Il racconto Il corpo vincitore del premio "Emozioni in bianco e nero" indetto dalla Casa Editrice IL POGGIO.
lunedì 26 dicembre 2011
Omaggio a Mondrian
Ispirato a "L'albero grigio" di Mondrian.
Acrilico su tela 30x40 cm.
Un amico mi dice che è autunno e che gli ricorda il suo stato d'animo...
dp (24 marzo 2011)
Ermeneutica
agosto 2005
[Il virgolettato è tratto da Essere e tempo, M. Heidegger, ed. italiana Longanesi a cura di Franco Volpi sulla versione di Pietro Chiodi]
dp (27 novembre 2009)
… rileggendo Essere e tempo di Martin Heidegger
Cap. 35 (“La chiacchiera”)
Il linguaggio, in quanto espressione, è già sempre comprensione ed interpretazione.
Si tratta di una interpretazione già esistente, formatasi sulla base di una capacità di comprensione media.
“La comprensione, sedimentatasi così nell’espressione, riguarda tanto il disvelamento dell’ente qual è via via raggiunto e tramandato, quanto la rispettiva comprensione dell’essere, le possibilità e gli orizzonti disponibili per l’interpretazione ulteriore e la relativa articolazione concettuale”.
La caratteristica della comprensione media, radicata nel linguaggio espresso, garantisce la possibilità della interrellazione linguistica quotidiana (o banale). Tale interrelazione non permette di ampliare la sfera di comprensione dei soggetti che dialogano (in tal senso il dialogo è inutile), ma consente di percepire la rassicurante sensazione della comunanza nella possibilità di comprendere il mondo. Tuttavia, questa è solo la dimensione della “chiacchiera”.
“La chiacchiera […] costituisce il modo di essere della comprensione e dell’interpretazione dell’Esserci quotidiano. […] In virtù della comprensione media che il linguaggio espresso porta con sé, il discorso comunicato può essere in gran parte compreso anche senza che colui che ascolta arrivi a essere in una comprensione originaria di ciò sopra cui il discorso discorre. […] Ciò che è compreso è il discorso, il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e superficialmente. Si intendono le medesime cose, perché ciò che è detto è compreso da tutti nella medesima medietà”.
Di fronte all’orrore del vuoto e dell’ignoranza; di fronte al terrore che genera il silenzio, il dubbio, la solitudine; di fronte al panico di essere soli ed incapaci di interpretare con autenticità e coraggio tutto ciò che è, l’uomo si rifugia nel chiasso della chiacchiera che regala la consolatoria (ma equivoca) sensazione di pienezza e di conoscenza. Perché si realizzi questo effetto terapeutico, la chiacchiera va ripetuta, va diffusa, va urlata. Ed è per tale via che (nell’inconsapevolezza dei più) si instaura il dominio del “è così, perché così si dice”. Il linguaggio (chiacchiera) diventa un’onda dolce sulla quale è piacevole galleggiare, meglio se a pancia in su accecati dal sole, evitando il turbamento che dà l’oscurità della profondità delle acque.
“Ciò che conta è che si discorra. L’essere-detto, l’enunciato, la parola, si fanno ora garanti della genuinità e della conformità alle cose del discorso e della sua comprensione. E poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto ontologico originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso comunica non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la diffusione e la ripetizione del discorso. Ciò che-è-stato detto come tale si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché così si dice, in questa diffusione e in questa ripetizione del discorso, nelle quali la incertezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza, si costituisce la chiacchiera”.
La comunicazione linguistica, così svilita, perde ogni possibilità di essere occasione di accrescimento, perde ogni capacità di essere ponte verso l’alterità, perde ogni potere di penetrazione e di accoglimento. La parola diventa laccio e catena che restringe l’orizzonte, lo sguardo si chiude in un angusto quadrato di misera prigionia. Ed il discorso offre una rete già tramata sulla quale adagiarsi (nella quale lasciarsi impigliare). Questo è il regno in cui tutto sembra ovvio (semplicemente perché ripetuto, ripetuto e ripetuto ancora) e per ciò stesso sicuro, fondato e radicato. E’ il regno della serena infelicità! Fondato sull’inautenticità di un susseguirsi di momenti sempre uguali, in cui le parole sono poche e sempre le stesse, in cui i gesti divengono involucri rituali, le ore cadenze di una semplice meccanica del sopravvivere. Il pensiero vi si adagia e ripercorre in circolo una grammatica stantia senza aperture. La sensibilità avvizzisce galleggiando in quello che non è più mare ma stagno nei cui fetidi vapori, marcisce ogni luce. E’ il mondo senza barlumi di libertà, è il mondo dell’abbandono e della dipendenza.
“La chiacchiera, trascurando di risalire al fondamento di ciò che è detto, è quindi di per sé una chiusura. Questa chiusura è ulteriormente aggravata dal fatto che la chiacchiera, con la sua presunzione di avere raggiunto la comprensione di ciò di cui parla, impedisce ogni riesame e ogni nuova discussione, reprimendoli o ritardandoli in modo caratteristico. […] L’ovvietà e la sicurezza di sé proprie dello stato interpretativo medio fanno sì che, sotto la tutela di quest’ultimo, resti nascosto al rispettivo Esserci il carattere spaesante della sospensione in cui egli è votato a una crescente infondatezza”.
La spaesante sospensione e la crescente infondatezza restano nascosti all’uomo che viva inautenticamente, ma sono! e sono come un grumo oscuro che prima o poi può iniziare a pesare aprendo voragini di non senso…
Cap. 36 (“La curiosità”)
“L’essere-nel-mondo si risolve completamente nel mondo di cui si prende cura. Il prendersi cura è guidato dalla visione ambientale preveggente che scopre l’utilizzabile e lo conserva come scoperto. La visione ambientale preveggente indica a ogni operazione e a ogni produzione la via del procedere, i mezzi dell’attuazione, l’occasione adatta, l’istante opportuno. Il prendersi cura si acquieta in due casi: o per riprendere forza o perché l’opera è compiuta”.
Quando il prendersi cura si acquieta, si apre lo spazio della curiosità…
“La visione ambientale preveggente, divenuta libera, non ha più alcun utilizzabile del cui avvicinamento possa prendersi cura. […] L’Esserci cerca ciò che è lontano unicamente per portarselo vicino nel suo aspetto. L’Esserci è interessato solo all’aspetto del mondo; in questo modo di essere egli tende a liberarsi da se stesso quale essere-nel-mondo, a liberarsi dall’essere presso l’utilizzabile quotidiano più vicino. La curiosità, ormai liberata, non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, per <<essere-per>> esso, ma si prende cura solamente di vedere. Essa cerca il nuovo esclusivamente come trampolino verso un altro nuovo. Ciò che preme a questo tipo di visione non è la comprensione o il rapporto genuino con la verità, ma unicamente le possibilità di abbandonarsi al mondo. La curiosità è perciò caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta. Essa non cerca quindi nemmeno la calma della contemplazione serena, dominata com’è dalla irrequietezza e dall’eccitazione che la spingono verso la costante novità e il cambiamento”.
La curiosità, dunque, come via per “abbandonarsi al mondo”, quel finto vivere vivere vivere che sembra un interessarsi a tanto, per non interessarsi, in verità, a niente, e che si traduce in uno smembrarsi nel mondo, in uno sciogliersi nel mondo, vanificando ogni possibilità di autenticità, di identità. Ed ecco disvelato l’elemento caratterizzante questa “curiosità quotidiana”: la distrazione. La fame di distrazione del vivere apparentemente in modo pieno. L’esistenziale distrazione di Heidegger richiama alla memoria l’etico <<divertissement>> di Pascal che scriveva: “L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. Perché è esso che ci impedisce principalmente di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso, noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte”. E quest’ultima indicazione circa la funzione specifica del <<divertissement>>, ci riporta ancora più vicino al “vivere-per-la-morte” heideggeriano.
La chiacchiera e la curiosità sono aspetti distinguibili ma intrecciati del tessuto della media quotidianità in cui si dispiega l’inautenticità travestita da vita vera.
“La chiacchiera fa da guida alla curiosità e dice ciò che si deve aver letto e visto. L’essere-ovunque-e-in-nessun-luogo della curiosità è affidato alla chiacchiera. Questi due modi di essere quotidiani del discorso e della visione, caratterizzati dallo sradicamento, non sono semplicemente presenti l’uno vicino all’altro; un’unica maniera di essere li tiene costantemente uniti. La curiosità per la quale niente è segreto, la chiacchiera per la quale niente è incompreso, danno a se stesse, cioè all’Esserci che le fa proprie, sicura malleveria di una vita che si pretende veramente <<vissuta>>”.
E’ la dimensione, questa, del tutto già visto, delle mille esperienze, del sappiamo pressoché tutto, del ci parliamo addosso, del viaggiamo il mondo, dell’ho tanti amici, del vivo tutto con passione, della velocità del fare e rispondere, dell’essere leggeri, del ridere e ridere, del divertirsi – appunto!- e di che noia la noia!... del vaporizzare il tempo…
Cap. 37 (“L’equivoco”)
“Tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso, ma in realtà non lo è; oppure non sembra tale ma in fondo lo è. […] L’equivocità che caratterizza lo stato interpretativo pubblico accredita il parlare-prima e il presentimento curioso come l’autentica realtà, screditando l’esecuzione e l’azione come qualcosa di secondario e privo di interesse. […] Nell’equivoco, l’Esserci è sempre nel <<Ci>>, cioè nell’apertura pubblica dell’essere-assieme, in cui la chiacchiera più diffusa e la curiosità più sfrenata creano l’<<animazione>> nella quale tutto accade quotidianamente in modo tale che in fondo non accade mai nulla”.
Che tutto sembri accadere, senza che nulla accada! La chiacchiera, la curiosità e l’equivoco sono le catene più solide della staticità, di una realtà congelata in cui nulla veramente si muove, ed in cui tutto ciò che è gridato in una (solo) apparente esplosione di vita vera è sempre ed in ogni modo reversibile perché mai inverato. E’ il fiume di Eraclito trasformato in stagno, in cui è possibile la tranquillizzante esperienza di potersi bagnare più volte, sempre, nella stessa acqua, fingendo a se stessi di nuotare nell’oceano. Il senso di equivoco rimanda ad immagini di mescolanza, di soluzione che garantisca (apparentemente) il sapere essere nel mondo, il potere essere con l’alterità. Ma ciò è più propriamente confusione in cui l’accatastamento delle vite suggerisce immagini di accumulo e dispersione in cui tutto diviene indistinguibile. In cui nulla dell’altro da sé può essere comprensibile.
Cap. 38 (“Deiezione ed esser-gettato”)
“Chiacchiera, curiosità ed equivoco caratterizzano il modo in cui l’Esserci è quotidianamente il suo <<Ci>>, cioè l’apertura dell’essere-nel-mondo. […] Deiezione […] sta a significare che l’Esserci è innanzitutto e per lo più presso il <<mondo>> di cui si prende cura. Questa immedesimazione in… ha per lo più il carattere dello smarrimento nella pubblicità del <<Si>>. L’Esserci è, innanzi tutto, sempre già de-caduto da se stesso come autentico poter-essere e deietto nel <<mondo>>. Lo stato di deiezione presso il <<mondo>> significa l’immedesimazione nell’essere-assieme dominato dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco”. E’ questa “l’inautenticità dell’Esserci […], un modo eminente di essere-nel-mondo, modo in cui l’Esserci è completamente stordito dal <<mondo>> e dal con-Esserci degli altri nel <<Si>>”.
E ancora più chiaramente…
“La chiacchiera apre all’Esserci la comprensione dell’essere-per il suo mondo, per gli altri e per se stesso; ma apre in modo tale che questo comprendente essere-per assume la forma di una sospensione senza fondamento. La curiosità apre tutto e qualsiasi cosa, ma in modo tale che l’in-essere è ovunque e in nessun luogo. L’equivoco non nasconde nulla alla comprensione dell’Esserci, ma soltanto per precipitare l’essere-nel-mondo nello sradicamento dell’<<ovunque e in nessun luogo>>”.
Questa è la dimensione più quotidiana in cui è gettato l’uomo. Quasi un moto che sa di abbandono al mondo, di dispersione nel fuori da sé, di sradicamento e caduta per essere presso l’alterità, ma nel modo più inautentico che tutto rende uguale e privo di identità e significato, pur in presenza della sensazione contraria.
L’essere-nel-mondo, che è originariamente caduta deiettiva nello stato di sospensione senza fondamento, nello smarrimento nel <<Si>>, è caratterizzato dalla tentazione, dalla tranquillizzazione, dall’estraniazione e dall’autoimprigionamento.
Tentazione…
“Ma se è l’Esserci stesso che nella chiacchiera e nello stato interpretativo pubblico offre a se stesso la possibilità di perdersi nel <<Si>>, di cadere deiettivamente nell’infondatezza, vuol dire che è l’Esserci stesso a preparare a se stesso la tentazione costante della dieiezione. L’essere-nel-mondo è in se stesso tentatore”.
Tranquillizzazione…
“…lo stato interpretativo pubblico mantiene l’Esserci nella sua deiettività. Chiacchiera ed equivoco, l’avere tutto visto e tutto compreso, creano nell’Esserci la presunzione che l’apertura dell’Esserci così disponibile e dominante sia tale da garantire la certezza, la purezza e la pienezza delle possibilità del suo essere. La sicurezza di sé e la disinvoltura del <<Si>> diffondono un’indifferenza crescente verso la comprensione emotiva autentica. La presunzione del <<Si>> di condurre una vita piena e genuina crea nell’Esserci uno stato di tranquillità: tutto va <<nel modo migliore>> e tutte le porte sono aperte”.
Estraniazione…
“Una curiosità polivalente e un’onniscienza incontenibile creano l’illusione di una comprensione universale dell’Esserci. In fondo resta però indeterminato e neppure indagato ciò che si deve veramente conoscere. Non ci si rende conto che la stessa comprensione è un poter-essere dell’Esserci che può avere via libera unicamente nell’Esserci più proprio. In questo compararsi con tutto, tranquillizzante e tutto comprendente, l’Esserci è spinto in un’estraniazione in cui nasconde a se stesso il suo proprio poter-essere”.
