città che il babbo stava comprando, e dell'arredo cui avrebbe provveduto il dottore. E tutto come sarebbe stato bello!
Pareva tutti parlassero non di lei, ma di qualcun altro.
Il suo silenzio avrebbe voluto, ora, significare qualcosa; ma lei era sempre stata così, taciturna. Le avevano detto che era un po’ troppo seria, chiusa, che avrebbe dovuto lasciarsi un po' andare: manifestare la gioia. Allora, il pianto le aveva offuscato la vista, a tavola, davanti a tutti, ed il singulto rabbioso aveva impedito alle parole di gridarne il senso. L'allegria era lampeggiata negli occhi di don Pietro, e la famiglia aveva festeggiato la felicità espressa in quelle lacrime.
Ma quale felicità? Perché le facevano questo? Le lacrime erano lacrime di rabbia! Perché non capivano? Cosa avrebbe potuto dire, che la cosa era stata già portata così avanti? Non sono cose che si devono dire… Tutti a fare e disfare nella sua vita. Sola, senza via di scampo, Matilde aveva sentito l'anima affondare.
La casa non era più quella, dicevano, senza Matilde. Il negozio, poi: i clienti chiedevano ancora di lei, perché le cuciture, come quelle di Matilde, non se ne erano più viste. E, allora, perché s’era combinato tutto questo pasticcio? Perché suo padre aveva consentito che la prendesse un estraneo? Un uomo che le aveva cambiato la vita senza motivo? Un uomo che le imponeva un mondo diverso, vuoto, fatto di parole difficili con le quali lui parlava, ormai, anche per lei. E nessuno più chiedeva a Matilde, ma tutti al dottore di come stava Matilde, e stavano ad ascoltarlo che parlava di lei. Anche lei ascoltava, e sentiva parlare di una tale Matilde che così, che colà…
La domenica il mondo tornava diverso: si mangiava tutti insieme al paese, ogni domenica. Il dottore, per carità, ci teneva: l'aria pulita, il calore della famiglia, i maccheroni a mano e il pane alto, il vino buono sfuso e generoso, e gli amici al circolo per la giocatina pomeridiana e il caffè per la fumatina e la chiacchieratina tra uomini con la passeggiatina serale per dire che quella, però, anni fa non sembrava, le fa bene l’età, o quell’altra, e che cosa!, girare a quel modo con tutto di fuori! Nessuno chiedeva niente a Matilde, e il dottore parlava, parlava parlava, e don Pietro ogni tanto faceva battute. Anche don Pietro parlava in modo diverso, davanti al dottore. Matilde provava a ricordare se stessa, lontana e distinta da quelli, e si sentiva impazzire.
Il mondo girava e lei non era più ferma, si muoveva con quello, trascinata, correndo a strappi da un lunedì ad un sabato in un'aria smemorata e sempre uguale. La città, raccontata dal padre come una festa di mille colori non c’era. La città di Matilde era un grigio uniforme di tende pesanti sempre spiegate davanti alle finestre ed ai balconi della casa vuota. Una casa senza calore, senza profumi, nuova, umida e spoglia come un cimitero, dove si sentiva trascinare di stanza in stanza, con la testa confusa. In cerca di fare, in mezzo a quei mobili – dice, stile moderno, ma quant’erano brutti! - per non pensare.
Il dottore usciva la mattina che lei ancora dormiva, e la salutava discreto ma con dolcezza. Ma chi è quest'uomo, si chiedeva Matilde al risveglio... Con quelle sue strambe parole da televisione è riuscito a portarmi in un letto né mio né suo, e appena mi sfiora in questa casa da morti. Chi sono io, che cos'è questa vita, cosa sono... perché?
