giovedì 5 settembre 2024

Non chiedere se sono felice

 

Quando camminava Alberto buttava i piedi come se volesse liberarsene. Esattamente come quando ci si vuole sfilare le ciabatte semplicemente tirando dei calci in aria. Le braccia ciondolavano ad un ritmo leggermente più sostenuto del passo. Tutto il tronco molleggiava incurvato sulla pancia.

Era domenica mattina. E proprio a quel modo Alberto, appena uscito dal portone di casa sua, procedeva sul viale dritto e già assolato verso la sua auto parcheggiata, come al solito, sin troppo lontano da casa.

Lavorava come una bestia, Alberto, e la sera, quando rincasava, era sempre troppo tardi: tutti i posteggi migliori erano già occupati. E gli toccava ritornare indietro, verso la periferia, anche di molto, prima di riuscire a trovare un buco per potere finalmente abbandonare l’auto. Quartiere di merda, tutti a non fare un cazzo dalla mattina alla sera, buoni soltanto ad occupare con le loro inutili auto tutti i posteggi: quelli più sicuri, quelli più comodi, quelli più all’ombra d’estate…

Era un giorno di riposo quel giorno, ma Alberto doveva risolvere una questione seria, diventata col tempo sempre più opprimente.

Aveva conosciuto Luana sei mesi prima. Ogni tanto, quando il tempo lo ispirava, la domenica mattina andava al parco: circa un chilometro e mezzo da casa sua. Qui si concedeva un caffè con panna, seduto ai tavolini all’aperto del chioschetto storico. Un lusso! Si sentiva un signore! E se ne stava, con quella tazzina davanti, consumata lentamente, a guardare la gente che si alternava ai tavolini, anche per due ore di fila. In realtà, Alberto non guardava la gente, più esattamente seguiva i movimenti attorno a sé come si percepiscono i movimenti dei rami e delle foglie degli alberi mossi dal vento. Comunque, si sentiva in pace col mondo in quei momenti, perché gli pareva di essere, per una volta, immerso nel mondo della gente con una vita, che godeva il proprio tempo ed il proprio denaro. Almeno in quei momenti, si sentiva qualcosa anche lui. Fuori, per un attimo, dal lavoro lavoro lavoro, per un istante vivo! Poi, tornava a casa, ed era già finita… Nuovamente, la solitudine, casa vuota, fredda, sporca, e solo il pensiero, il solito, per l’indomani di tornare a lavorare.

Per questo, la domenica che aveva conosciuto Luana era stato come uscire da tutto il suo incolore passato, era stato come cominciare finalmente ad essere qualcosa. Quella donna, mentre lui guardava tutto attorno a sé e non vedeva nessuno, si era avvicinata al suo tavolino e lo aveva salutato. Più volte aveva dovuto salutarlo, perché Alberto non poteva aspettarsi che qualcuno si rivolgesse a lui, che qualcuno lo salutasse. Ma, infine, si era accorto di lei, aveva messo a fuoco quel vestito pieno di fiori piccoli su un fondo blu che veniva fuori da un piumino color crema con cerniere molto dorate. Aveva, poi, visto due labbra carnose, rosso fuoco, che sorridevano, e due file di denti grandi. In ultimo si era sentito inondato di luce dai suoi occhi grigi e dai suoi capelli biondissimi. Solo dopo tutto questo aveva percepito il suono di un saluto rivolto a lui, sì, proprio a lui. Un saluto che era insieme una formula di cortesia che si scusava per il disturbo ed un accento straniero, cantilenante, dolcissimo. Alberto non aveva ancora capito nulla, che quella donna era già seduta di fronte a lui e gli rivolgeva domande. Non aspettava risposte quel sorriso: diceva di sé, domandava di lui, proseguiva… In pochi istanti si era presentata (Luana) ed aveva appreso da lui il suo nome (Alberto). Aveva decretato che erano entrambi soli, aveva osservato che la solitudine porta tristezza, aveva stabilito, a vantaggio comune, che avrebbero fatto bene a bere un caffè insieme, aveva ordinato per sé cornetto e cappuccino, constatando che Alberto aveva già davanti a sé la sua tazza con ancora metà panna montata e ancora tutto il caffè.