Autoimprigionamento…
“… l’estraniazione che chiude all’Esserci la sua autenticità e la sua possibilità, fosse pur quella di un genuino fallimento, non lo condanna ad essere un ente che egli stesso non è, ma lo sospinge nella sua inautenticità, cioè in una possibilità di essere che gli è propria. Il movimento dell’estraniazione deiettiva, tentante e tranquillizzante, porta l’Esserci a imprigionarsi in se stesso”.
Ma questo stato di deiezione, in cui è precipitato l’uomo nella sua quotidianità, in cui l’Esserci si è perduto e vive lontano da sé, in cui ci si scioglie tranquilli nello stato interpretativo pubblico, in cui ci si incatena chiudendo fuori da noi le possibilità del poter-essere autentico, “non è un dato di fatto né un fatto compiuto una volta per sempre”.
Ne va del poter-essere, ne va del poter-essere-nel-mondo. “D’altra parte, l’esistenza autentica non è qualcosa che si libri al di sopra della quotidianità deiettiva; esistenzialmente essa è soltanto un afferramento modificato di questa”.
[Il virgolettato è tratto da Essere e tempo, M. Heidegger, ed. italiana Longanesi a cura di Franco Volpi sulla versione di Pietro Chiodi]
dp (27 novembre 2009)
Il silenzio e il vento
Il signor Matteo Marino si svegliò. Guardò fuori di sé: luce fredda di penombra. Guardò in sé: il buio. Annusò l'estraneità dell'aria: nessun richiamo familiare. Tentò di espandere la percezione verso le membra: sentì poco e, quel poco, dolorosamente.
Due mesi erano trascorsi, quando il signor Matteo Marino si svegliò: la sua coscienza vagava disarmata nella memoria, alla ricerca dell'ultimo istante di veglia da cui riannodare la continuità dell'esistenza. Ma i suoi ricordi erano solo disperse trame smagliate, frammenti di filo mozzato d'un tessuto confusamente lacero.
Altre riflessioni non ebbero modo di combinarsi: un tonfo lontano, che poi parve avvicinarsi, percorse le sue vertebre come un brivido... fruscio di abiti e un breve calpestio... voci sussurri echi, ombre colorate e sonore. Un timbro sugli altri ed un ovale marrone che si dilatò alitando: "Bene bene bene. Andiamo bene. Come si sente? CO ME SI SEN TE? EH... Be', non si sforzi, non si sforzi... Si riposi e... stia sereno. Noi abbiamo fatto senz'altro del nostro meglio. La situazione, ora, è stazionaria: non è più critica, questo voglio dirle. Ma, ora, dipende molto da lei. La ripresa noi l'aspettiamo, ma dipende moltissimo dalla sua capacità di reazione...". Chi aveva parlato? E quegli altri, chi erano? Che cosa era critico, e ora stazionario?
Il signor Matteo Marino, più che altro, percepì il tono della voce sicuro e caldo, e un piacevole senso di compagnia che lo riponevano nella normalità. Ma l'allegria, che provò istantanea, non riuscì a figurarsi sul volto, dove i muscoli non risposero alle sollecitazioni d'un sorriso. In un attimo tornò il silenzio e la strana penombra.
Ma che stava accadendo, e dov'era? Sognava? Ma perché quei dolori? Si sforzò di capire pur sentendo la lucidità venire meno. Provò solo un devastante senso di vuoto: una presenza profonda e raccapricciante strisciava tra le pieghe della sua mente. Tentò di seguirla ma non ne venne a capo, ed il suo sforzo divenne sempre più debole. Crebbe una ripugnanza avvilente, una paura inspiegabile... totale. Si addormentò.
Per giorni così. Si svegliava con orrore. Il cuore sobbalzava. Piangeva e non sapeva perché. Pensò fosse l'effetto di incubi... ma quali?... La sua memoria era una bolla vuota. Non capiva... Sentiva il corpo come un’appendice, un’espansione della mente, pronta ad estendere ed amplificare il dolore. Un dolore diverso, un dolore mai provato, che spezzava il respiro, che pesava in gola come una colpa. Una sofferenza amara e secca, come quelle dei bambini: tormenti che divorano, senza confini, senza ragioni e senza soluzioni.
Ma il malessere del fisico cominciava ad essere anche l'unico conforto, quando, seppure illocalizzabile ed indefinibile, si faceva così acuto da non lasciargli il tempo ed il modo di soffrire d'altro. In quei giorni, oltre a non riuscire a ricordare, come negli altri, non riusciva a pensare. Tutto era occupato da un solo desiderio che era come una speranza di vapore. Aspettava e sognava una fine, sperava qualcosa che sapeva d’assenza e che doveva essere come lo sciogliersi di un grumo. L’abbandono, ecco, uno stato d’abbandono che stendesse le cose, che stirasse le pieghe intricate di quel qualcosa che lo avvolgeva e lo soffocava.
Giorni come questi venivano, però, con sempre minore frequenza. La mente si andava schiarendo ed a volte pareva che i dolori sparissero, mentre tornava qualcos’altro, un senso di oscurità ed uno stato di ansia. Il tormento mutava nella paura di morire. L’istinto, ormai, tornava a dominare le cose.
Tuttavia, ancora allora, non avrebbe saputo dire se le sue pene dipendessero dal corpo, che sentiva sempre più distintamente lacerato da ferite, o dalla paura, a volte, come terrore del vuoto, o da quell’assenza totale di memoria.
Un giorno sentì le forze aiutarlo un po' più del solito. Si risolse: doveva sapere cosa era successo, doveva riuscire a ricordare qualcosa, doveva capire il senso di quella abissale desolazione.
Attorno a sé non percepiva che figure sfocate, luminosità ed ombre. Per il resto, silenzio: un silenzio dilatato in un monotono ronzio come d'insetti annoiati. La luce pareva giungere più decisa dalla sua sinistra, a modo di uno stanco pomeriggio invadente attutito da una tenda. Lo spazio che riusciva a scorgere intorno a sé non gli era in alcun modo noto. Si trovava in un ospedale... probabilmente... ma perché? Avrebbe voluto chiedere, domandare, sapere, soprattutto, dialogare: riascoltare il calore di una voce umana che lo liberasse dalle secche amare di quella segregazione senza passato, dunque, senza se stesso. Tutto era circolare, angusto e immobile. Esclusivamente il tempo, come terra disseccata cascante tra le dita, pareva trascorrere. Matteo sentiva di non essere totalmente in sé, ma la luce che filtrava attraverso quella tenda affievoliva: si faceva sera.
Insomma, qualcosa lì fuori mutava, si muoveva; lì dentro nulla, non un rumore; l'aria, intorno, raggelata. Forse dormiva e sognava... Ma no! era sveglio. Questa, probabilmente, l'unica cosa certa. Aspettava, lo sguardo verso la tenda, attento a notare qualsiasi impercettibile variazione di luminosità. Lì fuori, la normalità in quelle ombre in movimento; lì dentro, chissà cosa; attorno al suo capo, un freddo permanente; in lui, ancora il buio.
L'esperimento fu tentato più volte, e la tenda ogni volta, pian piano, si scuriva; la calotta gelata che gli cingeva il cranio pareva liquefarsi giù per le orecchie, il ronzio vaporava. Poi, si trovava a risvegliarsi: s'era, dunque, addormentato.
Un giorno, mentre tentava di rimanere vigile concentrando ogni sua energia nelle palpebre, la tenda s'infiammò di luce. Il pomeriggio esplodeva arrogante nell'ora esausta prima del tramonto. Erano le quattro, e Matteo Marino guidava col sole in faccia. Venti anni passati su quegli autobus. Mai una strada diritta, larga, sulla quale potere rilasciare i muscoli tesi della schiena, ormai induriti dal lavoro e dagli anni. Come tutto, lì intorno, dopo un po'.
Era di un paese sul Gargano: tutto curve e tornanti da quelle parti. Proprio a questo pensava e guidava. Il destino: nascere così, quasi per una beffa, a due passi dal Tavoliere piatto come il mare, ma dover buttare la vita su quel paesaggio amaro, secco e riarso, come tutto il foggiano, e anche ruvido e contorto. A questo pensava e guidava, tenendo a freno quelle tonnellate di ferro, plastica e pendolari che gli gravavano addosso martellando sui reni esausti, mentre affrontava in discesa quelle maledette curve – sempre le stesse -, col sole che, ad ogni svolta, gli schizzava negli occhi e lo schiaffeggiava.
Sicuro: era stata la maligna mano della sorte a piantare quei sassi aspri ed ammalianti proprio lì, senza alcun senso. Quel destino (se no come altro spiegarlo?) che continuava a giocare con questa gente gettata nella smemoratezza di giorni assolati, nella disperazione dell'arretratezza, d'un ritardo che non si colma e che mai potrà recuperarsi inciampando tra stupide pietre mitologiche. Un destino del diavolo che ha sempre significato sottomissione rassegnata non a qualcuno, ma alla vita stessa, all'inutilità di una vita dura seminata negli spacchi di sussurranti rocce sabbiose.
E Matteo Marino guidava da venti anni: sempre le stesse strade, sempre le stesse curve; uguale il sole, uguale la polvere. Guidava e pensava, e la sua testa, da vent’anni, girava sempre sulle stesse cose: quale sviluppo poteva mai esserci in un luogo che non è pianura, non mare, non collina e neppure montagna? Un luogo dove d'inverno nevica, come un presepio del centro commerciale, e d'estate la terra si sbriciola nel vento, e vola via come molti; un luogo dove le pietre parlano, ma sono spugne secche. Il silenzio e il vento... E' il destino che si diverte a vedere questa gente che, da un'altura bella e senza scopo, guarda e invidia gli altri giù nella pianura o quegli altri ancora sul mare. Gente che può solo, seduta sopra sassi taglienti, sentire quanto è strano tanta acqua da una parte e tanta sete dall'altra. A questo pensava da vent’anni, e guidava. E quello sperone gli si presentava, con sempre maggiore chiarezza, quale simbolo e monito: lì la terra non avrà mai acqua, non avrà mai speranza di ricchezza; e, per il resto, l'uomo, sempre più vecchio, non avrà altro che il ricordo, il pensiero, ed il rimanere uomo. Mentre i giovani non ci saranno, ed i sassi, dopo millenni, riprenderanno ad invecchiare e si sbricioleranno inascoltati. Il silenzio... Chi avrebbe mai ascoltato queste parole, chi avrebbe mai udito ciò che il vento racconta? Sempre meno erano quelli che restavano, e sempre di più, ormai, quelli istupiditi dalla televisione e dal maledetto benessere. Così, in quel luogo vero senza tempo, entrava il mondo, falso, della contemporaneità. Ed il mondo gridava di previsione e progetto e azione. Su quei monti il destino danzava al ritmo sempiterno della profezia. Questo è il destino di quella terra, questo è il destino di quegli uomini, proprio come il suo destino era di guidare sempre su quei tornanti e di sbattere il volto su quel sole accecante del tramonto.
A tutto questo pensava, ma, ormai, da molto tempo, non ne parlava più. L'affrancamento che il suo pensiero aveva tentato gli era valso non altro che disprezzo e solitudine. In anni oggi lontani era stato, in quel paese che condivideva l'adorazione per la Madonna e la Buonanima, Matteo Marino il comunista; più tardi, era diventato, semplicemente, Matteo Marino il pazzo. Saggiò sulla propria carne che la gente preferisce non vedere, preferisce non sapere che al di là del destino che è nelle cose della natura, c'è un destino, forse meno fatale, che è nelle cose dell'uomo, e che ne fa molti servi di pochi. Mentre si potrebbe tentare di non essere né degli uni né degli altri. Così, poco alla volta, finì per tacere del tutto, chiudendosi in sé, accettando la sua personale sorte, ma continuando a pensare.
Non s'era sposato; viveva da solo nella casa dei suoi genitori; le tre sorelle erano andate via.
Ricordava ancora Cettina, la più piccola. Per tre anni avevano vissuto loro due soltanto. Matteo Marino era stato felice. Aveva lavorato e dato, così, da vivere alla sorella. Quella sorella, così buona, che non aveva mai pensato ad altro che alla casa. Erano stati anni felici, per Matteo Marino, in cui si era sentito utile. Il suo compito era stato portare avanti la famiglia, prendersi cura di quella sorella che non aveva mai desiderato scappare come le altre due. Quelle due che avevano sempre fatto come mosche dentro a un bicchiere, finché qualcuno le aveva liberate. E si erano perse nell'aria. Cettina, invece, era rimasta al suo posto. E Matteo Marino, col tempo, aveva preso ad amarla come fosse una figlia. La piccola Cettina pareva non essere cresciuta: bassina magra silenziosa. Eppure era stata così importante, nella sua vita, quella presenza che chiunque avrebbe detto insignificante... Il silenzio di Cettina era parso venire da una sapienza ancestrale, come i suoi movimenti lentiuguali.
Ma anche Cettina, un giorno, aveva parlato, girando nella stanza, proprio come avevano già volteggiato le sorelle, come una mosca impazzita. E aveva detto che era stanca di quella vita, era stanca di quello che si diceva in paese, era stanca del fratello e delle sue attenzioni. Perché non si era trovato una moglie quando era stato tempo? Che significava vivere così, con tutto il paese contro? Matteo Marino, quella volta, non aveva capito. Sapeva che in paese dicevano che era matto; dicevano che prima aveva insultato mezzo mondo e poi non aveva più parlato; dicevano "hai fatto come Matteo Marino", quando uno faceva il diavolo a quattro per qualcosa e, poi, rinunciava a tutto. Ma, quella volta, non aveva capito. Sapeva che nessuna donna l'avrebbe mai voluto, ma... quella volta non aveva capito. Non aveva capito come proprio Cettina dicesse quelle cose, come proprio lei che pareva aver capito molto prima di lui, da sempre, capito tutto, capito che il silenzio era l'unica cosa... Il silenzio e il vento... Quella volta, lui, non aveva capito, e Cettina era volata via.
