Non capivo bene cosa fosse, cosa stesse accadendo. Era
come se mi vedessi dall’esterno, come se mi vedessi vivere e fare al di là di
uno schermo. Succede alle volte… Eppure ero io in quella sera invernale, come
tante altre della mia vita. Ero io a camminare per quella solita via che
percorrevo abitualmente per andare da casa mia verso il centro della città e
viceversa. Ero io, ed ora stavo tornando verso casa. Almeno, così mi sembrava…
Il freddo era particolarmente pungente. Pareva ci fosse anche della nebbia, ora
più ora meno densa. Ma il buio era nuovo. Voglio dire, diverso da come
usualmente è buio di sera in quel punto della città. Eppure i lampioni erano
accesi, ma la loro luce risultava assai fioca. L’asfalto era nero, d’un nero
lucido, bagnato. E gli edifici della via si scorgevano a fatica, anzi, non si
scorgevano affatto, si indovinavano attraverso il ricordo che serbavo di loro.
L’oscurità aveva decisamente un che di straordinario. Anche perché pareva
riverberarsi sulla bocca dello stomaco. Sentivo un vuoto pesante dentro, mentre
pensavo che avrei dovuto essere sereno, tutto sommato. Ero nella mia esistenza
certa, ero nelle mie ore ordinarie, ero tra le vie note della mia città, tutto
sommato sempre piuttosto tranquilla. Di norma, la sera era la parte della
giornata che adoravo. In special modo godevo la mia passeggiata serale, dopo
avere terminato gli obblighi delle ore lavorative. In assoluto, poi, ero
innamorato delle mie passeggiate serali d’inverno, quando la gente controvoglia
si attarda in strada, e la solitudine si riappropria degli spazi e si distende
densa e avvolgente. Ma qualcosa di inaspettato mi gravava dentro, tanto da
rendermi il buio, il gelo e la solitudine estranei come mai era accaduto prima.
I miei passi risultavano incerti, privi del vigore consueto. Provai a pensare
alla giornata lavorativa appena trascorsa – forse era lì l’origine del mio
malessere -, ma non ne avevo alcuna memoria… Né – mi pareva – mi riusciva di
pensare: nel senso di riportarmi indietro nel tempo col pensiero e ragionare su
fatti del passato recente. Niente, ero come svuotato, scavato dolorosamente e
del tutto disorientato, con un’eco lontana di qualcosa che arrivava nauseante
ed opprimente.
Giunsi all’altezza della mia banca. Ovviamente, era
chiusa. Guardai nel buio delle finestre all’altezza della strada, quasi a cercare
qualcosa di noto che mi aiutasse ad uscire da quel sordo tormento che mi
accompagnava. Ma i vetri specchiati non permettevano alcuna vista: rimandavano
soltanto la mia immagine scura e sdoppiata su un vetro nero. Subito dopo ero
nello slargo più avanti, delimitato su un lato da un piccolo giardinetto che,
finalmente, mi distrasse un po’. Era un giardinetto chiuso tutt’attorno da
aiuole inselvatichite, dall’aria impenetrabile e misteriosa per l’abbandono. Si
trattava di un giardinetto pubblico che – ricordavo – era sempre stato in
quelle condizioni di degrado. Da bambino giravo alla larga: gli adulti dicevano
che era un posto pericoloso, ricettacolo di drogati. Io lo evitavo, da sempre,
come cosa scontata, e non ne avevo mai avuto la benché minima curiosità. Strano
– mi trovai a pensare -, strano che neanche crescendo abbia mai provato
interesse a sapere cosa effettivamente ci fosse lì dentro… non avevo mai
oltrepassato il limite. Ed ora, quello strano posto dentro la mia memoria,
eppure del tutto estraneo a me, mi offriva un minimo di sollievo. Quantomeno
per la distrazione momentanea che mi offriva rispetto a quel groppo interiore.