Come cosa assolutamente naturale, la conversazione era decollata. Alberto, completamente a suo agio, aveva parlato di sé come a se stesso. Aveva quarantacinque anni. Aveva perso i genitori, ormai, da più di dieci anni. Viveva da solo. Non aveva parenti, se non lontani cugini all’estero. Non aveva una donna. Lavorava come una bestia. Per carità, avere un lavoro stabile era già una gran fortuna. E, poi, alla fine il lavoro è tutto. In fondo, lui, sì, era un fortunato. Poteva stare tranquillo: aveva già un discreto gruzzoletto da parte, un’auto potente con ancora pochi chilometri (in fondo, ci andava solo al lavoro), la casa di proprietà, e la casa dei suoi genitori che gli dava un piccolo reddito integrativo (la teneva affittata a certi Moldavi, gente che non dava problemi…).

Luana, ad un certo punto, gli aveva chiesto, a bruciapelo, se era felice. Alberto era ammutolito: nessun mai gli aveva fatto una domanda del genere. Gli parve una domanda intima, indiscreta, e lo colpì come una frustata. Ma, dopo qualche istante di irritazione e confusione, aveva risposto – anche con un po’ di stizza – che, certo, che era felice! E ribadì che non gli mancava niente, come aveva già detto. Aveva tutto ciò che si potesse desiderare e, anzi, aggiunse, pensava che più di un collega, sul lavoro, invidiasse la sua posizione…

Luana, allora, aveva sorriso con il sorriso più dolce che aveva. Quindi era passata decisamente a parlare di sé. Era nata in una cittadina della Romania. Si era sposata giovanissima. Dalle sue parti era normale. Il marito era un gran lavoratore e vivevano bene. Ebbero una figlia. Lei continuava ad occuparsi dei genitori che, presto, si erano ammalati ed avevano bisogno di aiuto. E, così, si era pure dedicata a loro finché erano rimasti in vita. Poi, dopo qualche anno, il marito aveva cominciato a bere e non era più lui. Litigavano. I soldi non bastavano più. Ma per lei, Luana, i soldi non erano mai stati l’importante. Anzi, la vita è fatta di tante altre cose di maggior valore. Nella vita bisogna essere felici! Se si hanno cose materiali, ma non si è felice, a che scopo vivere? Aveva sopportato quel marito cambiato, era passata sopra a tante cose. Ma quando la figlia aveva finito le scuole, Luana aveva pensato che doveva tornare a vivere. Era venuta in Italia per cambiare tutto. Lavorare, sapeva lavorare, e la forza non le mancava. Lasciare tutto, sì, anche la figlia, e provare ad essere felice. L’Italia è bellissima, la gente è educata… anche se, in fondo, le pareva che gli Italiani fossero stanchi di vivere…

Poi, ad un tratto, si era accorta che era tardi. Aveva accennato ad un impegno che Alberto non aveva capito. Si era alzata, sempre con un sorriso radioso, lo aveva salutato tendendogli la mano, era andata via come una foglia volata nel vento.

Alberto aveva finito la sua panna e bevuto il suo caffè ormai gelato. Aveva la testa piena di immagini di vite lontane, in paesi lontani (non era mai stato in Romania e non sapeva se la stava immaginando com’era davvero). Sentiva nel petto un sorriso del tutto nuovo. Si ricordò – stava per non pensarci – che doveva pagare. Lo fece (anche il cornetto ed il cappuccino di Luana), si alzò un po’ incerto: non gli pareva possibile ritornare a casa, ripiombare nella sua silenziosa solitudine. Dopo quella compagnia così piacevole, dopo avere ascoltato tutte quelle cose diverse, tutta quella vita in movimento… Eppure, non aveva potuto che tornare a casa, tornare nella sua monotonia tranquilla e piatta.

Ma il mondo, ormai, sembrava avere un altro odore. Quella sera stessa, trascinato da una forza irresistibile, era uscito ed era tornato al parco. Non lo aveva mai fatto prima, ed il parco di sera era un’altra cosa. Il chioschetto chiudeva ben prima dell’ora di cena. Di gente non ce n’era in giro e faceva freddo. Da quel giorno, però, tutte le sere, dopo il lavoro, era tornato al parco senza dirsi il perché. Ci fumava due sigarette accanto al chioschetto chiuso, e tornava a casa come se avesse compiuto un atto doveroso. Tutta la settimana era stata un’attesa, il pensiero della domenica come non mai. Ma la domenica era rimasto al tavolino solo come sempre. Luana non era tornata.