-Volata?!... L'ha fatta scappare, povera figlia! Chissà cosa le ha fatto?!...
-Come chissà cosa le ha fatto?!... L'ha cacciata!... Prima, ha fatto quello che ha voluto, poi l'ha buttata in mezzo a una strada.
-Ma come, così, da un giorno all'altro?
-Da un giorno all'altro: che ne possiamo sapere noi? Sono anni che va avanti... Può darsi che è stata lei... non ne poteva più e... Ma può darsi che è stato lui! S'è scocciato e l'ha buttata fuori...
-Buttata fuori di casa...
-Un coraggio...
-Che coraggio?!... Pazzo, è pazzo!
-Povera figlia... Ve la ricordate? Buona buona, semplice semplice...
-Quante ne avrà sofferte...
-Quante sì... Un animale...
-Un animale, un pazzo.
Il maresciallo volle spiegazioni. Matteo Marino non aveva capito e disse che non aveva capito. Il maresciallo disse che aveva capito lui, e non da ora; e che stesse attento Marino, stesse molto attento; disse che, secondo lui, i pazzi non esistono, esistono solo i fessi e i criminali e quelli che sono e l'uno e l'altro, e, certamente, non possono avere né patente di guida né responsabilità.
Responsabilità...
Ecco, indovinava in fondo, in quel bagno d'asfalto vitreo sfavillante, l'ultima curva pericolosa, poi il percorso sarebbe stato un po' più riposante. Cominciava a frenare: il pedale morbido, troppo, si sentì precipitare in quel bagliore, vide netta la curva e il muricciolo del tornante (nessuna via di fuga), un colpo sotto di sé, il cielo blu inondato di luce sul profilo dei monti, più nulla.
Responsabilità...
Con enorme sforzo riuscì a voltare lievemente la testa. Vide un groviglio di tubi che sfioravano il cuscino e gli davano vita, e diversi colori che scorrevano, alcuni ritmicamente. Scivolò lo sguardo verso il basso, vide una mano. Non la sentiva. Percepiva appena il braccio. Si concentrò, e fece forza fin dove sentiva l'arto. La mano si mosse un po'. Continuò, con sforzi ad intervalli, e riuscì, facendo perno sul gomito, a sollevare la mano. La sentiva debolissima, però la sentiva, migliorava. Ora, concentrava la forza sul polso. Le dita, poco alla volta, presero a rispondere. Riuscì a chiudere il pugno. Una volta, due volte. La terza sentì chiaramente i polpastrelli serrarsi nel cavo del palmo. Fece ancora leva sul gomito, l'avambraccio ruotò e la mano andò a cadere sul cuscino. A pochi centimetri dalla mano, i tubi. Un attimo, e quella mano sprigionò l’ultima vigoria che spirò da lontano.
(1° premio Festival delle Arti, Bologna, 2004)
(1° premio Festival delle Arti, Bologna, 2004)
L'intervista apparsa su Il Rosone nel numero sett-ott 2004
Il tema del silenzio permea di sé l’intera novella. Con la sua assordante denuncia e rinuncia, con la sua immota sempiterna grandezza, che rende immortali tutte le realtà cui, paradossalmente, si rivolge. Il silenzio di una camera di ospedale, preludio ad una rinascita, rotto dalla rassicurante voce del medico. Il silenzio aspro dei monti del Gargano, rotto solo dal rumore del vento. Il silenzio rassegnato di Cettina, rotto dalle ingiurie profferite nel momento in cui decide di abbandonare il fratello Matteo. Infine, il silenzio di Matteo, che si chiude in sé accettando la sconfitta che gli viene inflitta dalla comunità in cui vive…
Il silenzio non sempre vuol dire rinuncia o abbandono del campo. A volte può essere l’unica risposta dignitosa alla volgarità ed alla banalità. Ci sono momenti in cui il tutto intorno si rivela cosi oppressivamente banale e volgare, momenti in cui ogni cosa pare colpirci con tale pesante non senso da non lasciare altra via… Il silenzio apre, quindi, una possibilità di ascolto diverso, fuori dal chiasso. Il vento riacquista così la sua voce, le sue infinite modulazioni, i suoi sempre nuovi profumi, la sua freschezza. Io mi domando: chi è più solo e sconfitto? Matteo Marino che ha riconquistato il vento, il pensiero, le proporzioni dell’esistenza umana, o la comunità del pensiero unico, delle facili e comode certezze immersa nel chiacchiericcio? Nelle mie intenzioni il titolo vuole essere fortemente evocativo, forzando da subito l’angusta connotazione negativa che accompagna il sostantivo silenzio. Silenzio non equivale a chiusura. Certo, può significare indifferenza e rifiuto, ma è anche necessario nella sempre più negletta pratica dell’ascolto.
Il racconto comincia con una serie di immagini oniriche, sospese tra la veglia e il sonno. Pare che la mente di Matteo raggelata dal coma veda ancora più lucidamente la realtà. Attraverso l’inconscio e l’apparente irrazionalità del buio d’un tratto s’illumina fino a bruciare, come la tenda infiammata dalla luce…
La forma della novella si basa sul concetto di exemplum. La novella non è una “storia corta”, ma un fatto esemplare. Deve significare. Io credo che oggi non sia tanto il caso di cercare significati, quanto di scardinare i pensieri monolitici, la cultura non cultura, le idee dominanti che diventano prigioni dell’anima. E la forma della novella si offre, credo, perfettamente allo scopo. Mediante la situazione paradossale o critica, l’intreccio narrativo forzato, le frizioni esasperate, le immagini rapide ma fortemente evocative, propone spunti, occasioni di riflessione. Qui il crash è dato da un risveglio che pone un uomo riemerso alla vita fuori dalla vita. L’assenza di memoria, infatti, impone la necessità di recuperare tracce del passato per riappropriarsi dell’identità. Attraverso tale dolorosa operazione di recupero riemergono pian piano i nodi dell’esistenza. E riemergono più netti perché stagliati nel vuoto dell’amnesia. Giorgio Bocca ha detto che il male profondo della civiltà odierna è il “troppo”, il troppo di tutto che soffoca le nostre vite, le nostre autenticità e, dunque, la possibilità stessa della ricchezza delle diversità. Be’, l’idea è questa: una sorta di cernita non delle cose, ma dei pensieri delle immagini delle sensazioni delle emozioni fondamentali in noi e per questo più preziose, da non lasciare disperdere nel “troppo”.
Matteo Marino il pazzo, il comunista, è un uomo semplice, che ha la capacità di pensare criticamente, e che non accetta la rassegnazione sottomessa dei suoi conterranei…Quanto c’è in lui di te, o della gente meridionale che hai conosciuto?
Ovviamente c’è molto di me, ma non è certo questo importante. In più c’è una riflessione ed una speranza. La riflessione parte da un dato: nella mia classe del liceo eravamo una trentina, due sono quelli che sono tuttora a Foggia; gli altri, me compreso, hanno voluto o dovuto “volare via”. Una comunità che non ha occasioni di confronto è una realtà che mi fa rabbrividire. Dall’altro lato vedo che il pensiero unico lungi dall’essere una terribile profezia, si sta inverando sostenuto dal forse più grigio periodo della civiltà occidentale. Insomma, banalizzando: la grande città del nord è un mostro che devasta milioni di private quotidianità; mentre la piccola città meridionale vive un suo teatro che si riracconta a sé stesso, capace con non meno violenza di annientare le diversità dei singoli. A livelli diversi e su piani differenti stiamo costruendo sistemi sociali che contengano esistenze fragilissime. La speranza è che le diversità riescano a riemergere come valore prezioso, che le persone coltivino una socialità vera fondata sull’ascolto e non sulla definizione in negativo degli altri da sé. E questa speranza si fonda sulle persone e non può essere né meridionale né settentrionale. Non c’è dubbio, tuttavia, che chi è costretto a sradicarsi acquisti un’ampiezza, ricchezza e complessità di prospettive che rende possibile, più agevolmente, vedere le cose al di là del facile “senso comune”.
Nel racconto viene citato espressamente il Gargano: terra carsica fredda e arida, spesso abbandonata dai giovani per fuggire alla ricerca di un benessere effimero e apparente, che ammorbidisce e svilisce il forte carattere dei nostri meridionali…
Il Gargano è anche luogo non fisico, il mio Gargano è soprattutto luogo metaforico. Per le ragioni già espresse. Ogni comunità che perda le sue giovani forze è ovviamente morente; ogni comunità chiusa che non voglia o che non sappia attirare, per arricchirsene, le altrui risorse è pericolosa per i suoi membri e per gli altri. Questo Gargano metaforico, dunque, è per me, ad esempio, la povera comunità dei leghisti come anche la grande comunità degli Statunitensi che non si recano a votare ed ingrassano in massa paurosamente, agitando bandierine a stelle e strisce, totalmente ignorando il resto del mondo, credendo di essere il mondo.
Il suicidio del protagonista pare un’ennesima accettazione rassegnata del destino, cui non ci si può opporre. Matteo non combatte più, e rifiuta la responsabilità della vita e del prendersi cura degli altri, che non può più sopportare…
Per “prendersi cura degli altri” è necessario che questi “altri” lo consentano. Il racconto propone proprio questo. Il protagonista ha sperimentato il rifiuto della comunità, il rifiuto delle sorelle. E questo rifiuto è un rifiuto profondo, un rifiuto radicale perché è, per l’appunto, rinuncia all’ascolto, rinuncia di ogni forma di autentico dialogo. Voglio essere più chiaro: io non voglio proporre significati univoci, ma solo occasioni di riflessione, come ho già detto. Tu dici: “Matteo non combatte più”. Ma gli altri, forse, combattono? Io non voglio dire Matteo ha ragione o Matteo ha torto. Non voglio tratteggiare un protagonista positivo o negativo, vincente o perdente. Non ho alcuna pretesa di definire un eroe moderno negativo o positivo o maledetto. Il punto è un altro. Ciò che più mi sta a cuore è indagare il senso di noi e delle nostre relazioni. Per dialogare, per confrontarsi, bisogna essere almeno in due e con la volontà di farlo, cioè riconoscendo all’altro la dignità di possibile portatore di verità. Altrimenti la partita non ha luogo. Questa, peraltro, è anche la regola aurea della democrazia. Se non accetto l’ipotesi a priori che l’altro da me può essere portatore di una verità più vera della mia finisco per credere che la mia sia l’unica verità vera, con tutte le ovvie e terribili conseguenze. Quello che mi sta a cuore è il senso di noi, dalla dimensione più intima sino a quella politica (in senso nobile). I problemi della politica non sono estranei ai problemi del nostro particolare.
Chi non riesce ad integrarsi nella comunità in cui vive è un perdente, perché il disprezzo e la solitudine lo hanno già condannato ad una esistenza di emarginazione e di distanza. Il dramma di Matteo è doppio: egli vive dolorosamente la condizione tragica di miseria e di abbandono della sua gente, ed è, allo stesso tempo, deriso proprio dai suoi conterranei incapaci di comprendere e di acquistare consapevolezza e dignità di popolo…
Precisamente. Se gli altri preferiscono non sapere, non vedere… non resta che il silenzio. Ma a perdere è il popolo che non c’è (il volgo disperso, diceva Manzoni). A perdere è la comunità che si fa schiava, prima che di altri uomini o di cose, di poche consolatorie idee, di nebbie bugiarde che chiudono l’orizzonte, degli idola di cui parlava Bacone.
donato pistone (6 novembre 2009)
Indiscipline
Antonio Ligabue
Indisciplina
Ogni casa ha una porta, ma è inutile entrarci.
L'ubriaco non canta, ma tiene una strada
dove l'unico ostacolo è l'aria. Fortuna
che di là non c'è il mare, perchè l'ubriaco
camminando tranquillo entrerebbe anche in mare
e, scomparso, terrebbe sul fondo lo stesso cammino.
Fuori, sempre, la luce sarebbe la stessa.
Cesare Pavese
Indisciplina
L'ubriaco si lascia alle spalle le case stupite.
Mica tutti alla luce del sole si azzardano
a passare ubriachi. Traversa tranquillo la strada,
e potrebbe infilarsi nei muri, chè i muri ci stanno.
Solo un cane trascorre a quel modo, ma un cane si ferma
ogni volta che sente la cagna e la fiuta con cura.
L'ubriaco non guarda nessuno, nemmeno le donne.
Per la strada la gente, stravolta a guardarlo, non ride
e non vuole che sia l'ubriaco, ma i molti che inciampano
per seguirlo con gli occhi, riguardano innanzi
imprecando. Passato che c'è l'ubriaco,
tutta quanta la strada si muove più lenta
nella luce del sole. Qualcuno che corre
come prima, è qualcuno che non sarà mai l'ubriaco.
Gli altri fissano, senza distinguere, il cielo e le case
che continuano a esserci, se anche nessuno li vede.
L'ubriaco non vede né case né cielo,
ma li sa, perchè a passo malfermo percorre uno spazio
netto come le strisce di cielo. La gente impacciata
non comprende più a cosa ci stiano le case,
e le donne non guardano gli uomini. Tutti
hanno come paura che a un tratto la voce
rauca scoppi a cantare e li segua nell'aria.
Mica tutti alla luce del sole si azzardano
a passare ubriachi. Traversa tranquillo la strada,
e potrebbe infilarsi nei muri, chè i muri ci stanno.
Solo un cane trascorre a quel modo, ma un cane si ferma
ogni volta che sente la cagna e la fiuta con cura.
L'ubriaco non guarda nessuno, nemmeno le donne.
Per la strada la gente, stravolta a guardarlo, non ride
e non vuole che sia l'ubriaco, ma i molti che inciampano
per seguirlo con gli occhi, riguardano innanzi
imprecando. Passato che c'è l'ubriaco,
tutta quanta la strada si muove più lenta
nella luce del sole. Qualcuno che corre
come prima, è qualcuno che non sarà mai l'ubriaco.
Gli altri fissano, senza distinguere, il cielo e le case
che continuano a esserci, se anche nessuno li vede.