Risuonava una campana a morto. La percepii, poi la distinsi chiaramente, ed
individuai anche la chiesa da dove il suono probabilmente proveniva. Era una
chiesa non lontana, la chiesa della mia infanzia, dove avevo avuto l’abitudine
di andare a messa la domenica. Allora, quando era un dovere ineludibile, uno
dei tanti che un bambino deve subire. Di quanti doveri mi sono liberato, di
quanti ricatti, con fatica, con paura, con dedizione, ma anche con crescente
soddisfazione… La campana batteva grave, angosciante, e pareva accentuare quel
peso dentro che mi svuotava. Il cielo nero era riempito dal profondo rimbombo
cupo che accentuava il senso di estraneità abissale di quell’oscurità. Anche
della paura del buio ricordavo. Anche di quella mi ero liberato presto,
combattendo i fantasmi dell’irrazionalità, confidando nella mia mente, nella
capacità che sentivo crescente di potere mettere in fila i pensieri, saldamente
concatenati dagli anelli della coerenza. Avevo coltivato quella potenza, la
potenza del pensiero, della razionalità, come la mia più grande scoperta e
conquista. La percezione e lo sconcerto dell’autocoscienza: sono questo corpo,
queste gambe, questi piedi, queste mani, questa pancia, queste braccia. Sono
io, questo sono io e non un altro. Questo sono, questo coso che pensa, che è
questo e non altro, che è in questo modo e non altrimenti. La campana batteva
ancora la sua lenta nota di morte, continua, ripetitiva, assordante,
interminabile. Ogni rintocco stava diventando un boato che esplodeva doloroso contro
i timpani. La notte non smetteva di cadermi addosso come una maledizione
inesorabile. Ora la via sembrava ancora più buia, stentavo a vedere dove
mettevo i piedi. Avevo ben presente che il marciapiedi, in quel punto, era
parecchio sconnesso per effetto delle radici dei pini. Dovevo prestare
attenzione, ma non mi era possibile per via della quasi totale assenza di luce.
Inciampavo di continuo, e così procedevo sempre più lentamente, quasi provando
ad ogni passo il passo medesimo, prima di compierlo definitivamente. La cosa si
rivelava assai faticosa, tanto che ormai avanzavo ansimando. E seppure la
temperatura fosse gelida, la fronte prese ad imperlarsi di sudore che mi
ghiacciava le tempie. Sentivo un calore innaturale tutt’attorno al collo che
avevo ben coperto da una sciarpa, ed il respiro mi si faceva sempre più stretto
ed affannoso. Mi parve di appoggiarmi ad un pino, e così restai fermo per
diversi minuti. Ora, il suono della campana era un rombo rauco lontano ma pur
sempre possente, quasi avvolgente, o, addirittura interno, interno alle cose.
Sembrava vibrarne la terra sotto ai miei piedi. Qualche auto passava
indifferente, mentre in fondo, ad una distanza considerevole, il buio era
bucato dal giallo stanco ed intermittente di un semaforo, o almeno così pareva.
Un cartello era affisso sul tronco di uno di questi pini. No, era un foglio, un
semplice foglio di carta formato A4. C’era scritto qualcosa con caratteri rosso
scuro. In tutto quel buio quel foglio sembrava avere una luminosità sua
propria. Vi lessi di un ragazzo scomparso. Gli amici e la famiglia lo
cercavano. Era un ragazzo straniero. Il messaggio era espresso in una lingua
incerta, come scritto da persone non italiane, e che, scrivendo, riportano
suoni non noti e non bene appresi dalle voci che hanno intorno. Ma quel foglio
ben presto non fu più un foglio, ma una luminaria come quelle delle feste dei
santi patroni. Nell’oscurità assoluta, quella coreografia luminosa con
predominanza di rosso era diventata qualcosa che assomigliava ad una tomba
monumentale con una fitta impalcatura di lumini. Quel ragazzo straniero era
morto, dunque… quel buco e quel peso interiore cresceva… Quel ragazzo era
sparito… ed io sapevo anche come.
Una serata di bagordi, c’ero anch’io, c’erano i miei
amici. Eravamo tutti ubriachi e resi cattivi e freddi dal tanto vino. Quel
ragazzo straniero era tra noi, pareva felice di esserlo, e noi felici di potere
giocare con lui, prenderci gioco di lui, usarlo per sfrenare la cattiveria con
cui il gruppo sfama la propria brama di identità. Lui tentava di entrare nelle
nostre grazie con prove di tenacia e di coraggio. Si offriva come vittima
sacrificale alla nostra ebbra e cinica attenzione. Il suo fisico magro e
giovane, quasi femmineo, modellato da linee fresche e sinuose generava piacere
nel vederlo arrampicare su un muro, alto almeno cinque metri, per posizionarsi
in verticale rovesciata e restare così per interminabili minuti. E noi sotto,
pieni di alcol, a scommettere su cosa si sarebbe rotto cadendo, e noi sotto,
invasati, a tirargli sassi sempre più grandi per vederlo precipitare. E noi
sotto, alla fine, sedotti e delusi dalla sua grande agilità, con cui aveva
saputo, dritto sulle mani, evitare i colpi peggiori. E noi sotto, rabbiosi, ad
aspettare che scendesse da quel muro per farla finita davvero. Era un grande
lui, ed era anche bello! Ma non era dei nostri, e doveva servire per svuotare
quella nostra maledetta noia, per dare corpo alla nostra volontà esplosiva… E,
poi, ad un tratto, l’idea era venuta a qualcuno… Se hai fegato devi mettere la
testa in quel cappio lì, quel filo elettrico che pende aggrovigliato da quel
palo della luce… Vediamo quanto sei in grado di resistere, poi ti tiriamo giù…
Pare ci vogliano diversi minuti per crepare impiccati, non è mica una cosa
immediata… Tu quanto resisteresti? Di’! Oppure te la fai sotto di fronte a una
cosa del genere? Dai, facci vedere… I piedi te li lasciamo liberi, così,
magari, riesci a tenerti su agganciandoli al palo… Certo, ci vuole abilità… Ce
la fai? E prova, su! Ora ci stai facendo incazzare: fallo e basta!