Era trascorso un mese prima che riapparisse. Ma riapparve finalmente, in quello stesso luogo, vestita allo stesso modo, con le labbra sempre accese, anche se gli era parsa ancora più bella di come riposava ormai nel suo ricordo. Luana, quella volta, non aveva chiesto alcun permesso di sedersi. Lo aveva salutato come se avessero avuto un appuntamento, aveva ordinato la sua colazione ancora in piedi, ed aveva preso posto come fosse il “suo” posto. Poi, pronunciando un nuovo gioioso “ciao” lo aveva anche accarezzato sul viso. Alberto aveva risposto con un filo di voce. Non era abituato al contatto fisico. Non conosceva proprio la tenerezza, e ne era rimasto stordito. Luana parlava già da un po’, quando Alberto si domandò se, per caso, fosse quella cosa lì la felicità… Poi, aveva ripreso ad ascoltarla, perché Luana richiamava costantemente la sua attenzione toccandogli il braccio. Gli stava chiedendo qualcosa, gli stava domandando della casa dei suoi genitori, gli domandava se ci fossero sempre quei Moldavi, se, per caso, non andassero via. Perché lei stava pensando a quella casa per sua sorella, per la famiglia di sua sorella. In tre erano: la sorella, il marito (suo cognato), la figlia (sua nipote di dodici anni). Sì, ci stava pensando, perché sua sorella, forse, sarebbe venuta anche lei in Italia, e, nel caso, avrebbe avuto bisogno di trovare una casa. Sarebbe stato perfetto, diceva Luana, perché era la casa di un suo amico (Alberto era un suo amico!) e, quindi, sarebbe stata tranquilla di sistemare la sorella nella casa di un amico, piuttosto che di un estraneo. Insomma, la casa di una persona di cui avrebbe potuto fidarsi.

Alberto era cascato in pieno marasma: prima la carezza, poi, essere chiamato “amico”… Aveva risposto a monosillabi senza significato. Poi, era nato in lui un penoso senso di vergogna a pensare lo stato della casa dei suoi: vecchia, tetra, con mobili economici che avevano più di sessant’anni. Non ce la poteva vedere Luana, col suo gran bel sorriso e la sua freschezza in quella casa sin troppo umile. E, quindi, non poteva vederci la sorella di lei. E questa cosa qui, ad un certo punto, l’aveva detta chiara, anche se gli era costato… Era pur sempre, quella casa, una cosa sua, e presentarla come un’abitazione trasandata di cui non aveva avuto alcuna cura, era come denigrare se stesso di fronte a quella donna che avevo preso a contare così tanto prepotentemente nel suo orizzonte. Poi, in ogni caso, c’erano già degli inquilini dentro… Luana aveva subito chiesto se c’era un contratto, sì, insomma, un contratto regolare. Ma, in tutti i modi, aveva assicurato di avere già in mente una possibile soluzione. Aveva chiesto ragguagli precisi su quei Moldavi, dettagli sulla regolarità del loro soggiorno in Italia. E, alla fine, aveva decretato che gli inquilini non sarebbero stati un problema. Ed aveva aggiunto che avrebbe pensato a tutto lei, a convincerli a liberare l’alloggio, se proprio Alberto non se la fosse sentita di farlo lui. Luana aveva concluso, con un gran sorriso e rilassandosi sulla sedia, che era bello avere amici, perché tra amici ci si aiuta, non ci si sente mai soli e deboli, proprio come in famiglia.