L'ubriaco non vede né case né cielo,
ma li sa, perchè a passo malfermo percorre uno spazio
netto come le strisce di cielo. La gente impacciata
non comprende più a cosa ci stiano le case,
e le donne non guardano gli uomini. Tutti
hanno come paura che a un tratto la voce
rauca scoppi a cantare e li segua nell'aria.
Ogni casa ha una porta, ma è inutile entrarci.
L'ubriaco non canta, ma tiene una strada
dove l'unico ostacolo è l'aria. Fortuna
che di là non c'è il mare, perchè l'ubriaco
camminando tranquillo entrerebbe anche in mare
e, scomparso, terrebbe sul fondo lo stesso cammino.
Fuori, sempre, la luce sarebbe la stessa.
Cesare Pavese
Frammenti di cose volgari (ottobre 2009)
Frammenti di cose volgari 539 pp - 2009 ISBN: 978 88 9650 200 6 Prezzo di copertina: 15 € .
Prezzo (web) scontato del 20%: 12 € (spedizione gratuita).
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L'OPERA - Due libri in un unico volume: Frammenti di cose volgari (pp 356) e Acqua passata (pp 183) , rispettivamente una selezione dei testi più significativi e un catalogo accurato di quanto pubblicato sul sito booksbrothers.it nei tra anni dal 2006 e 2008.
Questo libro è un prototipo, un collaudo su carta del lavoro a trazione anteriore di booksbrothers.it. Giuse Alemanno, Cosimo Argentina, Fabio Ariostino, Elisabetta Bordieri, Oscar Buonamano, Marco Cetera, Graziano Dell’Anna, Pino De Padova, Giovanni Di Iacovo, Gian Paolo Di Pierro, Rafaello Ferrante, Nunzio Festa, Christian Frascella, Erika Furci, Mateo Gallo, Tommaso Giagni, Antonio Gurrado, Roberta Jarussi, Francesco Lanzo, Elisabeta Liguori, Isabella Marchiolo, Lorenzo Matozzi, Dino Mimmo, Rossana Mitolo, Marco Montanaro, Donato Pistone, Gianfranco Romano, Livio Romano, Radiodiable, Daniela Rindi, Francesco Savio, Andrea Simeone, Natalia Stabilini, Michele Trecca, Enzo Verrengia, Alessandro Zanghi: questa la prima linea degli oltre cento autori che hanno animato le pagine del sito dal gennaio 2006 al dicembre 2008.
Questo libro è un prototipo, un collaudo su carta del lavoro a trazione anteriore di booksbrothers.it. Giuse Alemanno, Cosimo Argentina, Fabio Ariostino, Elisabetta Bordieri, Oscar Buonamano, Marco Cetera, Graziano Dell’Anna, Pino De Padova, Giovanni Di Iacovo, Gian Paolo Di Pierro, Rafaello Ferrante, Nunzio Festa, Christian Frascella, Erika Furci, Mateo Gallo, Tommaso Giagni, Antonio Gurrado, Roberta Jarussi, Francesco Lanzo, Elisabeta Liguori, Isabella Marchiolo, Lorenzo Matozzi, Dino Mimmo, Rossana Mitolo, Marco Montanaro, Donato Pistone, Gianfranco Romano, Livio Romano, Radiodiable, Daniela Rindi, Francesco Savio, Andrea Simeone, Natalia Stabilini, Michele Trecca, Enzo Verrengia, Alessandro Zanghi: questa la prima linea degli oltre cento autori che hanno animato le pagine del sito dal gennaio 2006 al dicembre 2008.
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Iban: IT 51 T 0760 115700000097792931. Scrivi nella causale la parola “frammenti”.
Quindi manda una e.mail a galanoale@gmail.com, indicando il numero del bonifico e l’indirizzo postale a cui spedire il volume. In pochi giorni riceverai l’antologia a casa senza costi aggiuntivi.
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Il corpo
Acrilico su tela cm 30 x 40 |
Alta e magra era Rosamaria. Bella, senza ombra di dubbio. Lunghi capelli neri e lucenti. Diciassette anni, lo sguardo già profondo, intenso. Occhi scuri con riflessi verdi, in un disegno un po’ orientale. Anche i piedi aveva belli Rosamaria, anzi, pensava fossero le parti più interessanti del suo corpo. Le era capitato di notare che anche nelle persone più avvenenti i piedi, se non proprio sgradevoli, risultavano per lo meno assai trascurati. Quelle estremità del corpo, le più lontane dagli occhi, le più lontane dalla testa, che come qualsiasi zona periferica tende ad essere dimenticata ed abbandonata, in lei erano l’ultima felice regione di una bellezza rigogliosa, armoniosa e completa.
L’estate era la stagione di Rosamaria. Pochi indumenti. La pelle che respira ed acquista i suoi più veri profumi. Il corpo, non nascosto, che può riconquistare il suo naturale con-sentire con la natura fuori.
Tutt’attorno il sole accecante inondava il silenzio della campagna attraversata dal piccolo fiume dove Rosamaria e Roberto avevano fatto il primo bagno dell’anno.
Era quasi un loro posto segreto quel punto in cui il fiume, adagiandosi in un’ansa, creava una pozza d’acqua in cui potersi immergere in piedi fino alle spalle.
Rosamaria conosceva Roberto da quando erano bambini e crescendo era diventato il suo unico vero amico. Avevano la stessa età, ed erano passati con assoluta naturalezza dai giochi alle letture, mentre gli altri coetanei a mala pena aprivano i libri di scuola.
I primi viaggi nella grandezza del mondo, Rosamaria li aveva fatti ascoltando avidamente don Pietro quando, tornato da paesi e città che parevano lontanissimi, ne parlava a cena a donna Elena. Se poteva, indisturbata, lasciava il suo posto a tavola e si raggomitolava sul divano, nell’altra stanza, al buio e chiudeva gli occhi. Le parole del padre la conducevano per mano, per salire sull’auto e vedere la campagna muoversi al finestrino, verso la gente del mondo, verso la pianura, verso il mare.
Era anche capitato, durante pomeriggi invernali di giorni di festa, che don Pietro era stato costretto a restare in casa. Allora Rosamaria aveva sperato che si sedesse sul divano a sfogliare il giornale. Era accaduto raramente, ma era accaduto. E Rosamaria si era seduta vicino al padre, piccolissima, e aveva chiesto: “Mi racconti una storia?” Don Pietro aveva ripiegato il giornale (era accaduto pochissime volte, ma era accaduto), aveva preso tra le sue enormi braccia Rosamaria, ed aveva raccontato di Napoli, del mare, delle navi. Era successo, forse, solo due volte, ma come era stato bello nell’odore di don Pietro attraversare la nebbia ingiallita dai lampioni fuori oltre la finestra e arrivare al mare. Salire sulla nave e andare andare andare.
Don Pietro era dolce, ma il suo tempo era sempre poco. Rosamaria aveva sognato mille interminabili pomeriggi di racconti, che avrebbero potuto essere, ma non furono mai. Aveva sentito che il padre era come uno scrigno pieno di cose inaudite che però non si riusciva a godere, perché il lavoro e il fare venivano sempre prima del sentire e dell’immaginare. La dolcezza di don Pietro, in fondo, aveva qualcosa di rituale che la rendeva fredda e distante.
Un giorno, in fondo ad un cassetto della sua scrivania, aveva trovato un foglietto di carta sul quale, con la grafia incerta di bambina, aveva scritto: “Sono come la goccia sul vetro appannato della vita, che ad ogni istante scivola più in basso”. E le era parso che quelle parole le si fossero formate nella mente proprio durante uno di quei pomeriggi, anche se, forse, quei pomeriggi non erano mai stati.
La scoperta dei libri era stata, per Rosamaria, il momento del disincanto e del distacco. I libri donavano senza parsimonia pomeriggi caldi di abbracci di storie diverse, molto più complicate di quelle di don Pietro, molto più interessanti. I libri erano occasioni che potevano essere e che diventavano vere solo a volerlo. I libri erano tempo dedicato, tempo vero, denso di sentire e immaginare e pensare.
Abbandonata sul pianerottolo tra il primo ed il secondo piano c’era, da sempre, un’esile libreria con i ripiani inferiori chiusi da sportelli in cui tenevano vecchie scarpe, scarponi e stivali per la campagna. Sui ripiani superiori, a vista, c’erano, invece, libri che non si era mai soffermata a guardare. Aveva tentato di afferrare quelli disposti più in alto, dal dorso identico ed elegante, ma si era ritrovata in mano l’intera fila di volumi: libri finti, ornamentali, un corpo unico di cartapesta, cavo all’interno, che non dimenticò mai.
Sul ripiano inferiore, invece, pochi, disuguali e maltrattati dorsi. Tra questi, un libriccino ingiallito prometteva “Le storie della storia del mondo”. Aveva letto, quella sera, di un tale Laomedonte, re di una città lontanissima nella notte dell’antichità. Aveva visto Esione, sua figlia, che si preparava all’estremo sacrificio per la salvezza di tutti i Troiani. Aveva sentito sopra di sé la gravità della decisione e l’altezza del gesto. Aveva vissuto sino in fondo quel primo racconto, tracciato con imperfetti caratteri di stampa sulla carta macchiata ed ammuffita dal tempo e dall’abbandono. Non c’erano soltanto le distanze per viaggiare, ma anche il tempo.
Quella sera aveva pensato che il mondo non è uno. Tanti sono i mondi vivibili, innumerevoli, nello stesso tempo ed anche in diversi tempi. I mondi sono quanti noi siamo, quanti uomini sono stati, quante città e paesi esistono, quante storie possono essere. Don Pietro e i suoi racconti erano diventati solo un mondo tra i tanti e, per di più, ingiustamente inaccessibile.
Lesse, poi, le altre storie di quel libro dalla carta ruvida color latte macchiato e, subito, la passione segreta che ne era derivata, aveva imposto l’esigenza di parlarne con qualcuno.
Roberto aveva voluto vedere quel libro così fantastico che sapeva anche dell’intimità della sua amica, ma non era riuscito ad ottenerlo in prestito perché, finita la lettura, Rosamaria non voleva distaccarsene per nulla al mondo. Continuava a rileggere quelle pagine, a volte anche solo un periodo le bastava per volare via. Essere giunta all’ultima riga era stata un’esperienza dolorosissima. Oltre la copertina null’altro. Quel mondo, quei mondi non potevano finire così, non dovevano scomparire.
Era autunno inoltrato quando Roberto le disse: “Voglio darti una cosa, ma tu, in cambio, devi promettere che mi presterai il tuo libro”. Rosamaria aveva esitato, e solo la febbrile curiosità le aveva concesso, d’un tratto, di sciogliere ogni riserva.
Roberto aveva, così, estratto la sua promessa da una tasca del cappotto. “La ballata di natale” di Dickens. “E’ bellissimo, Rosamaria! Io… questo libro voglio che tu lo tenga con te. Il tuo libro, invece, voglio solo leggerlo e te lo restituirò prestissimo”.
Il distacco, tuttavia, non era stato del tutto indolore, tanto più che, per giorni, Rosamaria non era riuscita ad iniziare la lettura della “Ballata”. Aveva aperto il libro quella sera stessa, ma, subito, le prime parole l’avevano confusa e delusa. Troppo diverso, ed era come se un estraneo si fosse intrufolato nella sua stanza. Non era il suo libro, non era la stessa cosa.
Poi, un pomeriggio, col profumo d’arancia sulle dita ed un’incerta sensazione di tradimento, aveva cominciato a sfogliare le pagine osservando la forma nitida dei caratteri di stampa, notando la qualità della carta liscia e bianca. Era un libro ben tenuto, che diceva di una libreria senza scomparti per gli scarponi e lontana da umidi lucernai. In più, la sicurezza della rilegatura le incuteva un certo timoroso disagio.
Pian piano, la sua esplorazione era tornata a soffermarsi sulla prima pagina: “Marley era morto, tanto per cominciare”. Aveva riletto la prima frase un’infinità di volte, poi, all’improvviso, era scivolata nella storia e l’aveva letta tutta d’un fiato. Era notte, quando spense la luce sul comodino e si addormentò. Al mattino il libro era lì, accanto a lei, non più un estraneo ma un nuovo amore.
Rosamaria aveva conosciuto l’amore ed imparato ad amare così. La scoperta, il possesso, la novità, le diversità, la ricchezza dei mondi oltre il suo mondo, la sete e la fame dell’alterità, la prepotenza del desiderio, ed il darsi ed il divorare ed il tornare ad assaggiare. Il gioco dello scambio dei libri era stato il primo grande fatto d’amore della sua vita, con il senso di colpa del tradimento, con il vuoto dell’allontanamento, con il fremito della novità, l’invasione degli odori nella percezione acuta della lettura che la iniziava alla partecipazione carnale e totalizzante all’universo degli altri mondi. Per sentire, alla fine, l’ebbrezza di una ricchezza composita e completa fatta di dolcezze sempre rinnovate mai stancamente ripetute.
Dalla fessura delle palpebre Rosamaria spiava il mondo immerso nell’oceano di luce della prima estate, mentre il sole faceva sentire il suo pesante furore sul corpo disteso ad asciugare. Roberto era disteso accanto, anche lui in silenzio. Dalla fessura Rosamaria giocava a vedere segretamente cosa accadeva lì fuori. In quel momento, anche il suo corpo le pareva un perfettamente fuori: tutta la fisicità del mondo oltre la tendina delle ciglia; al di qua, soltanto l’anima, impalpabile ma distinta. Le pareva che in questo modo fosse possibile cogliere con maggiore chiarezza le linee e i colori e i pieni e i vuoti della bellezza intorno, l’ondeggiare giallo dei campi sui profili delle colline in fondo, ed il cielo mai stanco di mutare tonalità. Ciò che però le dava il senso più intenso della bellezza proveniva dal suo stesso corpo, le cui linee immerse nel resto sapevano dell’armonia viva, incarnata.
Lievemente girata su un fianco, vedeva le sue lunghe dita della mano destra poggiate sull’anca: una mano agile, elegante, curata ma naturalmente aggraziata, come levigata nel marmo michelangiolesco. E così il profilo della lunga coscia dalla pelle fresca, tesa e liscia.
