giovedì 14 luglio 2022

Nel vuoto


 

Non capivo bene cosa fosse, cosa stesse accadendo. Era come se mi vedessi dall’esterno, come se mi vedessi vivere e fare al di là di uno schermo. Succede alle volte… Eppure ero io in quella sera invernale, come tante altre della mia vita. Ero io a camminare per quella solita via che percorrevo abitualmente per andare da casa mia verso il centro della città e viceversa. Ero io, ed ora stavo tornando verso casa. Almeno, così mi sembrava… Il freddo era particolarmente pungente. Pareva ci fosse anche della nebbia, ora più ora meno densa. Ma il buio era nuovo. Voglio dire, diverso da come usualmente è buio di sera in quel punto della città. Eppure i lampioni erano accesi, ma la loro luce risultava assai fioca. L’asfalto era nero, d’un nero lucido, bagnato. E gli edifici della via si scorgevano a fatica, anzi, non si scorgevano affatto, si indovinavano attraverso il ricordo che serbavo di loro. L’oscurità aveva decisamente un che di straordinario. Anche perché pareva riverberarsi sulla bocca dello stomaco. Sentivo un vuoto pesante dentro, mentre pensavo che avrei dovuto essere sereno, tutto sommato. Ero nella mia esistenza certa, ero nelle mie ore ordinarie, ero tra le vie note della mia città, tutto sommato sempre piuttosto tranquilla. Di norma, la sera era la parte della giornata che adoravo. In special modo godevo la mia passeggiata serale, dopo avere terminato gli obblighi delle ore lavorative. In assoluto, poi, ero innamorato delle mie passeggiate serali d’inverno, quando la gente controvoglia si attarda in strada, e la solitudine si riappropria degli spazi e si distende densa e avvolgente. Ma qualcosa di inaspettato mi gravava dentro, tanto da rendermi il buio, il gelo e la solitudine estranei come mai era accaduto prima. I miei passi risultavano incerti, privi del vigore consueto. Provai a pensare alla giornata lavorativa appena trascorsa – forse era lì l’origine del mio malessere -, ma non ne avevo alcuna memoria… Né – mi pareva – mi riusciva di pensare: nel senso di riportarmi indietro nel tempo col pensiero e ragionare su fatti del passato recente. Niente, ero come svuotato, scavato dolorosamente e del tutto disorientato, con un’eco lontana di qualcosa che arrivava nauseante ed opprimente.