Quei Moldavi, in effetti, andarono via che Alberto neanche li vide una volta di più. Se ne era occupata Luana e lui non aveva avuto la minima noia in quella faccenda, né aveva saputo tanto di più. Le chiavi dell’appartamento le aveva già lei. Nel giro di dieci giorni ci si era installata la sorella con il cognato e la nipote. Alberto li aveva conosciuti che abitavano già in casa sua da giorni, quando lo invitarono una domenica a pranzo. Era stata come una giornata di festa. Lo avevano trattato come un re. Poi, solo nel tardo pomeriggio, il cognato lo aveva preso da parte e gli aveva fatto tutto un lungo discorso complicato (non diceva che poche parole in italiano e spesso, quando Alberto lo interrompeva per dirgli che non stava capendo, quello sorrideva, gli dava grandi pacche sulle spalle, e ripeteva sempre la stessa frase con un grande sorriso, “Tu amico mio, io amico tuo. Fratelli!”, e finiva lì tutto il chiarimento). Era stata, poi, Luana, a svelare l’intero contenuto di quel lungo ed incompreso monologo. Il cognato aveva “le mani d’oro”: sapeva fare il muratore, l’idraulico, il falegname, l’elettricista. Insomma, sapeva fare di tutto. La casa, Alberto era il primo ad ammetterlo, era in condizioni penose: tutto vecchio e malfunzionante. Bene, ecco la soluzione perfetta per tutti. Il cognato, poco alla volta, l’avrebbe rimessa a posto senza chiedere alcun compenso, così, per amicizia e riconoscenza. Beninteso, i materiali sarebbero stati a carico di Alberto, ovvio, ma il lavoro non gli sarebbe costato un euro. Tutto sarebbe stato fatto per il meglio e nel suo interesse, senza seccature di sorta, proprio come si fa tra parenti. Si sarebbe trovato, senza neanche accorgersene, una casa rimessa a nuovo senza alcun pensiero. Ecco che significa avere degli amici, come una famiglia… Solo alla fine Luana aveva compreso nell’accordo, e con un “giustamente” lungo un chilometro, che come contropartita della ristrutturazione sarebbe stato opportuno non pretendere alcun canone d’affitto almeno per un anno. Eh, sì, sapeva che non sarebbe neanche stato il caso di dirlo, ma per chiarezza, per tranquillità di tutti… D’altronde, era come ospitare dei parenti, che, a loro volta, si sarebbero disobbligati in un modo o in un altro. E non sarebbe neanche stato il caso di chiarire, così, tutti questi dettagli, ma Luana aveva detto che il cognato aveva insistito. Per rispetto di Alberto, si era impuntato il cognato, bisogna mettere tutto in chiaro sin dal primo momento. Poi, certo, il cognato avrebbe fatto tanti lavori in quella casa e non sarebbe stato a contare le ore, né avrebbe fatto pesare la cosa in alcun modo, perché avrebbe fatto tutto il necessario come fosse stata la casa di un fratello.

Ed era stato proprio così. Di punto in bianco, Alberto s’era ritrovato una famiglia. Lo invitavano tutte le domeniche a pranzo, ed erano pranzi infiniti in cui Alberto si lasciava avvolgere da una confusione calda e confortevole. Il cognato parlava continuamente, nella sua lingua per lo più, e si rivolgeva a lui come se Alberto potesse comprenderlo, ma era lo stesso. In fondo, ad Alberto interessava solo di Luana, la sua Luana, che lo aveva cavato dal suo buco e lo aveva riportato alla vita. Tutto il resto non era che lo sfondo del nuovo centro vitale, Luana, che si occupava di lui e dava senso alle sue giornate. Gli aveva anche fatto cambiare il telefono, perché lui aveva ancora un vecchio attrezzo che neanche andava su internet. Gli aveva insegnato ad usare whatsapp, così potevano messaggiarsi e videochiamarsi, e mandarsi le foto. Avevano fatto un gruppo di famiglia e lui era stato compreso. Quante novità e quanta energia nella vita di Alberto! Ma, in fin dei conti, quella felicità era durata niente.

 