La vera bellezza, però, era alla fine, lì in fondo, dove imponente si inarcava il collo di un piede lungo ma perfetto, disegnato da nervi e vene evidenti tanto da esprimere l’energia armonica dell’intero corpo.
Rosamaria era inebriata dalla singolare bellezza del suo fisico, ma ciò che le interessava era l’anima, quel tutto vero al di qua della fessura delle sue palpebre. L’anima che sente, percepisce, pensa, ragiona, memorizza, vola, si proietta, sogna, vede l’invisibile, crea, può l’impossibile pur costretta nella gabbia corporea.
La materia può essere plasmata, modellata, raffinata con ogni maestria ma permane in essa sempre l’originale pesantezza, che prima o poi restituisce la noia. Perciò il bello informato non può mai essere eterno, non può mai veramente farsi divino; può soltanto evocare, echeggiare quell’idea pura perfetta cristallina.
Rosamaria aveva dato il suo corpo a Fernando, per la prima volta, ed era andata come lei immaginava. Lui aveva molti anni più di lei. Impiegato in città, non bello anche se alto, un po’ grasso. Un giorno era venuto al negozio di don Pietro per comprare la stoffa per un vestito buono, e quel giorno per puro caso s’era trovata lei a servirlo. Come era sua abitudine, Rosamaria aveva sorriso e aveva detto con voce chiara:”In che posso esserle utile?”, guardandolo dritto e fissamente negli occhi. Fernando distogliendo lo sguardo aveva risposto, e per Rosamaria era iniziato il divertimento. Non era la prima volta che giocava così e già in tante altre occasioni aveva visto uomini confondersi, balbettare e dire frasi assolutamente fuori posto o assolutamente sciocche, solo che lei gli avesse sorriso. Ma quel giorno, chissà perché, il gioco era andato oltre. Rosamaria aveva fatto parlare gli occhi e tutto il suo corpo per vedere che reazioni riusciva a suscitare, ma prima che Fernando, già stremato dal gioco, fosse riuscito ad andare via, aveva fatto in modo di sfiorare con le sue dita la mano di lui.
Fernando aveva lasciato il negozio con il sangue in tumulto e le tempie che bruciavano. Rosamaria gli era entrata nella carne come una febbre, e quando ebbe riconquistato un po’ di coraggio per tornare al negozio, con una scusa, capì di essere in preda alla follia. Quel pomeriggio, infatti, nel negozio c’erano molti clienti e Rosamaria stava mostrando tessuti e biancheria destinati al corredo di un matrimonio: cosa lunga. La figlia più grande di don Pietro si era, invece, presto liberata, e Fernando aveva dovuto sprecare con lei la scusa preparata. Il negozio era ampio e Rosamaria lontana, ma il turbamento di Fernando ne aveva tratto, comunque, violento nutrimento.
I giorni di Fernando non erano più gli stessi e la solitudine della sua casa era divenuta ben altra rispetto a quella che si era insediata alla morte della madre. Allora aveva ristrutturato l’appartamento e vi aveva disposto dei mobili decorosissimi. Aveva iniziato una nuova vita in spazi finalmente suoi, libero per la prima volta di organizzare il quotidiano con ritmi appartenenti alla sua sola esistenza, come un rispettabile impiegato dello Stato, fuori dalla povertà che s’era trascinato dall’infanzia. Con Rosamaria ossessivamente tra i pensieri, tutto era mutato nuovamente, ed il tempo era diventato puro spazio di lontananza da lei.
Fernando era tornato in negozio per le prove del vestito buono che aveva commissionato, ma nella sartoria aveva trovato sempre e solo Matilde. Lo stesso sangue, la stessa carne, eppure Matilde non aveva alcunché di Rosamaria.
Un pomeriggio, mentre con indosso l’abito quasi finito guardava nello specchio della sartoria senza distinguersi, era apparsa Rosamaria. Alta e magra e sorridente, i capelli raccolti in una lunga coda lucente. Un refolo profumato aveva accarezzato Fernando. Si era chinata veloce a parlare di qualcosa in confidenza con la sorella seduta alla macchina per cucire. Poi un volo dei capelli neri e si era voltata verso l’ombra prima indistinta e aveva visto Fernando che guardava di pietra verso di lei.
“Da quanto tempo, signor Fernando! E come viene l’abito? Come viene?” Gli aveva girato intorno rapida e leggera. Poi si era fermata dietro lo specchio sporgendosi da un lato. “A me pare… bene… sì… d’altronde Matilde ha le mani d’oro. Ma… guardatevi, signor Fernando, guardatevi! Voi che ne dite?” Aveva così ripreso il gioco, Rosamaria, immediatamente attirata dallo sbigottimento che leggeva negli occhi di Fernando, incertamente immobili su di lei. “E su… guardatevi e dite! Non avrete fastidio che io sia qui…”
Fernando, dopo un po’ aveva distinto se stesso nello specchio e ne aveva tratto amarezza, come fosse incorso in un tranello. Distogliendo lo sguardo da quella leggiadria, aveva scoperto se stesso: goffo grigio senza espressione.
Rosamaria aveva continuato il gioco, sempre più divertita. Si era complimentata per il gusto di Fernando nello scegliere il tessuto, certo una lana classica ma sempre apprezzabile, in specie indosso ad un funzionario pubblico. Aveva lodato il taglio delle tasche, alla moda, che davano un tocco giovanile, come si conveniva ad un uomo prestante e, chissà, anche un po’ sportivo. Ed aveva aggiunto, con discrezione e grazia, che, magari, quelle scarpe lì, forse, non valorizzavano a dovere l’intero, e che, ovvio, erano le scarpe di tutti i giorni e che stonare non stonavano neppure troppo. Tuttavia, una scarpa nuova, di un bel pellame di qualità, ecco che avrebbe completato.
Fernando aveva tentato di seguire le osservazioni di Rosamaria, ma Rosamaria era troppo bella per riuscire a stare dietro al senso delle sue parole. Solo l’accenno alle scarpe lo aveva indotto a guardarsele, ed ancora una volta era stato invaso dall’amarezza.
Da tempo Rosamaria aveva scoperto l’effetto che provocava negli uomini, ma non ne aveva una piena e chiara consapevolezza. Era interessata, più che altro, dagli aspetti comici che l’attenzione suscitata recava con sé.
Donna Elena si era accorta assai per tempo della rara e pericolosa bellezza della figlia, e a don Pietro aveva detto che Rosamaria era un guaio, un guaio grosso; che con quel seno e quelle forme era miele per le mosche e non c’era da lasciarla sola un momento, ché di mosconi già se ne erano visti troppi.
Don Pietro aveva riso di gioia orgogliosa ed aveva risposto che il loro sangue era buono ed aveva fatto buona carne: tre figli sani e forti e belli. Rosamaria era un fiore speciale, di quelli che si vedono da lontano, sulle colline, e non si confondono nelle onde del grano.
Ma il cuore di donna Elena non era più tranquillo. Gli occhi degli uomini lei li vedeva su Rosamaria e sapeva i pensieri che c’erano dietro, mentre sua figlia pareva non sapere ancora nulla della vita.
“Un fiore”, aveva continuato don Pietro, “alto, fresco, acceso, forse un po’ selvaggio, come non se ne vedono facilmente! E come ogni fiore straordinario, meriterà di essere colto, ben raccolto. E ciò accadrà quando sarà tempo. Tu, stalle attorno, ma vedrai: la bellezza porta felicità, non sventure”.
Ma i timori di donna Elena erano aumentati quando aveva provato a parlare con la figlia per metterla in guardia. Rosamaria si era immediatamente trasfigurata, il volto teso e lo sguardo duro, e aveva detto che non voleva saperne di questi discorsi da paese, che non si faceva altro che vivere di chiacchiere sciocche, senza riuscire a guardare un po’ al di là del proprio naso. Aveva alzato la voce e aveva detto che lei era interessata a ben altro, e che non aveva alcuna intenzione di vivere come la madre, dando importanza alla superficie delle cose, soltanto a ciò che appare, senza pensare mai a ciò che c’è sotto, dentro, in mezzo, a ciò che magari è nascosto ma più vero. Voleva studiare, Rosamaria, studiare per potere andare via, ecco cosa voleva fare. Perché non ne poteva più delle forme. Forme, solo forme di cartapesta, vuote e pesanti insieme. Non ne poteva più delle finzioni d’un paese stupido, dove si pensa che la vita sia tutta nello sposarsi e fare figli, dove il tempo è interminabilmente riempito di parole incoerenti e sempre uguali, che non aggiungono e non tolgono niente. Dove la testa deve girare sempre e solo prevedibilmente, come un carillon a cui si dà la carica per avere monotonamente la stessa musica e lo stesso giro di pupi. E si sta così, tutti tranquilli del ben noto, del ben fatto.
Aveva aggiunto, infine, che gli uomini, “quegli uomini”, non la interessavano per nulla al mondo e che, quindi, donna Elena poteva ben stare serena che nulla avrebbe potuto accadere. Perché l’unica cosa che gli uomini di quel paese potevano fare a lei, Rosamaria, era farla ridere a crepapelle per quanto erano vuoti e caproni, volgari e fissati e chiusi, come tutti.
Rosamaria negli occhi degli uomini non sapeva ancora leggere. Lei vedeva solo lo sconcerto e la confusione. Si vedeva riflessa, in quegli occhi, come l’immagine stessa del disordine, come un temporale che si specchi e riversi all’improvviso in uno stagno. Il divertimento nasceva da questo potere che Rosamaria pensava possedere nell’anima, convinta che fossero le sue frasi argute, allusive, ironiche a generare il disorientamento.
Il mondo del paese si stringeva sempre più piccolo intorno a Rosamaria, così come i suoi pensieri aumentavano e si complicavano attraverso le letture, attraverso la conoscenza di uomini che avevano varcato l’oceano immenso dell’essere alla ricerca della massima leggerezza per consentire all’anima il volo finalmente libero, oltre le reti e le catene dell’uomo comune.
Che vita era quella del signor Fernando? Che vita mai poteva essere, stretto in quei vestiti sempre troppo vecchi e in quelle scarpe esauste indurite dalla cromatina? Col conto in banca che cresce pian piano e la pensione certa che matura? Con quelle sigarette fumate in solitudine, su e giù per il paese sempre alla stessa ora della sera, come un quadro vecchio e brutto da dimenticare in cantina. Con quel faccione rosso e quegli occhietti affondati e inespressivi. Con quel suo essere invidiabilmente impiegato statale che lo incorniciava nel salotto buono del paese. Che vita poteva essere, se non di squallida ripetitività, ma con il plauso silenzioso della gente?
Rosamaria parlava, alludeva, ironizzava e sentiva il piacere del disordine che riusciva a gettare in quelle teste regolari, piantate a dovere nel terreno.
Quel pomeriggio il suo giocattolo era stato quel grosso omone intimidito che non sapeva dove nascondere le mani troppo grosse, ma il gioco, all’improvviso, aveva mutato le sue regole e la leggerezza del divertimento si era cambiata in qualcos’altro.
Con la voglia irresistibile, infatti, di andare oltre, aveva ancora e più volte volteggiato attorno al signor Fernando e, ad un certo punto, alle sue spalle, con il pretesto di saggiare la linea del vestito, lo aveva cinto con le braccia. Il gioco era terminato. Rosamaria s’era vista nello specchio abbracciare un uomo e, nello stesso tempo e fulmineamente, aveva sentito tutt’intero il proprio corpo ed il corpo di lui. Aveva percepito la vibrazione dell’uomo, ma insieme ed oltre la propria volontà, aveva sentito vivere il proprio corpo.
S’era ritratta, Rosamaria, col sorriso ancora sulle labbra che, nello specchio, non era più fresco e leggero come un attimo prima. L’allegria si era incagliata in qualcosa di complicato ed aggrovigliato che appariva ora sul suo volto diverso ed ancora più di donna.
Era scappata via, allora, Rosamaria, farfugliando parole in disordine, con Matilde che da sopra la macchina per cucire guardava interrogativa ed il signor Fernando che si lisciava i fianchi della giacca, meccanicamente, dove aveva sentito la lieve pressione delle mani di lei.
Il gioco era andato oltre, e Rosamaria ancora non lo sapeva. Quella notte era stato difficile addormentarsi e, poi, il sonno era stato agitato e confuso. La mattina seguente, a scuola, non era riuscita a togliersi di dosso uno stato di straniamento accompagnato da una percezione acuta che apparteneva al sogno di quella notte. Non era riuscita, però, a legare quella eco ad alcuna immagine o situazione. La notte aveva lasciato soltanto una densa nebbia mattutina dai chiarori allucinanti. C’era, però, qualcosa di forte ed intenso che si muoveva o accadeva dentro quella foschia.
Era sabato, ed era tornata a casa con la solita corriera. Non era riuscita a leggere una sola pagina del libro che le era rimasto tra le mani aperto per tutto il viaggio, né era riuscita a guardare fuori il solito paesaggio, né era riuscita a pensare. Aveva mangiato pochissimo, perché la fame era finita dietro all’urgenza di ricordare, ricostruire, capire. Il pomeriggio aveva dato una mano in negozio, ma il tempo era diventato inconsistente con quel ronzio piatto nella mente svuotata. Quando, però, a sera, era tornata un attimo in camera sua, prima della cena, aveva provato il desiderio di fare un bagno, di immergersi in acqua caldissima, di lavarsi accuratamente. Nella vasca, col corpo che si abbandonava al calore, aveva chiuso gli occhi e, pian piano, le si erano andate ricomponendo disordinate sequenze del sogno.