Giunsi all’altezza della mia banca. Ovviamente, era chiusa. Guardai nel buio delle finestre all’altezza della strada, quasi a cercare qualcosa di noto che mi aiutasse ad uscire da quel sordo tormento che mi accompagnava. Ma i vetri specchiati non permettevano alcuna vista: rimandavano soltanto la mia immagine scura e sdoppiata su un vetro nero. Subito dopo ero nello slargo più avanti, delimitato su un lato da un piccolo giardinetto che, finalmente, mi distrasse un po’. Era un giardinetto chiuso tutt’attorno da aiuole inselvatichite, dall’aria impenetrabile e misteriosa per l’abbandono. Si trattava di un giardinetto pubblico che – ricordavo – era sempre stato in quelle condizioni di degrado. Da bambino giravo alla larga: gli adulti dicevano che era un posto pericoloso, ricettacolo di drogati. Io lo evitavo, da sempre, come cosa scontata, e non ne avevo mai avuto la benché minima curiosità. Strano – mi trovai a pensare -, strano che neanche crescendo abbia mai provato interesse a sapere cosa effettivamente ci fosse lì dentro… non avevo mai oltrepassato il limite. Ed ora, quello strano posto dentro la mia memoria, eppure del tutto estraneo a me, mi offriva un minimo di sollievo. Quantomeno per la distrazione momentanea che mi offriva rispetto a quel groppo interiore. Risuonava una campana a morto. La percepii, poi la distinsi chiaramente, ed individuai anche la chiesa da dove il suono probabilmente proveniva. Era una chiesa non lontana, la chiesa della mia infanzia, dove avevo avuto l’abitudine di andare a messa la domenica. Allora, quando era un dovere ineludibile, uno dei tanti che un bambino deve subire. Di quanti doveri mi sono liberato, di quanti ricatti, con fatica, con paura, con dedizione, ma anche con crescente soddisfazione… La campana batteva grave, angosciante, e pareva accentuare quel peso dentro che mi svuotava. Il cielo nero era riempito dal profondo rimbombo cupo che accentuava il senso di estraneità abissale di quell’oscurità. Anche della paura del buio ricordavo. Anche di quella mi ero liberato presto, combattendo i fantasmi dell’irrazionalità, confidando nella mia mente, nella capacità che sentivo crescente di potere mettere in fila i pensieri, saldamente concatenati dagli anelli della coerenza. Avevo coltivato quella potenza, la potenza del pensiero, della razionalità, come la mia più grande scoperta e conquista. La percezione e lo sconcerto dell’autocoscienza: sono questo corpo, queste gambe, questi piedi, queste mani, questa pancia, queste braccia. Sono io, questo sono io e non un altro. Questo sono, questo coso che pensa, che è questo e non altro, che è in questo modo e non altrimenti. La campana batteva ancora la sua lenta nota di morte, continua, ripetitiva, assordante, interminabile. Ogni rintocco stava diventando un boato che esplodeva doloroso contro i timpani. La notte non smetteva di cadermi addosso come una maledizione inesorabile. Ora la via sembrava ancora più buia, stentavo a vedere dove mettevo i piedi. Avevo ben presente che il marciapiedi, in quel punto, era parecchio sconnesso per effetto delle radici dei pini. Dovevo prestare attenzione, ma non mi era possibile per via della quasi totale assenza di luce. Inciampavo di continuo, e così procedevo sempre più lentamente, quasi provando ad ogni passo il passo medesimo, prima di compierlo definitivamente. La cosa si rivelava assai faticosa, tanto che ormai avanzavo ansimando. E seppure la temperatura fosse gelida, la fronte prese ad imperlarsi di sudore che mi ghiacciava le tempie. Sentivo un calore innaturale tutt’attorno al collo che avevo ben coperto da una sciarpa, ed il respiro mi si faceva sempre più stretto ed affannoso. Mi parve di appoggiarmi ad un pino, e così restai fermo per diversi minuti. Ora, il suono della campana era un rombo rauco lontano ma pur sempre possente, quasi avvolgente, o, addirittura interno, interno alle cose. Sembrava vibrarne la terra sotto ai miei piedi. Qualche auto passava indifferente, mentre in fondo, ad una distanza considerevole, il buio era bucato dal giallo stanco ed intermittente di un semaforo, o almeno così pareva. Un cartello era affisso sul tronco di uno di questi pini. No, era un foglio, un semplice foglio di carta formato A4. C’era scritto qualcosa con caratteri rosso scuro. In tutto quel buio quel foglio sembrava avere una luminosità sua propria. Vi lessi di un ragazzo scomparso. Gli amici e la famiglia lo cercavano. Era un ragazzo straniero. Il messaggio era espresso in una lingua incerta, come scritto da persone non italiane, e che, scrivendo, riportano suoni non noti e non bene appresi dalle voci che hanno intorno. Ma quel foglio ben presto non fu più un foglio, ma una luminaria come quelle delle feste dei santi patroni. Nell’oscurità assoluta, quella coreografia luminosa con predominanza di rosso era diventata qualcosa che assomigliava ad una tomba monumentale con una fitta impalcatura di lumini. Quel ragazzo straniero era morto, dunque… quel buco e quel peso interiore cresceva… Quel ragazzo era sparito… ed io sapevo anche come.

Una serata di bagordi, c’ero anch’io, c’erano i miei amici. Eravamo tutti ubriachi e resi cattivi e freddi dal tanto vino. Quel ragazzo straniero era tra noi, pareva felice di esserlo, e noi felici di potere giocare con lui, prenderci gioco di lui, usarlo per sfrenare la cattiveria con cui il gruppo sfama la propria brama di identità. Lui tentava di entrare nelle nostre grazie con prove di tenacia e di coraggio. Si offriva come vittima sacrificale alla nostra ebbra e cinica attenzione. Il suo fisico magro e giovane, quasi femmineo, modellato da linee fresche e sinuose generava piacere nel vederlo arrampicare su un muro, alto almeno cinque metri, per posizionarsi in verticale rovesciata e restare così per interminabili minuti. E noi sotto, pieni di alcol, a scommettere su cosa si sarebbe rotto cadendo, e noi sotto, invasati, a tirargli sassi sempre più grandi per vederlo precipitare. E noi sotto, alla fine, sedotti e delusi dalla sua grande agilità, con cui aveva saputo, dritto sulle mani, evitare i colpi peggiori. E noi sotto, rabbiosi, ad aspettare che scendesse da quel muro per farla finita davvero. Era un grande lui, ed era anche bello! Ma non era dei nostri, e doveva servire per svuotare quella nostra maledetta noia, per dare corpo alla nostra volontà esplosiva… E, poi, ad un tratto, l’idea era venuta a qualcuno… Se hai fegato devi mettere la testa in quel cappio lì, quel filo elettrico che pende aggrovigliato da quel palo della luce… Vediamo quanto sei in grado di resistere, poi ti tiriamo giù… Pare ci vogliano diversi minuti per crepare impiccati, non è mica una cosa immediata… Tu quanto resisteresti? Di’! Oppure te la fai sotto di fronte a una cosa del genere? Dai, facci vedere… I piedi te li lasciamo liberi, così, magari, riesci a tenerti su agganciandoli al palo… Certo, ci vuole abilità… Ce la fai? E prova, su! Ora ci stai facendo incazzare: fallo e basta!