Così, quella domenica mattina Alberto doveva farla finita una volta per tutte. Perché, dopo qualche tempo, Luana era completamente cambiata. Era diventata un’altra, distante. Era sempre più impegnata ed aveva sempre meno tempo per lui. Anzi, di tempo non ne aveva più per niente. Quanti mesi erano che non prendevano più un caffè insieme, e non facevano due chiacchiere loro due soltanto? Neanche lo ricordava più quando era stata l’ultima volta. Le domeniche aveva smesso da un bel pezzo di andare da loro a pranzo. All’inizio era stato proprio lui a cercare delle scuse, ma perché si sentiva sempre meno a suo agio. Soprattutto, sperava, di settimana in settimana, di potere passare qualche domenica da solo con Luana… Ma Luana aveva accettato solo una volta quel suo invito. Erano andati al lago. Avevano pranzato fuori. Non era stato granché. Luana, per tutto il tempo, era stata lì, con il suo telefonino a fare chissà cosa. Poi, subito dopo pranzo aveva detto che doveva rientrare perché aveva un appuntamento con una sua amica. Un appuntamento cui non poteva assolutamente mancare, aveva detto, senza dare altre spiegazioni. Si era fatta riaccompagnare a casa, e la giornata si era spezzata così, all’improvviso, prima che lui riuscisse a gustare la compagnia di lei. Da quella volta, non si era mai più concessa. Sempre un impegno, un imprevisto, un appuntamento che non poteva spostare. Luana non aveva più avuto tempo per lui. Neanche più a telefono rispondeva. I suoi messaggi non li leggeva. Alberto era arrivato ad appostarsi sotto casa di lei, per poterle parlare, per sapere cosa mai fosse accaduto, perché avesse preso ad evitarlo. Luana aveva risposto che nulla era cambiato, se non che era lui ad essere diventato appiccicoso e noioso… fissato. E che, a dirla tutta, si stava rivelando anche un ingrato: lei e la sua famiglia avevano cercato di dargli affetto e conforto, visto che lui era un povero uomo solo e triste, ma che lui, ferocemente egoista, aveva preso e preteso, e continuava a pretendere senza dare niente in cambio. Niente in cambio, pensava ora Alberto, ripetendosi per l’ennesima volta quel discorso, niente in cambio? Ma se aveva messo a disposizione la casa dei suoi genitori senza ricavarne alcunché da mesi! Anche il condominio era rimasto a carico suo, e perfino le bollette della luce, del gas e dell’acqua… Tutto lui pagava, perché – dicevano – erano stati questi i patti… Ma quali patti!? Alberto non aveva mai stipulato alcun patto. Per generosità, aveva acconsentito solo perché era un signore lui… Una cosa temporanea doveva essere… E, invece, si era ritrovato a mantenere la famiglia del cognato! Questo era! Altro che chiacchiere! Era tutto un raggiro… Ed era stata Luana ad imbrogliare le carte, questo non se lo nascondeva più. Ma, soprattutto, ora, Luana aveva un altro! Questo faceva la differenza, ora. Alberto se ne era convinto. Ed era questo che non gli andava giù. La casa… ma che se la prendano pure… Tanto, prima o poi, dovranno pure andare via… Ma Luana no, Luana l’aveva tradito veramente, aveva tradito la fiducia su cui era stata fondata la loro amicizia. Luana aveva senza dubbio un altro. Anche se negava. Aveva sempre negato, continuando a dire di non avere nessuno e che, oltre tutto, pure se avesse qualcuno, non dovrebbe renderne conto a lui. Eh, già, si diceva Alberto: prima mi stai lì a fare tutti quei discorsi sulla felicità, sugli affetti, sulla cura che bisogna avere delle persone care… E, poi, scaricato così… Non è giusto, si diceva Alberto. Eh, no, cara! Troppo comodo, troppo facile… Mi chiedi se sono felice! Ti infili dentro la mia vita… Ti ho chiesto io qualcosa? No, hai fatto tutto tu: hai fatto e disfatto. Ed ecco che io sono diventato appiccicoso… Di punto in bianco, sono diventato asfissiante… Io sono diventato insopportabile… No, è che hai trovato un altro, e non vuoi confessarlo. Tutto qua, non hai il coraggio! Avessi almeno il coraggio di dire le cose come stanno. Dimmi che hai un altro, e tutto si chiarisce, no? Sii onesta! Non continuare a fingere! Le amiche, dice, ma quali amiche!? Un altro c’è, è ovvio!

Così, quella domenica aveva deciso che sarebbe andato dal cognato per pretendere una spiegazione. Con tutto quello che faceva per quella famiglia, ne aveva il diritto! Aveva il diritto che gli dessero una spiegazione! Erano giorni, ormai, che Luana non rispondeva al telefono e non rispondeva ai suoi messaggi. Per due sere si era appostato sotto casa sua, ma lei non era rientrata! Ora, il cognato gli doveva delle spiegazioni! Sentiva di essere assolutamente dalla parte della ragione! Sentiva che qualcuno gli doveva delle scuse, sì, delle scuse. Era in credito verso quella gente! In un modo o nell’altro dovevano risarcirlo! Gli avevano tolto tutto, questo sentiva. E avrebbero dovuto restituirglielo. Dovevano restituirgli tutto!