Distingueva, a mala pena, dall’alto, la madre che mostrava sul bancone più lungo del negozio stoffe chiare, delle sete. Ma a chi le mostrava? Di fronte a donna Elena un capannello nero… donne vecchie, tutte vestite di nero, piccole, magre, dalle schiene curvate. Rosamaria, ora, vedeva quel capannello nero di fronte, era a fianco alla madre, forse un po’ dietro la madre. Donna Elena tastava i tessuti, li svolgeva e vi faceva scorrere sotto il braccio per farne apprezzare la luce e la leggerezza. “Seta magnifica”, diceva, “dovete prendere questa. Per una sposa non potete prendere altro. Il prezzo è buono, per questa qualità, e non potreste andare meglio. Questa è la roba buona ed è per una sposa… Non si può fare altrimenti… La gente che direbbe?! E, comunque, credete, oggi come oggi, questa offerta è un affare, un vero affare!” Un paio di volti deformati e asciugati dall’età nel folto del capannello parevano consultarsi per dire poi che il prezzo era alto, che quella stoffa… bella era bella, ma sempre troppo costava, e che non era mica lì che finiva: c’era pure il lavoro di sartoria da aggiungere. E il prezzo o calava o non se ne faceva niente. “Ma che dite?”, rideva donna Elena, “la sposa la mandiamo in giro nuda… Perché, a questo punto, meglio nuda che vestita come una poverella da fare ridere tutto il paese. Signore mie, lo sapete, certe cose vanno fatte. E si possono fare solo in un modo. Non è che c’è tanto da scegliere. E le figlie femmine sono un guaio… C’è da fare un sacrificio in più, ma nessuno potrà dire… Se poi volete fare parlare la gente, questo è un altro paio di maniche. Io sono commerciante: o vendo un articolo o ne vendo un altro, per me… L’importante è accontentare il cliente, però certe cose ve le devo dire, che poi non facciamo che la cosa finisce in un certo modo e venite poi qua a lamentarvi…” Seguiva qualche attimo di silenzio per vedere se le parole producevano qualche effetto nelle vecchie. Poi donna Elena, scostandosi un po’ da parte e lasciando in primo piano la figlia riprendeva col dire che guardassero Rosamaria, aveva indosso soltanto una camiciola semplicissima, ma di seta. Eh?! Non pareva un incanto? Come il tessuto accarezzava le forme… “Il tessuto…”, chiedeva una vecchia sporgendosi in avanti, “la seta è la stessa? La stessa qualità…” Mentre domandava, allungava una scarna e livida mano a toccare la camicia e così subito tutte le altre. Rosamaria sentiva il freddo delle mani che le sfioravano i seni o sulle braccia, freddo che diventava punture, spilli sulla pelle e poi ancora dita strette sui capezzoli e graffi e il capannello nero che si apriva e sbatteva come un covo di pipistrelli che le venivano contro e l’assalivano. Rosamaria scappava via, fuori dal negozio, nelle vie del paese con quella nuvola di pipistrelli che la inseguiva e non riusciva a distinguere le vie in cui voltava disperata e li sentiva sempre sopra di sé. Finché finiva nelle braccia del padre. Dove? Era a casa. Don Pietro la teneva teneramente tra le braccia e le accarezzava i capelli. Era enorme don Pietro, le sue mani gigantesche e le carezze tante, calde rasserenanti. Quelle mani però non erano più quelle di don Pietro: erano grandi sì, ma grosse anche e poco curate. Erano le mani del signor Fernando che accarezzava il volto di Rosamaria adagiato sul suo petto e lui che guardava tenero cogli occhietti affondati ma buoni.
Rosamaria aveva avuto un brivido e le immagini si erano dissolte nel fumo che saliva dall’acqua caldissima. Si era allora accorta che teneva i pugni stretti sino a provarne dolore e che tutti i muscoli erano tesi senza alcuna necessità. Si era, dunque, sollevata oltre il pelo dell’acqua per qualche istante e, immergendosi nuovamente, il contrasto di temperatura le aveva concesso una gradevole distensione. Le immagini del sogno, recuperate per brevi attimi, avevano ridestato sensazioni contrastanti che si facevano sentire, come una matassa intricata, nell’addome. Le mani di Rosamaria avevano cominciato a lavare con attenta dolcezza le braccia ed i seni martoriati dalle ossute e gelide mani delle vecchie. Paura, ribrezzo e rabbia si impastavano a tristezza e nostalgia sulla pelle e nella carne devastate dalle ferite. Ed il suo corpo non era più il suo; come persa l’originaria integrità, lo sentiva lontano, diverso, distante, irrimediabilmente guastato. E diverse erano state le carezze del padre, che avevano lasciato la presenza di un piacere mutato in qualcos’altro che le dava la nausea. Le mani di Fernando, invece, erano state leggere. Rosamaria le aveva, alla fine, seguite con le sue, nell’acqua, e le sensazioni avevano preso a convergere verso quel punto dove la matassa intricata si era andata sciogliendo in un appagamento che era cresciuto, stupito, inesorabilmente. Rosamaria aveva conosciuto, così, il piacere che il suo corpo sapeva prendere. E questo le aveva dato, ancora di più, l’idea della distinzione con la sua anima ignara. La fisicità viveva una sua vita indipendente, fatta di sensazioni e istinti, probabilmente, che si riverberavano poi nello spirito, lasciando delle orme come quelle del sogno. Nell’autopercezione di Rosamaria il corpo aveva preso il suo spazio, anzi, aveva ingombrato ogni spazio in maniera imbarazzante. I suoi seni erano troppo grossi, le sue coscie troppo lunghe, le sue labbra troppo accese. Ora Rosamaria sapeva cosa il suo corpo voleva, e cosa volevano gli altri corpi. Sapeva a cosa i suoi organi tendevano istintivamente, al di là della sua consapevolezza. Le sfuggiva del tutto il controllo su una parte di sé, e quella parte viveva liberamente intrecciata alla rete delle relazioni della materia, richiamando e rispondendo oltre la coscienza.
Quella settimana aveva nevicato quasi di continuo, ma la domenica il sole splendente nel cielo pulito sapeva già di primavera. Rosamaria era uscita di casa in quella luce accecante per recuperare un po’ il senso di se stessa, che pareva smarrito nel grigio dell’inverno. Aveva preso la via più breve per uscire dal paese e nei campi, ad un tratto, aveva percepito l’onda della bellezza: il profumo nuovo dell’aria pulita sopra le forme delle colline esaltate dalla neve brillante in contrasto con l’azzurro del cielo. Era un tutto fermo a riposare nel tepore del sole. Allora, anche Rosamaria si era fermata, si era seduta su un muricciolo a secco, aveva raccolto le gambe tra le braccia e, chiusi gli occhi, aveva rivolto il viso al sole. Le si era sciolto dentro un calore rigenerante e rasserenante. Si era sentita donna, nella pienezza del suo corpo, e felice nell’aria fragile che accarezzava il tutto attorno vivo. E l’onda della bellezza pareva interminabile. Quei lunghi momenti le erano parsi di purificazione, liberandola da ogni pensiero, lasciando spazio alla casualità delle percezioni. Sentire in maniera così forte la natura e la sua bellezza l’aveva persuasa dell’assoluta bontà della materia, estranea ad ogni volontà, priva di qualsivoglia direzione, meravigliosamente ciclica e incolpevole. La materia segue sempre e solo le sue stesse tracce, riverberi incerti di qualcosa d’altro che è dovunque e non è in alcun luogo, una perfezione ed un’infinità di cui si può soltanto percepire l’esistenza. E l’uomo è questo strano impasto che ne fa un essere continuamente disorientato che non può adagiarsi nella natura e non può vaporare nello spirito, ma che dell’infinito ha pure un intimo sentimento. Rosamaria aveva, infine, pensato a Fernando, a come, nel sogno, erano state dolci le sue carezze ed allo sguardo che era stato come un generoso abbraccio che aveva dissolto l’angoscia della fuga. E poi aveva ripensato a quanto era successo in sartoria davanti allo specchio con Fernando ed il suo abito nuovo, ma allora era scesa dal muretto e si era incamminata verso casa. Tornando si era trovata a percorrere delle vie in cui il sole non poteva filtrare. Pioveva dai tetti la neve che si andava sciogliendo in un’aria umida di desolazione ed in terra il ghiaccio crepitava sotto i passi misto a fango. Qualcosa stava cambiando e Rosamaria non riusciva a sistemarla dentro di sé. L’estraneità del corpo non le dava pace. Con gli indumenti aveva, in ogni modo, tentato di nascondere e deprimere le sue forme, che parlavano un linguaggio nuovo che lei non voleva sentire. Ma il disagio era comunque presente, perché la sua fisicità le pareva costantemente qualcosa di proiettato fuori, gettato al di là di se stessa, che si fissava nella percezione degli altri come una forma, soltanto come una forma cava all’interno.
A lei Fernando era parso esattamente come una forma vuota, una forma con cui giocare, una forma a cui lei aveva dato contenuto. E soltanto il sogno le aveva rivelato una possibilità altra, un’ipotesi di Fernando, solo un’ipotesi, ma che le pareva più vera, più profonda. Un’ipotesi, d’altronde, che forse si era formata da quel contatto tra i corpi in sartoria.
!!! E se l’anima non fosse che un formidabile inganno? Se non fosse altro che una raffinatissima tecnica dell’animale umano per perpetuarsi, mettendo nell’angolo le evidenze della finitezza corporea? !!!
donato pistone (27 giugno 2009)
Il dolore inutile
Riproduzione de L'attesa di Felice Casorati
21 x 29 cm, biro e matite su carta
Tutto era accaduto, inesorabilmente, senza che lei avesse potuto porvi rimedio. La sua vita era cambiata, divenendo indecifrabile, e non aveva mostrato code di filo da cui potere iniziare a dipanare la matassa. Un nodo amaro le era entrato nel petto, da un giorno all’altro. Lei, Matilde, non poteva scioglierlo e non si dava pace. Aveva perduto la casa, aveva perduto i suoi affetti, aveva perduto il suo tempo, aveva perduto se stessa. Sfioriva abbandonata. Nessuno, però, voleva crederle, anzi, nessuno se ne era accorto. La cosa era successa, non avrebbe saputo dire quando, ma, sicuramente, a un certo punto, tutto aveva preso ad andare per il verso sbagliato.
La vita, da un momento all’altro, era andata sottosopra, e non capiva perché. I giorni definitivamente andati sembravano l’unico appiglio per risalire. La sua casa era sempre stata allegra. Soprattutto il pomeriggio, era stato un continuo andare e venire di persone, di parole, di fatti. La mattina tutti a scuola, perché don Pietro ci aveva sempre tenuto, ma, per il resto, bisognava lavorare ché il pane non si trova in terra. E tutti i figli, il pomeriggio, avevano sempre fatto la loro parte, nel negozio di tessuti al pian terreno che era tutt’uno con la casa. La vita era stata vera, piena. Il mondo girava e lei poteva guardarlo muoversi dal centro.
Matilde era la prima figlia, la preferita di don Pietro. Sempre dolce, sempre ubbidiente. Faceva ogni cosa come gliela si chiedeva, senza ma, senza però. Occhi aveva solo per il padre, affettuosi e premurosi, come con nessun altro. Che orgoglio per don Pietro quella figlia assennata, educata e volenterosa! Matilde pareva vivere per lui solo. Sentiva tutto quello che lui desiderava. Lo desiderava prima di lui, per lui. Don Pietro aveva voluto, per il negozio, una sartoria per bene, che si dicesse in giro fino alla città. Perché è così che il cliente si affeziona: quando è trattato col sorriso e può comprare dove tutta la gente vorrebbe comprare. E questo lo diceva a cena, tutte le sere, che i figli erano ancora piccoli: Matilde se lo ricordava. Così come si ricordava che lei s’era messa lì, sul banco, sino a sera tardi per diventare brava, brava brava, come desiderava il padre. E c’era riuscita. Lavorava bene, di fino, e la gente parlava del loro negozio. I clienti venivano a decine dalla città al paese per l’abito buono, e spendevano senza tante storie. Perché, quando la merce è buona ed il lavoro pure, è inutile stare a tirare, si sa. C’era l’orgoglio di dire: la toletta a mia figlia l’ho fatta da don Pietro!
Quella casa era sempre stata felice. Matilde, in quel mondo, aveva il suo posto, il posto che il destino le aveva assegnato. Sapeva che cosa in quel posto le si chiedeva di fare, e lei lo faceva che nessuno poteva avere mai da ridire. Il cuore aveva sentito sempre sereno e le cose giravano come dovevano girare.
Fino a quel giorno a pranzo in cui il padre, lisciandosi un baffo e senza sorriso aveva detto che c’era un giovane medico in paese, una brava persona. Aveva notato Matilde quel giovane e con molto garbo era venuto a presentarsi in negozio. Aveva detto di essere solo al mondo che i suoi, purtroppo, erano prematuramente mancati, quasi insieme, dopo una vita di sacrifici per farlo studiare. Era solo, ma serio, con una professione avviata, e sperava, al più presto di sistemarsi all’ospedale in città. Avrebbe offerto a Matilde tutto il suo cuore, sempreché don Pietro non la vedesse altrimenti. Era solo e per questo si presentava a don Pietro con l’animo d’un figlio, chiedendo di potere frequentare la casa. Matilde aveva provato una pungente ferita, confusa come il bruciore di uno schiaffo che non si è visto arrivare. Sapeva di offesa senza senso che non avrebbe mai potuto essere riparata. Aveva fissato il padre negli occhi, a lungo, come sempre. Ma lo sguardo di Matilde aveva tremato e, per la prima volta, aveva cercato la madre. Gli occhi della madre, però, non avevano saputo rispondere. Matilde, quella sera, aveva scaricato in pianto la novità della solitudine.
Ma aveva conosciuto quel giovane, un laureato, che veniva dalla città a fare il medico condotto: di buona famiglia, gentile.
Carino era carino, male non si presentava. Matilde, però, non pensava agli uomini, e tutta questa faccenda, veniva ad essere come un pasticcio in cui lei, almeno per il momento, non voleva entrare.
Si vedeva quasi ogni giorno il dottore in negozio, dopo l’ambulatorio. All’inizio veniva a trovare don Pietro. Sì sì, veniva ogni sera per i suoi baffi, diceva la madre. Basta non far parlare la gente, per ora. Si saprà, se va bene. Veniva a fare due chiacchiere con don Pietro, ma don Pietro doveva seguire i clienti e pian piano il dottore, tutte le volte, finiva nel retrobottega a salutare Matilde. Che saluti lunghi che fa ‘sto dottore, diceva la sera la madre a don Pietro, ma non che non fosse contenta. Voleva, in quel modo, sentire il marito, come vedeva la cosa procedere.