Ma la domenica, ecco che tornava in sé, silenziosa come sempre, a respirare l'odore di casa sua, quella veramente sua, dove era nata, dove sapeva di essere. Andava, dopo pranzo, a riposare in negozio su una seggiola di paglia, nella sartoria. Il profumo dei tessuti... Lì si assopiva, cullata dai radi tonfi provenienti dalla strada assonnata; nel buio, negli odori, nella memoria. Solo che la lasciassero lì, per sempre, altro non chiedeva. E ricordava, per un attimo, la dolcezza delle sere d'estate, quando si cenava un po' più tardi e, dalle finestre aperte, veniva il frinire ottuso ma rassicurante delle cicale. S'alzava da tavola, Matilde, zitta zitta, sul finire della cena, e andava in dispensa a prendere una bottiglia di birra per il babbo. E con che sorriso l'accoglieva don Pietro sulle sue ginocchia; e, lisciandosi i baffi, le diceva poi in un orecchio, come gran segreto: "Adesso, io e la mia bimba, ci beviamo questa bella birra fresca!" Così, vuotava la bottiglietta nel suo bicchiere, e fingeva di fare lo stesso nel bicchiere di Matilde, dove la mamma, invece, aveva già versato dell'acqua col limone.
L'acreoleoso profumo di quei baffi, Matilde, lo sentiva ancora: per un attimo si confondeva con l'odore dei tessuti, e si addormentava.
Ma la domenica finiva e, a sera, tornava a casa con il marito. Nel silenzio e nel buio dell'automobile, la memoria riproponeva ancora le luci della giovinezza. A volte, il dottore interrompeva quei memori silenzi, con un'esclamazione o con un discorso lasciato a mezzo al circolo, ed erano come schiaffi, per Matilde, strappata da sé e riprecipitata accanto a quell'uomo strano che non le aveva mai chiesto niente e che, anzi, sembrava essere perfettamente a suo agio nella pazzia di quel matrimonio.
Tutti, in verità, parevano vivere la sua vita o, per meglio dire, accanto alla sua vita, con naturalezza.
Le settimane, però, diventavano via via più pesanti e lunghe. Il tempo delle sue giornate si dilatava immensamente e, come dagli strappi della continuità troppo tesa, iniziavano a gorgogliare le sue memorie, non più incorniciate nei gelosi pomeriggi delle domeniche.
Ma i ricordi, cambiando luogo, erano soltanto dolorosi rimestamenti dell'essere: allucinazioni angosciose dalle quali trarsi al più presto... ma, per tornare dove?
L'inutilità della casa in cui viveva, quella mobilia perfetta senza calore o odore di famiglia, le dava il gelo alle ginocchia, le ghiacciava le meningi. Matilde correva, di stanza in stanza, in preda ai conati di vomito. Assalita dalle vertigini si precipitava ad abbassare le tapparelle. Non aveva più fiducia delle tende, perché, sicuramente, anche attraverso quelle la vedevano.
Non ne poteva più, Matilde, e voleva stare sola, sola, come non era mai stata. Sempre l'avevano spiata; tutti non avevano fatto altro che questo, senza dirle alcunché, senza mai rivolgerle una parola. Avevano deciso tutto loro, tenendola d'occhio, perché lei, Matilde, avrebbe potuto scappare, se se ne fosse accorta. Ma loro erano stati bravi a prenderla in giro, senza fiatare, con i fatti.
E tutti, tutti lo sapevano; ed ora la tenevano in quello stupido appartamento per ridere di lei con tutto comodo.
Quegli sguardi d'intesa tra suo padre e suo marito, quei sorrisi scambiati di continuo: come aveva potuto non accorgersene, mentre lì, sotto il suo naso, tramavano contro di lei? Che ingenuità era stata la sua...
Ma, ora, apriva gli occhi e vedeva anche i continui tranelli che le preparava il marito, il signor dottore. Ogni mattina, o quasi, le stanze avevano un aspetto diverso: quell'odiato appartamento pareva vivere un'agitata e nera esistenza, fatta di rimescolii notturni, con rombi e schianti improvvisi, che le davano il soprassalto nel sonno.
La mattina dopo, tutto, inevitabilmente, era mutato nell'appartamento: piccoli, quasi impercettibili, spostamenti, ma ogni cosa aveva occupato altri spazi da quelli del giorno prima. A lei parlava la percezione della luce che posava diversa sui tappeti e prendeva altre sfumature nel gioco dei riflessi, proiettava ombre nuove negli angoli, si spegneva non come prima tra le pieghe e i bottoni dello scuro divano. Tutto non era al suo posto, e lo dicevano anche i rumori che cadevano sconcertanti nei rinnovati volumi delle stanze.