Era elegante mentre si arrampicava sul quel palo. Nel giro di pochi istanti era già a due metri da terra, e non si fermava, come non facesse alcuna fatica. Ed in pochi attimi fu al vertice, dove il palo piegava ad angolo retto per proseguire per un paio di metri fino alla plafoniera spenta, forse fulminata, sospesa sulla strada. A metà di quel braccio pendeva quel filo elettrico, aggrovigliato ed annodato già in perfetta forma di cappio. Ora, doveva arrivarci, metterci la testa dentro, e lasciarsi andare a peso morto nel vuoto, con i piedi che sarebbero stati ad almeno tre metri da terra. Eravamo tutti cogli occhi su di lui, ma lui non si muoveva più, a cavalcioni a quella altezza lui guardava verso di noi. Non rideva più, e non era neanche serio. Sul suo volto non c’era più alcuna espressione. Così, immobile, ci guardava. Intollerabile… Qualcuno cominciò a gridare che facesse quel che doveva fare. Tutti inveivamo in un modo o in altro. Ma lui era sempre lì, fermo ed inespressivo che ci guardava. Guardava tutti con uno sguardo vuoto. Non c’era sfida, ma noi ci sentivamo sfidati e la furia montava in tutti, mentre si continuava a bere. Ma, lì su, lui era irraggiungibile. Nessuno di noi sarebbe stato capace di andare a prenderlo per tirarlo giù. Quindi, ben presto, fu dimenticato nella baldoria di qualcosa d’altro. Finché qualcuno, saltando come un diavolo, non gridò di guardare in alto. Lui ora era appeso, impiccato a quel filo elettrico, e si dimenava. Non c’era più alcuna eleganza. Scalciava nell’aria scomposto, mentre le braccia si allungavano inutilmente verso l’alto troppo lontane, ormai, dal braccio della plafoniera. Poi le mani si afferravano all’esile filo elettrico, su cui non riuscivano ad avere presa… Furono attimi si silenzio… Poi qualcuno disse che ora sì, ora il gioco era fatto! Chissà per quanto scalcerà ancora… Minuti ci vogliono… Molti minuti, mica pochi… Ce ne vuole per morire… non è cosa veloce… Ora l’alcol girava più forte: erano bottiglie di vodka a passare di bocca in bocca. E gli sguardi erano occhi infuocati che bruciavano nel buio della notte, nel buio di quel lampione spento da cui pendeva un ragazzo, da cui pendeva una vita alla prova della sua resistenza, alla conta della sua durata… Nessuno diceva più niente, quasi nessuno più respirava. Nel silenzio, solo gli stridii e gli strappi di quel filo elettrico tirato da un peso ribelle. Quel peso che ancora, a tratti, scalciava. Il silenzio era dentro ad ognuno di noi, quando quell’ombra sospesa nel buio ebbe un ultimo scatto violento e precipitò al suolo. Lui era lì disteso sulla schiena, sotto il lampione spento, in una posa del tutto innaturale, sangue che allargava una chiazza sotto la testa. Respirava? Boh, chissà… Qualcuno vomitò… Ricordo il rumore del rigurgito, prima di tutto, come un ruggito breve. Tutti eravamo a non più di un metro, ma nessuno si avvicinava di più. Pace all’anima sua, disse qualcuno. Ma, ormai, la sbornia pesante era solo tristezza, una tristezza assoluta ed angosciata. Il silenzio era ovunque, ed ovunque solo sussurri di terrore. Qualcuno piangeva torcendosi le mani in uno stato di violenta incoscienza. Bisognava fare sparire quel corpo. Il boschetto inselvatichito lì di fianco era il posto giusto, pieno di rifiuti d’ogni sorta e, addirittura, di carcasse di auto. Scavammo una buca… Lo gettammo lì dentro… ricoprimmo… Bisognava occultare quel gioco con la morte, ma la morte era penetrata atroce dentro ognuno di noi.