Matilde rispondeva garbata a quel morbido viso che s’intrufolava cortese in mezzo al lavoro, quel faccino rotondo, da città, ben rasato, un po’ pallido, con gli occhialetti sottili. All'inizio si era detta, in segreto: se non voglio, non voglio, io resto al mio posto, lascerò che si stanchi. Il gioco, in fondo, era nuovo e lei lo aveva preso così. Un passatempo diverso, nei giorni che andavano come prima, con qualcosa in più che, tutto sommato, non dava fastidio. Ma già dopo un paio di settimane lei il dottore, ad una certa ora, lo aspettava e, se non veniva, non era lo stesso. Nell’intimo si domandava cosa poteva essere successo, si diceva che avrebbe tardato ma che poi sarebbe comunque venuto, però avrebbe pure potuto avvertire, e se fosse successo qualcosa, qualcosa di brutto? Forse lei doveva interessarsi, vedere di sapere. Ma così avrebbe dichiarato un interesse che non c’era e non doveva esserci, una preoccupazione che non le spettava.
L’abitudine aveva lavorato a tradimento. Si era affezionata a quel suo nuovo compagno che raccontava di cose che lei non capiva: le questioni internazionali; gli equilibri; il pericolo del mondo moderno; la guerra fredda; i comunisti; le ottuse forze della reazione…
Ma che parole erano? Parole simili si erano sentite soltanto alla televisione. Ma il dottore non era nella televisione, era lì, accanto a lei e parlava a quel modo. Matilde stava in silenzio, le parole andavano, come passavano i telegiornali della sera, ma lasciavano il piacere della loro nuova presenza che le riempiva la vita anche di altro, e le pareva già molto più del normale, di quello che lei aveva normalmente sperato: in verità, Matilde non aveva mai desiderato niente, se non la prosperità della casa.
- Oh, buona sera, signorina Matilde.
- Buona sera a voi, signor dottore.
E il dottore si sedeva su un seggiolone, che, ormai, era diventato il suo seggiolone, sollevava lentamente una gamba e la metteva a cavalcioni, sistemava su per il naso l'esile montatura degli occhialetti, ed accendeva una sigaretta.
Matilde lavorava e lo spiava.
Il dottore svolgeva il giornale, che portava arrotolato in tasca e, dopo una scorsa agli articoli già letti al mattino, prendeva a commentare le notizie di rilievo.
Matilde si era appassionata a questo gioco in cui sentiva parlare di cose sconosciute e di paesi lontani come solo don Pietro, fino a quel momento, pareva essere capace. Aveva cominciato a fare domande, incuriosita dalle cose che, forse, anche il padre conosceva. Ma il dottore non parlava mai della gente, dei commerci, dei campi e delle città. C'erano le forme dei governi, e i padroni, gli sfruttati, i popoli oppressi e i popoli arroganti, le grandi decisioni, le responsabilità storiche, le arretratezze ataviche, il gioco degli equilibri, le potenze, i manovratori, i retaggi culturali. E Matilde giù a domandare, cercando in quei discorsi i paesi inglesi e le città francesi, e i padri e madri e figliuoli americani; le cose, le quotidianità che non capiva dei cinesi; e quei russi, poi, che erano così cattivi, perché al dottore parevano diversi? Era un gioco bello, un altro mondo all’improvviso come in un romanzo, sempre nuovo. E i pomeriggi, zeppi di quei fatti mai sentiti, volavano nell'odore acre della stampa ed il crepitare della carta del giornale; volavano, con le belle mani del dottore che si muovevano come i colombi sopra i tetti, bianche e leggere.
Tutti dicevano che aveva il fidanzato, come fosse una cosa importante. Per Matilde era lo stesso. La sua vita continuava come prima. Che cosa era cambiato? Aveva il fidanzato? Va bene, se volevano chiamarlo così. Sembrava che le sue sorelle si divertissero, ogni tanto, tirando fuori questa storia dell’amore per fare domande sulle quali ridevano e poi si guardavano e si parlavano all’orecchio. Bene, per lei andava bene. Se i suoi erano allegri, anche lei era contenta. In fondo, non c’era un granché di nuovo: la sua vita continuava come prima.
Tutti i giorni, da cinque mesi, Matilde era in negozio anche la mattina. Poteva essere ancora più d’aiuto ora che aveva finito di studiare. Quando don Pietro era in giro per gli affari, con lei stava la madre che appena l’ultimo cliente usciva dalla porta riprendeva a sospirare: “Ah, figlia mia come faremo senza di te. Proprio adesso che le cose cominciavano ad andare così bene. Hai visto quanti nuovi clienti quest’anno? E proprio adesso un pezzo se ne deve andare. Tua sorella con l’ago e il filo non va tanto d’accordo. E’ brava, non voglio dire, quando si mette è capace, ma ci vuole sempre uno che le stia dietro, che lei da sola non si spiccia, si dimentica, non sta accorta. Il pomeriggio, mettiti un po’ di più vicino a lei, dalle i consigli. E’ distratta, è troppo distratta. Deve capire che quando non ci sarai più tu a finire quello che lei s’è scordata e il cliente viene per il giorno della consegna e la roba non è pronta, allora così si perde la clientela e si perde il nome. Queste cose le deve capire, e gliele devi fare capire tu che sei la sorella maggiore, la sorella che da un giorno all’altro non starà più qua a mettere le pezze. Deve sapere fare anche da sola, faglielo capire. Mo’ che te ne vai, come deve fare se non si abitua prima? Che ci dobbiamo mettere gli estranei in casa per non perdere i clienti?”. E Matilde alzava le spalle, perché lei non se ne sarebbe andata, dove doveva andare? Che preoccupazione era, quella? D’accordo, la sorella aveva un po’ la testa fra le nuvole e non era proprio precisa, ma il lavoro, alla fine, lo riguardava sempre lei, e riprendeva quello che c’era da riprendere. Non si era mica mai lamentata! Perché queste storie? Il mondo stava girando, ma lei non si muoveva. Lei non doveva andare da nessuna parte.
Era tornato il freddo dell’inverno, ma già si sentivano le feste di natale. I raccolti erano stati buoni e la gente comprava più dell’anno prima. Lei era sempre lì tra le sue cose che le pareva di non essere mai stata così bene, a posto e utile. Le giornate volavano via e si faceva un mucchio di lavoro che non sembrava, ascoltando i clienti che erano mille storie del paese, mentre la casa prosperava e tutti sorridevano.
Don Pietro entrava, da un po’, tutte le sere nel retrobottega e dava grandi pacche sulle spalle del dottore.
- E allora, ci siamo?
- Beh, dovremmo esserci, don Pietro, a momenti...
- Bene, bene, bene...
Ed il giorno era arrivato: il dottore aveva avuto il posto all'ospedale in città.
Una sera il dottore era rimasto a cena: "Caro dottore", aveva iniziato don Pietro, e si era finiti con "Viva gli sposi!"
La notte Matilde aveva pianto con quella disperazione che, presto, rassegnata, si volge in amarezza.
Sola, senza via di scampo.
Nulla era più come prima: le sue sorelle, la madre, parlavano del matrimonio, e della sposa, e della casa in città che il babbo stava comprando, e dell'arredo cui avrebbe provveduto il dottore. E tutto come sarebbe stato bello!
Pareva tutti parlassero non di lei, ma di qualcun altro.
Il suo silenzio avrebbe voluto, ora, significare qualcosa; ma lei era sempre stata così, taciturna. Le avevano detto che era un po’ troppo seria, chiusa, che avrebbe dovuto lasciarsi un po' andare: manifestare la gioia. Allora, il pianto le aveva offuscato la vista, a tavola, davanti a tutti, ed il singulto rabbioso aveva impedito alle parole di gridarne il senso. L'allegria era lampeggiata negli occhi di don Pietro, e la famiglia aveva festeggiato la felicità espressa in quelle lacrime.
Ma quale felicità? Perché le facevano questo? Le lacrime erano lacrime di rabbia! Perché non capivano? Cosa avrebbe potuto dire, che la cosa era stata già portata così avanti? Non sono cose che si devono dire… Tutti a fare e disfare nella sua vita. Sola, senza via di scampo, Matilde aveva sentito l'anima affondare.
La casa non era più quella, dicevano, senza Matilde. Il negozio, poi: i clienti chiedevano ancora di lei, perché le cuciture, come quelle di Matilde, non se ne erano più viste. E, allora, perché s’era combinato tutto questo pasticcio? Perché suo padre aveva consentito che la prendesse un estraneo? Un uomo che le aveva cambiato la vita senza motivo? Un uomo che le imponeva un mondo diverso, vuoto, fatto di parole difficili con le quali lui parlava, ormai, anche per lei. E nessuno più chiedeva a Matilde, ma tutti al dottore di come stava Matilde, e stavano ad ascoltarlo che parlava di lei. Anche lei ascoltava, e sentiva parlare di una tale Matilde che così, che colà…
La domenica il mondo tornava diverso: si mangiava tutti insieme al paese, ogni domenica. Il dottore, per carità, ci teneva: l'aria pulita, il calore della famiglia, i maccheroni a mano e il pane alto, il vino buono sfuso e generoso, e gli amici al circolo per la giocatina pomeridiana e il caffè per la fumatina e la chiacchieratina tra uomini con la passeggiatina serale per dire che quella, però, anni fa non sembrava, le fa bene l’età, o quell’altra, e che cosa!, girare a quel modo con tutto di fuori! Nessuno chiedeva niente a Matilde, e il dottore parlava, parlava parlava, e don Pietro ogni tanto faceva battute. Anche don Pietro parlava in modo diverso, davanti al dottore. Matilde provava a ricordare se stessa, lontana e distinta da quelli, e si sentiva impazzire.
Il mondo girava e lei non era più ferma, si muoveva con quello, trascinata, correndo a strappi da un lunedì ad un sabato in un'aria smemorata e sempre uguale. La città, raccontata dal padre come una festa di mille colori non c’era. La città di Matilde era un grigio uniforme di tende pesanti sempre spiegate davanti alle finestre ed ai balconi della casa vuota. Una casa senza calore, senza profumi, nuova, umida e spoglia come un cimitero, dove si sentiva trascinare di stanza in stanza, con la testa confusa. In cerca di fare, in mezzo a quei mobili – dice, stile moderno, ma quant’erano brutti! - per non pensare.
Il dottore usciva la mattina che lei ancora dormiva, e la salutava discreto ma con dolcezza. Ma chi è quest'uomo, si chiedeva Matilde al risveglio... Con quelle sue strambe parole da televisione è riuscito a portarmi in un letto né mio né suo, e appena mi sfiora in questa casa da morti. Chi sono io, che cos'è questa vita, cosa sono... perché?
Ma la domenica, ecco che tornava in sé, silenziosa come sempre, a respirare l'odore di casa sua, quella veramente sua, dove era nata, dove sapeva di essere. Andava, dopo pranzo, a riposare in negozio su una seggiola di paglia, nella sartoria. Il profumo dei tessuti... Lì si assopiva, cullata dai radi tonfi provenienti dalla strada assonnata; nel buio, negli odori, nella memoria. Solo che la lasciassero lì, per sempre, altro non chiedeva. E ricordava, per un attimo, la dolcezza delle sere d'estate, quando si cenava un po' più tardi e, dalle finestre aperte, veniva il frinire ottuso ma rassicurante delle cicale. S'alzava da tavola, Matilde, zitta zitta, sul finire della cena, e andava in dispensa a prendere una bottiglia di birra per il babbo. E con che sorriso l'accoglieva don Pietro sulle sue ginocchia; e, lisciandosi i baffi, le diceva poi in un orecchio, come gran segreto: "Adesso, io e la mia bimba, ci beviamo questa bella birra fresca!" Così, vuotava la bottiglietta nel suo bicchiere, e fingeva di fare lo stesso nel bicchiere di Matilde, dove la mamma, invece, aveva già versato dell'acqua col limone.
L'acreoleoso profumo di quei baffi, Matilde, lo sentiva ancora: per un attimo si confondeva con l'odore dei tessuti, e si addormentava.
Ma la domenica finiva e, a sera, tornava a casa con il marito. Nel silenzio e nel buio dell'automobile, la memoria riproponeva ancora le luci della giovinezza. A volte, il dottore interrompeva quei memori silenzi, con un'esclamazione o con un discorso lasciato a mezzo al circolo, ed erano come schiaffi, per Matilde, strappata da sé e riprecipitata accanto a quell'uomo strano che non le aveva mai chiesto niente e che, anzi, sembrava essere perfettamente a suo agio nella pazzia di quel matrimonio.
Tutti, in verità, parevano vivere la sua vita o, per meglio dire, accanto alla sua vita, con naturalezza.
Le settimane, però, diventavano via via più pesanti e lunghe. Il tempo delle sue giornate si dilatava immensamente e, come dagli strappi della continuità troppo tesa, iniziavano a gorgogliare le sue memorie, non più incorniciate nei gelosi pomeriggi delle domeniche.
Ma i ricordi, cambiando luogo, erano soltanto dolorosi rimestamenti dell'essere: allucinazioni angosciose dalle quali trarsi al più presto... ma, per tornare dove?
L'inutilità della casa in cui viveva, quella mobilia perfetta senza calore o odore di famiglia, le dava il gelo alle ginocchia, le ghiacciava le meningi. Matilde correva, di stanza in stanza, in preda ai conati di vomito. Assalita dalle vertigini si precipitava ad abbassare le tapparelle. Non aveva più fiducia delle tende, perché, sicuramente, anche attraverso quelle la vedevano.
Non ne poteva più, Matilde, e voleva stare sola, sola, come non era mai stata. Sempre l'avevano spiata; tutti non avevano fatto altro che questo, senza dirle alcunché, senza mai rivolgerle una parola. Avevano deciso tutto loro, tenendola d'occhio, perché lei, Matilde, avrebbe potuto scappare, se se ne fosse accorta. Ma loro erano stati bravi a prenderla in giro, senza fiatare, con i fatti.