Matilde l'aveva detto al marito, ed egli aveva riso: certo che si divertiva! Era quello il suo spasso preferito. E, c'era da scommetterci, tutto il vicinato ne era al corrente: come avrebbe fatto, altrimenti, il signor dottore, con tutti quei rumori nottetempo? Ed ecco, la complicità ripagata dal gusto di poterla spiare, mentre lentamente impazziva in quella casa che, ogni giorno, le veniva resa più estranea. Un mondo sempre uguale, eppure sempre diverso, nel quale la sua mente, senza più orientamento, avrebbe finito per naufragare.
Matilde non nutriva il minimo dubbio. E, poi, era questione di mettere assieme i fatti.
Dall'edificio di fronte, una vecchia, eternamente seduta dietro i vetri di un balconcino ingombro di piante, la teneva d'occhio tutto il giorno. Poco al lato di quel balcone, da una finestra, si affacciava, come ad intervalli regolari, una giovane, ora con la scusa di sbattere uno strofinaccio, ora senza alcuna motivazione apparente. Nel suo edificio, poi, Matilde era circondata: la dirimpettaia, il maestro che abitava di sopra, e la famiglia del De Martinis di sotto. All'inizio non se ne era accorta, ma ora li sentiva, tutti, come si muovevano di stanza in stanza per seguirla nei suoi spostamenti ed ascoltarla: li sentiva, ora, come strisciavano pian piano lungo i muri per posizionarsi meglio; e sentiva anche quando appoggiavano i bicchieri o altri strumenti alle pareti per poterla ascoltare.
Ma Matilde non fiatava più da un bel pezzo, e camminava a piedi nudi leggera leggera. Impazzivano quelli a cercarla. Chiassavano, a volte, soprattutto i De Martinis, perché qualcuno di loro, probabilmente sosteneva Matilde essere in una stanza, qualcun altro in un'altra.
Non si sarebbe arresa, Matilde, a quella tortura; e, anzi, avrebbe torturato a sua volta. Troppo grande era il dolore che le avevano dato, ed assolutamente insopportabile quello che intendevano ancora procurarle.
Matilde reagiva alle violenze subite nella bontà, con una violenza d'animo sempre più cieca, ma sotterranea, strisciante; tanto impetuosa quanto nascosta. Un fiume nero rombava nel suo petto di pietra, un ronzio cupo le invadeva i timpani.
Il dottore era stato il primo ad essere investito dal muro d'odio. Gli occhi di Matilde mutavano di giorno in giorno, ed il suo sguardo diveniva sempre più raccapricciante, come le bocche dell'orrore. "Non c'è nulla", diceva lei, ma, di tanto in tanto, lo fissava come il diavolo, il labbro inferiore prendeva a tremare, poi, quello superiore. Il volto si tendeva in un'espressione di angoscia incontenibile, per schiantare in una risata sguaiata, mostruosamente volgare. Il dottore rabbrividiva muto, e Matilde, con voce strana, senza ritmo: "Fingi di chiederti cosa c'è?... Lo sai bene: 'sta volta non t'è riuscito! Me ne sono accorta!" Il dottore sgranava gli occhi. "So cosa stai pensando", continuava Matilde fiera; oppure: "Ho visto il cenno che hai fatto a quello lì, anche lui sa tutto, eh?". O, ancora: "Vedi quella? Puoi salutarla! E' inutile che fingete di non conoscervi..."
Il dottore non si capacitava di come ciò stesse avvenendo proprio a lui; di come ciò stesse accadendo proprio nella sua vita, ordinata, perfetta. Una vita senza un’ombra. Una vita fatta di assoluta regolarità, quasi un’indiscutibile espressione matematica. Eppure, ad un certo punto, i conti non tornavano più. Saltava tutto. Ci si trovava come in zattera su un torrente in piena. E mentre tutte le energie erano concentrate per evitare le rocce affioranti più pericolose, si tentava pure di recuperare un attimo di lucidità per rifare i calcoli e scoprire dov’era l’errore. C’è sempre un errore quando gli eventi ci vengono contro.