Era elegante mentre si arrampicava sul quel palo.
Nel giro di pochi istanti era già a due metri da terra, e non si fermava, come
non facesse alcuna fatica. Ed in pochi attimi fu al vertice, dove il palo
piegava ad angolo retto per proseguire per un paio di metri fino alla
plafoniera spenta, forse fulminata, sospesa sulla strada. A metà di quel
braccio pendeva quel filo elettrico, aggrovigliato ed annodato già in perfetta
forma di cappio. Ora, doveva arrivarci, metterci la testa dentro, e lasciarsi
andare a peso morto nel vuoto, con i piedi che sarebbero stati ad almeno tre
metri da terra. Eravamo tutti cogli occhi su di lui, ma lui non si muoveva più,
a cavalcioni a quella altezza lui guardava verso di noi. Non rideva più, e non
era neanche serio. Sul suo volto non c’era più alcuna espressione. Così,
immobile, ci guardava. Intollerabile… Qualcuno cominciò a gridare che facesse
quel che doveva fare. Tutti inveivamo in un modo o in altro. Ma lui era sempre
lì, fermo ed inespressivo che ci guardava. Guardava tutti con uno sguardo
vuoto. Non c’era sfida, ma noi ci sentivamo sfidati e la furia montava in
tutti, mentre si continuava a bere. Ma, lì su, lui era irraggiungibile. Nessuno
di noi sarebbe stato capace di andare a prenderlo per tirarlo giù. Quindi, ben
presto, fu dimenticato nella baldoria di qualcosa d’altro. Finché qualcuno,
saltando come un diavolo, non gridò di guardare in alto. Lui ora era appeso,
impiccato a quel filo elettrico, e si dimenava. Non c’era più alcuna eleganza.
Scalciava nell’aria scomposto, mentre le braccia si allungavano inutilmente
verso l’alto troppo lontane, ormai, dal braccio della plafoniera. Poi le mani
si afferravano all’esile filo elettrico, su cui non riuscivano ad avere presa…
Furono attimi si silenzio… Poi qualcuno disse che ora sì, ora il gioco era
fatto! Chissà per quanto scalcerà ancora… Minuti ci vogliono… Molti minuti,
mica pochi… Ce ne vuole per morire… non è cosa veloce… Ora l’alcol girava più
forte: erano bottiglie di vodka a passare di bocca in bocca. E gli sguardi
erano occhi infuocati che bruciavano nel buio della notte, nel buio di quel
lampione spento da cui pendeva un ragazzo, da cui pendeva una vita alla prova
della sua resistenza, alla conta della sua durata… Nessuno diceva più niente,
quasi nessuno più respirava. Nel silenzio, solo gli stridii e gli strappi di
quel filo elettrico tirato da un peso ribelle. Quel peso che ancora, a tratti,
scalciava. Il silenzio era dentro ad ognuno di noi, quando quell’ombra sospesa
nel buio ebbe un ultimo scatto violento e precipitò al suolo. Lui era lì
disteso sulla schiena, sotto il lampione spento, in una posa del tutto
innaturale, sangue che allargava una chiazza sotto la testa. Respirava? Boh,
chissà… Qualcuno vomitò… Ricordo il rumore del rigurgito, prima di tutto, come
un ruggito breve. Tutti eravamo a non più di un metro, ma nessuno si avvicinava
di più. Pace all’anima sua, disse qualcuno. Ma, ormai, la sbornia pesante era
solo tristezza, una tristezza assoluta ed angosciata. Il silenzio era ovunque,
ed ovunque solo sussurri di terrore. Qualcuno piangeva torcendosi le mani in
uno stato di violenta incoscienza. Bisognava fare sparire quel corpo. Il boschetto
inselvatichito lì di fianco era il posto giusto, pieno di rifiuti d’ogni sorta
e, addirittura, di carcasse di auto. Scavammo una buca… Lo gettammo lì dentro…
ricoprimmo… Bisognava occultare quel gioco con la morte, ma la morte era
penetrata atroce dentro ognuno di noi.