Guidava verso quella che era stata la casa dei suoi genitori, sempre più divorato dall’agitazione. Perché gli pareva che i suoi pensieri, ad un certo punto, si impicciassero senza via d’uscita. Sentiva di avere assolutamente diritto ad un risarcimento, ma quando arrivava a pensare cosa avrebbe chiesto, non riusciva a rispondersi. Cioè, ad una spiegazione aveva senza dubbio diritto. Eh, sì, che ne aveva diritto. E chi avrebbe potuto negarlo!? Ma, avuta pure una spiegazione, dove avrebbe potuto arrivare? Sentiva che non poteva finire lì! La rabbia, quindi, montava perché si sentiva senza vie d’uscita. Allora riprendeva d’accapo a rivendicare il suo diritto ad un po’ di rispetto. E qui si convinceva nuovamente che tutte le ragioni erano dalla sua parte. Non potevano trattarlo così, insomma! Come non esistesse, come non fosse mai esistito. Che senso ha andare a chiedere a uno se è felice una volta, se poi non glielo chiedi più? Se poi non te ne preoccupi più? Se poi lo abbandoni e non gli concedi più un minuto del tuo tempo? Lui aveva acconsentito ad ospitarli a casa sua, ma non li aveva mica lasciati a loro stessi: continuava a pagare tutte le spese, perché è così che si fa, no? Anche se, a volere essere sinceri, non c’era mai stato alcun patto, questo era bene chiarirlo e ribadirlo. Mica lo faceva perché ne era obbligato, lo faceva perché è così che si fa, no? È un po’ come se lui ora dicesse: da oggi vi pagate le spese, così, senza dare spiegazioni… Questo è, è un fatto di spiegazioni, bisogna spiegare, si ha il dovere di spiegare. E chi sta dall’altra parte ha il diritto di riceverle queste spiegazioni. E se le spiegazioni non ci sono, ha il diritto alle scuse! Almeno queste. Ecco sì, Alberto aveva diritto alle scuse, questo gli pareva, ora, l’approdo di tutta la sua rabbia, e quel giorno le avrebbe pretese, le scuse!

Sentendo di essere dalla parte della ragione, di avere diritto, di essere nel giusto, di dovere ricevere una riparazione, giunto davanti al cancelletto di ingresso al condominio della casa dei suoi genitori, fermò l’auto davanti senza parcheggiare e senza curarsi che avrebbe impedito il passaggio di altre auto. Scese e suonò il citofono in preda ad un tremore crescente.

Rispose il cognato di Luana. Allora Alberto, senza salutare, chiese dove fosse lei, diretto. Il cognato rispose di non saperlo.

-        Ma come non lo sai!? È domenica! È tua cognata! Dov’è? Non mi risponde a telefono!

-        Non viene qui oggi. Da quando non vieni più tu a mangiare la domenica, lei quasi mai viene.

-        Ok, ma dov’è? Ti sto dicendo che non mi risponde a telefono! Non risponde se le mando un messaggio! Con chi è? Dimmi con chi sta!

-        Io non lo so, amico mio. Ma non ti preoccupare, sta bene.

-        Non sono preoccupato. Voglio sapere perché non mi risponde! Voglio sapere che vita fa! E tu, ora, me lo devi dire!

-        Ma io non sono padre o marito di mia cognata. Io non controllo lei. Perché chiedi a me?

-        Perché, perché mi state prendendo in giro. Perché anche tu mi stai prendendo in giro. Cazzo, ma che credete che sia uno stupido? Io ho bisogno di avere delle spiegazioni! E tu oggi me le dai, o io non mi muovo di qua!

-        Non gridare amico mio! Tu sei arrabbiato, e io non so perché! Io non capisco cosa successo. Sali a prendere un caffè. Non gridare nella strada. Gente sente…

-        Io grido quanto voglio! Questa è casa mia e tu non vieni a dire a me cosa devo fare. Sono io che dico a te quello che devi fare, capito!? Tu devi spiegare! Io ho diritto ad una spiegazione! Anzi, io ho diritto a tutte le spiegazioni, a questo punto!

-        Ma cosa vuoi che spiego io. Io non so quello che vuoi! Io capisco solo tu essere arrabbiato. Ma parlando sistemiamo tutto. Non gridare, amico mio. Calma. Gente sente… Sali. Prendiamo caffè e parliamo, e calmiamo.