E tutti, tutti lo sapevano; ed ora la tenevano in quello stupido appartamento per ridere di lei con tutto comodo.
Quegli sguardi d'intesa tra suo padre e suo marito, quei sorrisi scambiati di continuo: come aveva potuto non accorgersene, mentre lì, sotto il suo naso, tramavano contro di lei? Che ingenuità era stata la sua...
Ma, ora, apriva gli occhi e vedeva anche i continui tranelli che le preparava il marito, il signor dottore. Ogni mattina, o quasi, le stanze avevano un aspetto diverso: quell'odiato appartamento pareva vivere un'agitata e nera esistenza, fatta di rimescolii notturni, con rombi e schianti improvvisi, che le davano il soprassalto nel sonno.
La mattina dopo, tutto, inevitabilmente, era mutato nell'appartamento: piccoli, quasi impercettibili, spostamenti, ma ogni cosa aveva occupato altri spazi da quelli del giorno prima. A lei parlava la percezione della luce che posava diversa sui tappeti e prendeva altre sfumature nel gioco dei riflessi, proiettava ombre nuove negli angoli, si spegneva non come prima tra le pieghe e i bottoni dello scuro divano. Tutto non era al suo posto, e lo dicevano anche i rumori che cadevano sconcertanti nei rinnovati volumi delle stanze.
Matilde l'aveva detto al marito, ed egli aveva riso: certo che si divertiva! Era quello il suo spasso preferito. E, c'era da scommetterci, tutto il vicinato ne era al corrente: come avrebbe fatto, altrimenti, il signor dottore, con tutti quei rumori nottetempo? Ed ecco, la complicità ripagata dal gusto di poterla spiare, mentre lentamente impazziva in quella casa che, ogni giorno, le veniva resa più estranea. Un mondo sempre uguale, eppure sempre diverso, nel quale la sua mente, senza più orientamento, avrebbe finito per naufragare.
Matilde non nutriva il minimo dubbio. E, poi, era questione di mettere assieme i fatti.
Dall'edificio di fronte, una vecchia, eternamente seduta dietro i vetri di un balconcino ingombro di piante, la teneva d'occhio tutto il giorno. Poco al lato di quel balcone, da una finestra, si affacciava, come ad intervalli regolari, una giovane, ora con la scusa di sbattere uno strofinaccio, ora senza alcuna motivazione apparente. Nel suo edificio, poi, Matilde era circondata: la dirimpettaia, il maestro che abitava di sopra, e la famiglia del De Martinis di sotto. All'inizio non se ne era accorta, ma ora li sentiva, tutti, come si muovevano di stanza in stanza per seguirla nei suoi spostamenti ed ascoltarla: li sentiva, ora, come strisciavano pian piano lungo i muri per posizionarsi meglio; e sentiva anche quando appoggiavano i bicchieri o altri strumenti alle pareti per poterla ascoltare.
Ma Matilde non fiatava più da un bel pezzo, e camminava a piedi nudi leggera leggera. Impazzivano quelli a cercarla. Chiassavano, a volte, soprattutto i De Martinis, perché qualcuno di loro, probabilmente sosteneva Matilde essere in una stanza, qualcun altro in un'altra.
Non si sarebbe arresa, Matilde, a quella tortura; e, anzi, avrebbe torturato a sua volta. Troppo grande era il dolore che le avevano dato, ed assolutamente insopportabile quello che intendevano ancora procurarle.
Matilde reagiva alle violenze subite nella bontà, con una violenza d'animo sempre più cieca, ma sotterranea, strisciante; tanto impetuosa quanto nascosta. Un fiume nero rombava nel suo petto di pietra, un ronzio cupo le invadeva i timpani.
Il dottore era stato il primo ad essere investito dal muro d'odio. Gli occhi di Matilde mutavano di giorno in giorno, ed il suo sguardo diveniva sempre più raccapricciante, come le bocche dell'orrore. "Non c'è nulla", diceva lei, ma, di tanto in tanto, lo fissava come il diavolo, il labbro inferiore prendeva a tremare, poi, quello superiore. Il volto si tendeva in un'espressione di angoscia incontenibile, per schiantare in una risata sguaiata, mostruosamente volgare. Il dottore rabbrividiva muto, e Matilde, con voce strana, senza ritmo: "Fingi di chiederti cosa c'è?... Lo sai bene: 'sta volta non t'è riuscito! Me ne sono accorta!" Il dottore sgranava gli occhi. "So cosa stai pensando", continuava Matilde fiera; oppure: "Ho visto il cenno che hai fatto a quello lì, anche lui sa tutto, eh?". O, ancora: "Vedi quella? Puoi salutarla! E' inutile che fingete di non conoscervi..."
Il dottore non si capacitava di come ciò stesse avvenendo proprio a lui; di come ciò stesse accadendo proprio nella sua vita, ordinata, perfetta. Una vita senza un’ombra. Una vita fatta di assoluta regolarità, quasi un’indiscutibile espressione matematica. Eppure, ad un certo punto, i conti non tornavano più. Saltava tutto. Ci si trovava come in zattera su un torrente in piena. E mentre tutte le energie erano concentrate per evitare le rocce affioranti più pericolose, si tentava pure di recuperare un attimo di lucidità per rifare i calcoli e scoprire dov’era l’errore. C’è sempre un errore quando gli eventi ci vengono contro.
I calcoli erano stati rifatti. L’errore non saltava fuori. Le regole seguite: infallibili! Il dottore non aveva sbagliato alcunché nella sua vita, condotta secondo un rigore morale esemplare, riconosciuto, peraltro, da chiunque. Errori, no! Non ce ne erano. Forse, però, omissioni… Gli si era formata, così, pian piano, l’idea che, magari, senza alcuna coscienza, stava mancando in qualcosa e che, dunque, non v’era errore, bensì un passaggio saltato. Aveva ripercorso e rimuginato ogni istante del suo tormentato matrimonio, e si era accorto che, se la sua condotta risultava ineccepibile, non si era, però, posto il problema della prole. Non si era, cioè, più di tanto domandato come mai non avesse ancora fecondato Matilde. Non aveva avuto, tuttavia, il tempo di pensarci tanto, perché non erano passati molti giorni dalla sua scoperta che Matilde aveva annunciato, con grande solennità, all’intera famiglia domenicale, il lieto evento.
Il dottore aveva accolto la notizia come un colpo energico di ramazza tra i pensieri cupi, ed un’allegria da liceale si era impadronita di lui per un problema che si andava risolvendo con la sana dedizione allo studio e la caparbia applicazione.
Matilde, d’altronde, pareva trasfigurata, offrendo la più concreta dimostrazione della validità dell’assunto da cui tentava, in quei giorni, di ripartire il marito.
Matilde era incinta, radiosa, sorrideva continuando a chiedere a don Pietro: “Sei contento, babbo?”, nel frastuono in cui tutti rispondevano l’ovvia corale felicità.
La gravidanza era serena, ma, considerato che il dottore in casa c’era poco, la famiglia aveva deciso che sarebbe stato più opportuno che Matilde soggiornasse nella casa paterna, dove c’era sempre tanta gente che, all’occorrenza, avrebbe potuto offrire sollievo e, eventualmente, immediato soccorso.
Matilde era tornata a sorridere e, la domenica, quando arrivava il dottore era cara e premurosa, e la giornata di vera festa.
In nove mesi il dottore era tornato lentamente alla vita. Come un animale ferito e spaventato dal predatore, rintanatosi in un buco sottoterra, così aveva reagito all’assurda violenza che si era scaricata in casa sua. Si era ritirato in una solitudine addolorata e, ora che le cose parevano rimettersi al meglio, sentiva però sempre in agguato un pericolo invisibile, intangibile e terribile.
Ma nei nove mesi Matilde era parsa tornata ad un equilibrio che s’infrangeva solo in momenti di prorompente allegria, ed era un piacere pensare che tutto fosse addebitabile ad una sciagurata e scusabile trascuratezza dei doveri coniugali. Non aveva parlato a Matilde dei figli che, ovviamente, si aspettava dal matrimonio. I figli non venivano. Matilde cominciava a soffrirne. Lui non affrontava l’argomento, offrendo la possibilità di congetturare che ne fosse addirittura contento. La sofferenza di Matilde precipitava e, da lì, il dramma.
La natura, però, facendo il suo corso, stava ristabilendo l’ordine e l’armonia.
Era nata una bimba a novembre e, durante una sera gelida e stellata, il dottore aveva riportato a casa la moglie e la nuova vita.
Matilde aveva sofferto per il parto ed era ancora molto debole. Il dottore aveva ordinato la cena al ristorante sotto casa, prestando attenzione alla dieta della puerpera.
Matilde aveva rivisto il grigio edificio dal parabrezza, prima che l’auto si fermasse. Aveva provato un brivido. Quando era entrata in casa aveva annusato un odore freddo. Si era seduta esausta sulla poltrona del soggiorno di fronte al televisore spento e si era vista deformata sul vetro convesso. Il gelo le aveva cinto le ginocchia.
Il dottore sistemava la bambina nella culla e riordinava alla meglio la biancheria di Matilde, svuotando la valigia. Il silenzio ronzava nelle orecchie ed i suoi movimenti tentavano di essere accuratissimi. La meticolosità dei suoi gesti non riusciva ad allontanare l’angoscioso senso di vuoto e di sospensione in cui si sentiva scivolato.
Il citofono aveva trillato. Il commesso del ristorante stava recapitando la cena. Aveva ritirato le guantiere. Davanti all’ombra di Matilde seduta, aveva apparecchiato con cura, scartato lentamente il cibo e lo aveva disposto con una maniacale geometria. Aveva ripiegato la carta dei pacchi e l’aveva riposta con accortezza nella spazzatura. Aveva controllato che la bimba stesse bene. Ora, non potendo più fare altro, aveva alzato lo sguardo nel vetro del televisore.
Se l’angoscia ha un volto il dottore se l’era trovato negli occhi. Si era voltato ed aveva visto le labbra livide, il tremore, gli occhi vuoti ma vivi. “Matilde”, aveva soffiato con quel poco di vita che si sentiva dentro.
“Ti sei divertito!? Ti sei divertito, solo, per nove mesi!? Ed ora che sono di nuovo qua hai voglia di divertirti ancora di più, eh? Ma non te lo permetterò, questa volta. Pensavo che in fondo tu fossi un uomo onesto, che ora, con una bambina, la smettessi. E, invece, no! Neanche davanti ad una creatura innocente sei in grado di fare l’uomo. Già di nuovo con i tuoi giochetti: la casa tutta cambiata, ogni cosa non al suo posto… Anche l’odore è diverso… In casa mia, in casa mia, io dovrei accettare questo stato di cose. Ti sei portato qualcuna qui dentro? Eh? Rispondi! Ti sei portato delle donne? Di’, abbi il coraggio, fai l’uomo! Una volta, nella tua vita, una volta, di’ la verità. Non ti nascondere sempre dietro quest’aria da brav’uomo. Abbi il coraggio di dire a tutti (non a quelli che sono d’accordo con te), a tutto il mondo che cosa sei in grado di fare a tua moglie, tua moglie! Con una bambina, adesso! Mi hai presa in giro, maledetto… Per farmi passare per pazza. Per divertirti e poi liberarti di me. Che tu sia maledetto! Tu questa cena finta… Che cos’è questo, questo è cibo? Tutto finto, tutto finto. Ma questa volta non te la do vinta, ti faccio morire di vergogna, piuttosto. Ti denuncio e faccio sapere a tutta la città quello che sei veramente. Anche mio padre sei riuscito a raggirare. Tutta la mia famiglia…”
Matilde si era alzata dalla poltrona e lentamente, tremando, sollevava le guantiere disposte sulla tavola e ne lasciava scivolare il contenuto in terra e sulla tovaglia. Aveva rovesciato ogni cosa continuando a ripetere: “Ti ribalterò io la vita, se è questo il gioco.”
Il dottore assisteva ad una scena già vista dal suo timore. Aveva temuto di non capire e non aveva capito alcunché, ma questa constatazione, per qualche impenetrabile ragione, gli rendeva ora una certa calma. Assisteva ad una scena già vista e ne era quasi annoiato. Guardava Matilde e seguiva i suoi gesti plateali meccanicamente. Ad un certo punto la testa s’era svuotata del tutto.
Quella sera, il dottore, si era chiuso nella stanza che aveva riservato come suo studio. Aveva regolato le luci in modo da ottenere un chiarore morbido e diffuso. Si era seduto sulla comoda poltrona di pelle alla sua scrivania moderna di cristallo. Con il telecomando aveva attivato l’impianto stereo ed avviato la riproduzione di un cd che sapeva essere già nel lettore. Il pianoforte era partito, ed il dottore aveva disteso ed appoggiato i due avambracci sul cristallo freddo e pulito.
L’armonia e l’eleganza degli oggetti che lo circondavano nella luce color nocciola s’impregnavano di musica. Aveva provato il tintinnio delle unghie ben curate sul cristallo. Si era lasciato andare ancora un po’ sulla poltrona ed aveva gustato il rumoroso abbraccio della pelle ed il suo odore.
L’intera mobilia rispondeva esattamente al suo gusto. La libreria di ciliegio e cristallo con la sua imponente levità, il dorso amico dei libri. I due quadri antichi ben restaurati, ricordo di continuità della sua famiglia. Il divano con bottoni per amici ospiti ed il tavolino pronto per una bottiglia di buon liquore.
Ad un tratto il pianoforte si era imbizzarrito ed aveva trillato come il pianto d’un neonato. Il cuore del dottore aveva avuto un tonfo con un rapido deflusso di sangue verso le membra, accompagnato da un brivido fulmineo. Aveva steso le mani ben curate sul cristallo della scrivania, le aveva guardate, ed aveva provato la certezza angosciante di avere commesso l’azione più stupida sciagurata e grave della sua vita.
donato pistone (23 maggio 2009)
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