Non capisco bene cos’è. Dove sono? Mi sto svegliando…
Dio, che angoscia, che magone… Mi sembra di avere gridato… forse a lungo. Gola
secca. Provo a deglutire, una, due volte. Alla terza, un po’ di saliva mi dà
finalmente un minimo di sollievo. Non so se ho gridato, ma certo sono sudato,
molto sudato. Mi ritrovo avviluppato nel lenzuolo, stretto come in una camicia
di forza. Devo essermi agitato parecchio. Riesco a ridistendere il lenzuolo ed
a spiegarlo bene sopra di me, prendendo la posizione supina. C’è luce nella
stanza. E’ giorno, dunque. Ora il sudore mi si ghiaccia addosso. Mi sistemo ben
bene, tutto sotto le coperte. Ho i brividi, e pian piano mi ridesto
completamente. Ho il dolore della morte dentro, il dolore della colpa, il
tormento della violenza contro la carne viva, l’orrore del disumano. Le
orecchie sono inondate da un ronzio sordo. Non riesco a capire da cosa sto
riemergendo, in che cosa sto riemergendo, con quel carico addosso di lordura
rovente ed asfissiante. Tento di respirare a fondo, prolungo l’immissione
d’aria fresca nei polmoni che mi sembra di dovere dilatare, che sento
rattrappiti, ripiegati e compressi dentro la cassa toracica. I battiti cardiaci
sono veloci, furiosi, pestano nelle tempie… E’ stato un sogno, un sogno, solo
un sogno, un incubo travolgente. Vivo, vero, però, vissuto con tutto il corpo e
la mente. Un incubo potente, ma solo un incubo. Una creazione della mente, vera
come è vero il giorno. La gola è di nuovo arsa e stento a mettere insieme un
po’ di saliva per bagnarla. Sono spossato… Vorrei riassopirmi, rilassare il
corpo che freme di strazio, ma il pensiero di ripiombare in quel mare nero di immagini
allucinate mi desta ancora di più. Devo riportare in vita quelle immagini, devo
evocarle per potermene liberare. Devo riesumare il sogno, perché smetta di
riflettere i suoi effetti sulla veglia. Cosa ho sognato? Vedo gli occhi, quegli
occhi… No! Non sono gli occhi di lui. Gli occhi, quegli occhi, sono gli occhi
di lei! Gli occhi disorientati e sconcertati dell’amore che accoglie tutto,
dell’amore che assorbe l’ingiuria. Gli occhi che guardano increduli la felicità
che si disfa nella follia della violenza. Gli occhi che ancora sanno illuminare
ciò che è spento. E’ la mia furia cieca che guarda quegli occhi, e colpisce.
Colpisce quel corpo bellissimo, delicatissimo e profumato. E colpisce ancora,
per tornare a fissare quegli occhi sbarrati e dolcissimi, quelle labbra che
dicono solo, morbide e piano, “no”. Solo “no” sussurrano, come a negare
qualcosa che è impossibile capire, impossibile spiegare.
La sera prima era successo questo… Ed ora il
disgusto mi devasta. Lo so, c’era una ragione ieri sera, avevo le mie ragioni:
non sono un matto che picchia la propria donna senza motivo… Sì, ma il disgusto
resta intatto a divorarmi dentro, a sentire sulla mia carne il dolore della sua
carne violata, a risentire ogni colpo come la massima ingiuria verso ogni donna
e verso ogni uomo… Lei era tornata a torturami, è vero. Ingenerando in me quel
senso di oppressione che è pure una violenza ingiusta ed insopportabile… Ma
quegli occhi ora sono per me un pozzo di tristezza, come un precipizio dal
quale non potrò più tirarmi fuori. Lei mi aveva torturato come sapeva fare solo
lei: con frasi ossessive… tornando sugli stessi argomenti, mille volte
affrontati e sviscerati… ripetendo frasi fastidiose… ferendo la mia serenità
serale… e, soprattutto, mettendo in scena una donna diversa, odiosa, meschina,
volgare… Una donna che distruggeva in un attimo la nostra felicità, e che
calpestava le mie attenzioni, la mia devozione e i miei sentimenti. Ma io,
dovevo pur sapere perché. Sarebbe stato facile per me spiegare quel
comportamento. Ma capita più facilmente di ribellarsi, quando il brutto viene
da chi si ama. E dopo averla pregata di farla finita, una, due, tre, quattro,
cinque volte, la belva era montata ed aveva scatenato la sua stupida furia.
Fino a quando quegli occhi, i suoi occhi, insieme sconcertati e pieni di amore
e di paura e di dolcezza e di calore, non mi risucchiarono divorando quella
ferocia e trasformandola in amaro, doloroso e grave rimorso. Ed ora sono qua,
con tutto questo addosso che non può essere spazzato via come un sogno. Sono
qua, con l’amarezza che mi mangia il cuore, nella desolazione
dell’irrimediabile, circondato dal deserto che residua da ogni violenza. Chiuso
nello schifo di me, di quel che posso essere: precipitato nel buio profondo
della follia che nascondiamo in noi. Se questo è stato possibile una volta, resta
vero per sempre. E’ stato, questo è il punto, e se è stato, è e sarà.
donato pistone
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