I calcoli erano stati rifatti. L’errore non saltava fuori. Le regole seguite: infallibili! Il dottore non aveva sbagliato alcunché nella sua vita, condotta secondo un rigore morale esemplare, riconosciuto, peraltro, da chiunque. Errori, no! Non ce ne erano. Forse, però, omissioni… Gli si era formata, così, pian piano, l’idea che, magari, senza alcuna coscienza, stava mancando in qualcosa e che, dunque, non v’era errore, bensì un passaggio saltato. Aveva ripercorso e rimuginato ogni istante del suo tormentato matrimonio, e si era accorto che, se la sua condotta risultava ineccepibile, non si era, però, posto il problema della prole. Non si era, cioè, più di tanto domandato come mai non avesse ancora fecondato Matilde. Non aveva avuto, tuttavia, il tempo di pensarci tanto, perché non erano passati molti giorni dalla sua scoperta che Matilde aveva annunciato, con grande solennità, all’intera famiglia domenicale, il lieto evento.
Il dottore aveva accolto la notizia come un colpo energico di ramazza tra i pensieri cupi, ed un’allegria da liceale si era impadronita di lui per un problema che si andava risolvendo con la sana dedizione allo studio e la caparbia applicazione.
Matilde, d’altronde, pareva trasfigurata, offrendo la più concreta dimostrazione della validità dell’assunto da cui tentava, in quei giorni, di ripartire il marito.
Matilde era incinta, radiosa, sorrideva continuando a chiedere a don Pietro: “Sei contento, babbo?”, nel frastuono in cui tutti rispondevano l’ovvia corale felicità.
La gravidanza era serena, ma, considerato che il dottore in casa c’era poco, la famiglia aveva deciso che sarebbe stato più opportuno che Matilde soggiornasse nella casa paterna, dove c’era sempre tanta gente che, all’occorrenza, avrebbe potuto offrire sollievo e, eventualmente, immediato soccorso.
Matilde era tornata a sorridere e, la domenica, quando arrivava il dottore era cara e premurosa, e la giornata di vera festa.
In nove mesi il dottore era tornato lentamente alla vita. Come un animale ferito e spaventato dal predatore, rintanatosi in un buco sottoterra, così aveva reagito all’assurda violenza che si era scaricata in casa sua. Si era ritirato in una solitudine addolorata e, ora che le cose parevano rimettersi al meglio, sentiva però sempre in agguato un pericolo invisibile, intangibile e terribile.
Ma nei nove mesi Matilde era parsa tornata ad un equilibrio che s’infrangeva solo in momenti di prorompente allegria, ed era un piacere pensare che tutto fosse addebitabile ad una sciagurata e scusabile trascuratezza dei doveri coniugali. Non aveva parlato a Matilde dei figli che, ovviamente, si aspettava dal matrimonio. I figli non venivano. Matilde cominciava a soffrirne. Lui non affrontava l’argomento, offrendo la possibilità di congetturare che ne fosse addirittura contento. La sofferenza di Matilde precipitava e, da lì, il dramma.
La natura, però, facendo il suo corso, stava ristabilendo l’ordine e l’armonia.
Era nata una bimba a novembre e, durante una sera gelida e stellata, il dottore aveva riportato a casa la moglie e la nuova vita.
Matilde aveva sofferto per il parto ed era ancora molto debole. Il dottore aveva ordinato la cena al ristorante sotto casa, prestando attenzione alla dieta della puerpera.
Matilde aveva rivisto il grigio edificio dal parabrezza, prima che l’auto si fermasse. Aveva provato un brivido. Quando era entrata in casa aveva annusato un odore freddo. Si era seduta esausta sulla poltrona del soggiorno di fronte al televisore spento e si era vista deformata sul vetro convesso. Il gelo le aveva cinto le ginocchia.
Il dottore sistemava la bambina nella culla e riordinava alla meglio la biancheria di Matilde, svuotando la valigia. Il silenzio ronzava nelle orecchie ed i suoi movimenti tentavano di essere accuratissimi. La meticolosità dei suoi gesti non riusciva ad allontanare l’angoscioso senso di vuoto e di sospensione in cui si sentiva scivolato.
Il citofono aveva trillato. Il commesso del ristorante stava recapitando la cena. Aveva ritirato le guantiere. Davanti all’ombra di Matilde seduta, aveva apparecchiato con cura, scartato lentamente il cibo e lo aveva disposto con una maniacale geometria. Aveva ripiegato la carta dei pacchi e l’aveva riposta con accortezza nella spazzatura. Aveva controllato che la bimba stesse bene. Ora, non potendo più fare altro, aveva alzato lo sguardo nel vetro del televisore.