-        Ok, salgo. Non è il caffè che voglio. Non voglio più niente da voi. Voglio solo spiegazioni! Ora basta! Forza, apri il cancello, così salgo! E la cosa deve finire qui, ora, una volta per tutte! Cazzo, non sono uno stupido! E voi non avete il diritto di trattarmi come uno stupido! Oggi vi faccio vedere io chi sono! Questa casa è mia e, se voglio, oggi la butto giù con le mie mani, mattone per mattone! Apriiii!?

Il citofono restò muto, ma la serratura del cancello scattò con una vibrazione ronzante.

Quando Alberto oltrepassò anche l’ingresso del portone vetrato, tremava senza controllo. La calma del cognato di Luana gli aveva fatto montare il sangue al cervello più di prima. Di fronte al suo diritto ad ogni riconoscimento di sacrosanta ragione non era tollerabile quella serenità. Ancora a prenderlo in giro, ancora a trattarlo come uno stupido. Quella donna se la faceva con chissà quanti uomini dopo averlo illuso, e si pensava di uscirsene con un caffè!? Si viveva in casa sua, un’intera famiglia viveva sulle sue spalle, e si credeva di cavarsela con quell’ “amico mio”!?

Ma, allora, non si era ancora capito niente? Non si era ancora capito che quello era il giorno in cui tutti i nodi dovevano venire al pettine? Si credeva ancora di vivere, così, gratuitamente? Di fare e disfare tutto quello che si vuole senza pagare pegno?

Quando Alberto cominciò a salire le scale (doveva fare tre piani) gli parve di avere una forza sovrumana che lo spingesse, finché inciampò. Fu un attimo. Ebbe il tempo di accorgersi di non avere modo di parare la caduta con le mani. Sentì un dolore impossibile, oltre ogni ricordo di dolori già provati, allo zigomo destro ed al labbro superiore. La rabbia gli montò ancora più feroce, insieme ad una pulsione violenta ed irresistibile che lo fece girare su se stesso per lanciarsi a corpo morto giù per la rampa di scale che aveva appena percorso in salita. La caduta fu rovinosa. Brevissimo, ancora, un nuovo dolore alla fronte. Il buio ed i sensi svaniti.

Quando il cognato di Luana chiamò l’ambulanza, dopo essersi accorto della caduta di Alberto per le scale, e dopo avere cercato di rianimarlo e di fermare il sangue che gli schizzava dal volto e dalla testa, qualcuno aveva già chiamato i carabinieri perché un uomo visibilmente alterato aveva abbandonato l’auto al centro della strada e gridava come un forsennato sembrando pericoloso.

Tutti i vicini erano sui balconi e le finestre, curiosi, quando Alberto fu portato fuori in barella e caricato sull’autombulanza. Videro, quindi, un uomo con delle bende alla testa ed al volto, che però si muoveva, dando segno di essere vigile. Muoveva le braccia come volesse comunicare qualcosa ai sanitari che lo accompagnavano.

Un carabiniere scambiò al volo due parole con uno degli infermieri, e ci fu un cenno d’intesa. Poi si rivolse al cognato di Luana e, subito dopo, questi andò verso l’auto di Alberto, vi entrò, mise in moto, e la spostò dal centro della strada parcheggiandola in uno stallo libero. Quindi, tornò dal carabiniere che aveva in mano dei fogli. Parlarono a lungo. Il cognato di Luana parlava calmo senza gesticolare, muoveva solo il capo ritmicamente come con desolazione. Il carabiniere ascoltava impassibile, ed ogni tanto annotava qualcosa. Il secondo carabiniere stava seduto nella gazzella, a tratti si avvicinava ai due, ascoltava per un po’, annuiva, tornava in auto. I curiosi, dopo un po’, tornarono alle loro occupazioni.

Qualche giorno dopo, un uomo con una più che visibile fasciatura alla testa, vestito in maniera molto trasandata e con evidenti macchie di sangue rappreso sugli abiti, attraversò a passo sostenuto la strada fino a quel cancello. Buttava i piedi come volesse liberarsene e ciondolava le braccia incurvato sulla pancia. Si guardò attorno per qualche istante. Si diresse verso quell’auto parcheggiata. Vi salì, mise in moto, ed andò via.