 

Non capisco bene cos’è. Dove sono? Mi sto svegliando… Dio, che angoscia, che magone… Mi sembra di avere gridato… forse a lungo. Gola secca. Provo a deglutire, una, due volte. Alla terza, un po’ di saliva mi dà finalmente un minimo di sollievo. Non so se ho gridato, ma certo sono sudato, molto sudato. Mi ritrovo avviluppato nel lenzuolo, stretto come in una camicia di forza. Devo essermi agitato parecchio. Riesco a ridistendere il lenzuolo ed a spiegarlo bene sopra di me, prendendo la posizione supina. C’è luce nella stanza. E’ giorno, dunque. Ora il sudore mi si ghiaccia addosso. Mi sistemo ben bene, tutto sotto le coperte. Ho i brividi, e pian piano mi ridesto completamente. Ho il dolore della morte dentro, il dolore della colpa, il tormento della violenza contro la carne viva, l’orrore del disumano. Le orecchie sono inondate da un ronzio sordo. Non riesco a capire da cosa sto riemergendo, in che cosa sto riemergendo, con quel carico addosso di lordura rovente ed asfissiante. Tento di respirare a fondo, prolungo l’immissione d’aria fresca nei polmoni che mi sembra di dovere dilatare, che sento rattrappiti, ripiegati e compressi dentro la cassa toracica. I battiti cardiaci sono veloci, furiosi, pestano nelle tempie… E’ stato un sogno, un sogno, solo un sogno, un incubo travolgente. Vivo, vero, però, vissuto con tutto il corpo e la mente. Un incubo potente, ma solo un incubo. Una creazione della mente, vera come è vero il giorno. La gola è di nuovo arsa e stento a mettere insieme un po’ di saliva per bagnarla. Sono spossato… Vorrei riassopirmi, rilassare il corpo che freme di strazio, ma il pensiero di ripiombare in quel mare nero di immagini allucinate mi desta ancora di più. Devo riportare in vita quelle immagini, devo evocarle per potermene liberare. Devo riesumare il sogno, perché smetta di riflettere i suoi effetti sulla veglia. Cosa ho sognato? Vedo gli occhi, quegli occhi… No! Non sono gli occhi di lui. Gli occhi, quegli occhi, sono gli occhi di lei! Gli occhi disorientati e sconcertati dell’amore che accoglie tutto, dell’amore che assorbe l’ingiuria. Gli occhi che guardano increduli la felicità che si disfa nella follia della violenza. Gli occhi che ancora sanno illuminare ciò che è spento. E’ la mia furia cieca che guarda quegli occhi, e colpisce. Colpisce quel corpo bellissimo, delicatissimo e profumato. E colpisce ancora, per tornare a fissare quegli occhi sbarrati e dolcissimi, quelle labbra che dicono solo, morbide e piano, “no”. Solo “no” sussurrano, come a negare qualcosa che è impossibile capire, impossibile spiegare.

La sera prima era successo questo… Ed ora il disgusto mi devasta. Lo so, c’era una ragione ieri sera, avevo le mie ragioni: non sono un matto che picchia la propria donna senza motivo… Sì, ma il disgusto resta intatto a divorarmi dentro, a sentire sulla mia carne il dolore della sua carne violata, a risentire ogni colpo come la massima ingiuria verso ogni donna e verso ogni uomo… Lei era tornata a torturami, è vero. Ingenerando in me quel senso di oppressione che è pure una violenza ingiusta ed insopportabile… Ma quegli occhi ora sono per me un pozzo di tristezza, come un precipizio dal quale non potrò più tirarmi fuori. Lei mi aveva torturato come sapeva fare solo lei: con frasi ossessive… tornando sugli stessi argomenti, mille volte affrontati e sviscerati… ripetendo frasi fastidiose… ferendo la mia serenità serale… e, soprattutto, mettendo in scena una donna diversa, odiosa, meschina, volgare… Una donna che distruggeva in un attimo la nostra felicità, e che calpestava le mie attenzioni, la mia devozione e i miei sentimenti. Ma io, dovevo pur sapere perché. Sarebbe stato facile per me spiegare quel comportamento. Ma capita più facilmente di ribellarsi, quando il brutto viene da chi si ama. E dopo averla pregata di farla finita, una, due, tre, quattro, cinque volte, la belva era montata ed aveva scatenato la sua stupida furia. Fino a quando quegli occhi, i suoi occhi, insieme sconcertati e pieni di amore e di paura e di dolcezza e di calore, non mi risucchiarono divorando quella ferocia e trasformandola in amaro, doloroso e grave rimorso. Ed ora sono qua, con tutto questo addosso che non può essere spazzato via come un sogno. Sono qua, con l’amarezza che mi mangia il cuore, nella desolazione dell’irrimediabile, circondato dal deserto che residua da ogni violenza. Chiuso nello schifo di me, di quel che posso essere: precipitato nel buio profondo della follia che nascondiamo in noi. Se questo è stato possibile una volta, resta vero per sempre. E’ stato, questo è il punto, e se è stato, è e sarà.

donato pistone

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