Se l’angoscia ha un volto il dottore se l’era trovato negli occhi. Si era voltato ed aveva visto le labbra livide, il tremore, gli occhi vuoti ma vivi. “Matilde”, aveva soffiato con quel poco di vita che si sentiva dentro.
“Ti sei divertito!? Ti sei divertito, solo, per nove mesi!? Ed ora che sono di nuovo qua hai voglia di divertirti ancora di più, eh? Ma non te lo permetterò, questa volta. Pensavo che in fondo tu fossi un uomo onesto, che ora, con una bambina, la smettessi. E, invece, no! Neanche davanti ad una creatura innocente sei in grado di fare l’uomo. Già di nuovo con i tuoi giochetti: la casa tutta cambiata, ogni cosa non al suo posto… Anche l’odore è diverso… In casa mia, in casa mia, io dovrei accettare questo stato di cose. Ti sei portato qualcuna qui dentro? Eh? Rispondi! Ti sei portato delle donne? Di’, abbi il coraggio, fai l’uomo! Una volta, nella tua vita, una volta, di’ la verità. Non ti nascondere sempre dietro quest’aria da brav’uomo. Abbi il coraggio di dire a tutti (non a quelli che sono d’accordo con te), a tutto il mondo che cosa sei in grado di fare a tua moglie, tua moglie! Con una bambina, adesso! Mi hai presa in giro, maledetto… Per farmi passare per pazza. Per divertirti e poi liberarti di me. Che tu sia maledetto! Tu questa cena finta… Che cos’è questo, questo è cibo? Tutto finto, tutto finto. Ma questa volta non te la do vinta, ti faccio morire di vergogna, piuttosto. Ti denuncio e faccio sapere a tutta la città quello che sei veramente. Anche mio padre sei riuscito a raggirare. Tutta la mia famiglia…”
Matilde si era alzata dalla poltrona e lentamente, tremando, sollevava le guantiere disposte sulla tavola e ne lasciava scivolare il contenuto in terra e sulla tovaglia. Aveva rovesciato ogni cosa continuando a ripetere: “Ti ribalterò io la vita, se è questo il gioco.”
Il dottore assisteva ad una scena già vista dal suo timore. Aveva temuto di non capire e non aveva capito alcunché, ma questa constatazione, per qualche impenetrabile ragione, gli rendeva ora una certa calma. Assisteva ad una scena già vista e ne era quasi annoiato. Guardava Matilde e seguiva i suoi gesti plateali meccanicamente. Ad un certo punto la testa s’era svuotata del tutto.
Quella sera, il dottore, si era chiuso nella stanza che aveva riservato come suo studio. Aveva regolato le luci in modo da ottenere un chiarore morbido e diffuso. Si era seduto sulla comoda poltrona di pelle alla sua scrivania moderna di cristallo. Con il telecomando aveva attivato l’impianto stereo ed avviato la riproduzione di un cd che sapeva essere già nel lettore. Il pianoforte era partito, ed il dottore aveva disteso ed appoggiato i due avambracci sul cristallo freddo e pulito.
L’armonia e l’eleganza degli oggetti che lo circondavano nella luce color nocciola s’impregnavano di musica. Aveva provato il tintinnio delle unghie ben curate sul cristallo. Si era lasciato andare ancora un po’ sulla poltrona ed aveva gustato il rumoroso abbraccio della pelle ed il suo odore.
L’intera mobilia rispondeva esattamente al suo gusto. La libreria di ciliegio e cristallo con la sua imponente levità, il dorso amico dei libri. I due quadri antichi ben restaurati, ricordo di continuità della sua famiglia. Il divano con bottoni per amici ospiti ed il tavolino pronto per una bottiglia di buon liquore.
Ad un tratto il pianoforte si era imbizzarrito ed aveva trillato come il pianto d’un neonato. Il cuore del dottore aveva avuto un tonfo con un rapido deflusso di sangue verso le membra, accompagnato da un brivido fulmineo. Aveva steso le mani ben curate sul cristallo della scrivania, le aveva guardate, ed aveva provato la certezza angosciante di avere commesso l’azione più stupida sciagurata e grave della sua vita.
donato pistone (23 maggio 2009)

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