Aprì gli occhi controvoglia. Dall’imposta di legno, solo accostata, entrava una morbida luce di foschia. Sentì il soffice calore del letto. Realizzò che non doveva andare a lavoro – era in ferie – e il respiro si distese ampio. Annusò un odore estraneo, un profumo femminile. Immerse il naso nel cuscino e tornò dentro di sé. Poi, dopo qualche istante, il corpo scattò autonomamente e si ritrovò supino con le braccia e le gambe che si scuotevano dal torpore. Quel profumo permaneva tutt’attorno e, tutto sommato, non era per niente sgradevole. Lelia, era l’odore di Lelia quello. Già, aveva dormito da lui. La chiamò, inutilmente, non c’era. Quindi, ricordò che quella notte, forse verso le tre, si erano svegliati e si erano accorti di essersi addormentati, senza volerlo, insieme. Allora lui le aveva detto di restare, che non gli spiaceva, e lei aveva chiesto una sveglia perché doveva alzarsi presto per un appuntamento di lavoro. Così, sicuramente, era già andata via, ma aveva lasciato il suo profumo in casa e sulle lenzuola.
Si mise a sedere sul letto e appoggiò il viso sulle
mani, e sentì di avere l’odore di Lelia anche sopra la pelle.
Il caso! La casualità: sostanza profonda e nascosta
della vita. Programmare, credere di decidere, volontà superba di determinare:
illusione e assillo di morte! Lasciarsi galleggiare, invece, con la massima
levità, nel mare dell’esistenza, senza pervicaci velleità… Divorare gli
istanti, tutti i momenti afferrabili, per non lasciare che, a un tratto, resti
solo polvere nei nostri pugni stretti verso l’avvenire…
Bocca asciutta, impastata di saliva non sua e amara di
fumo e di vino. Non avevano bevuto molto: se non si ingannava, solo una
bottiglia che aveva in casa di cabernet del Friuli. Però, non avevano mangiato
nulla, solo sigarette, e poi avevano fatto l’amore a lungo. Lui aveva fumato
l’ultima, dopo tutto, che Lelia già dormiva, probabilmente. Si era alzato,
aveva bevuto un bicchiere d’acqua fresca e aveva fumato sazio e solo davanti al
camino, chiudendo gli occhi di tanto in tanto, e riassaporando con piena
voluttà i momenti appena vissuti. Rilassata stanchezza dell’approdo! Sigaretta
respirata a fondo, ma lentamente. Il sapore del tabacco intenso come la prima
volta. Si era quindi disteso, stanchissimo, di fianco a Lelia ed il sonno li
aveva inghiottiti…
Tolse le mani dal viso. Ricordò il viaggio andato a
monte e imprecò contro l’ottusa radiosveglia che, sopra i numeri dell’ora, gli
mostrava il calendario. Era il ventitré di dicembre e quell’anno, diversamente
dal solito, sarebbe rimasto in città per un maledetto contrattempo, anche se in
ferie. Sì, almeno quello, almeno le ferie, almeno un po’ di pausa dal corso
ordinario e ostinato della vita prefabbricata. Tuttavia, non riusciva proprio a
capacitarsi: da sei anni aveva giurato a se stesso di non trascorrere le feste
in città. “Crollasse il mondo, io tra questi matti non resto”, questo era stato
l’impegno. E per cinque anni ci era riuscito, andando via in posti lontani,
caldi e meno caldi, dove, comunque, sentiva di riuscire a spogliarsi di se
stesso e del solito mondo appiccicato addosso. Con gli anni era diventato
sempre più refrattario alle ritualità: quel perpetuarsi maniacale, di anno in
anno, di generazione in generazione, di atti, parole e addirittura sentimenti;
rinnovate messinscene di folli mascherate; eccesso di luci, di colori, di
profumi, di cibi, troppo di tutto; baccanale religioso, orgia di sublimate
paure, tripudio di storpie coscienze, mediocre sussulto di verità ingoiate come
acidi conati. Lo aveva negli occhi quel falò sacrificale che sopravviveva dalla
notte dei tempi e che sapeva del senso inspiegabile delle cose. Ma il senso
inspiegabile delle cose prima attrae la curiosità, poi affascina, ad un certo
punto della vita diventa solo noia che ammansisce…
Nella sua testa riemerse la stridula vocina della
ragazza dell’agenzia di viaggi: “Spiacente signore... Ieri... forse qualcosa
avremmo potuto trovarla, ma oggi... lei capisce... è davvero troppo tardi.
Arrivederci... e... auguri!”
“Si dispiace lei. Bestia. Voce fasulla”, ripeté con un
fastidio montante. “Sono spiacente che si dispiaccia, signorina, anzi, sa che
le dico? Sono amareggiato per averle arrecato tale mestizia e mi scuso, mi
rendo conto d’averla rattristata… Questa si rattrista, ed io, intanto, me ne sto
qua, inchiodato in questa maledetta città, come un fesso, come un gran bel
pezzo d’idiota tra tutti gli altri idioti!”
Andò in cucina, accese il fornello e vi mise su la
caffettiera già pronta. Bevve un bicchiere d’acqua, e i piatti sporchi del
giorno prima nell’acquaio aggiunsero un’ulteriore sfumatura al senso di
squallore che già s’era infilato nel suo stomaco. Rimase un attimo a fissare
l’azzurra fiammella del gas: “Li brucerei! Sì, li metterei tutti in un enorme
calderone – e andava molleggiandosi sulle ginocchia illustrando con le braccia
allargate davanti a sé l’ampiezza dell’immaginaria marmitta – e li cucinerei a
fuoco lento... Lento? Chi ha detto lento? Veloce, velocissimo. Queste vaccate
delle torture lente... Veloce, velocissimo! Soluzioni rapide e radicali! Non è
più tempo di gustare il trascorrere del tempo… Siamo o non siamo nell’epoca che
tutto misura sull’istantaneità della risposta? Sollecitazione, reazione
immediata! Il tempo lungo, il tempo morto, è intollerabile, anzi, inconcepibile…
Cucinati, via, a fuoco vivacissimo!”
Si lasciò cadere su una sedia e sprofondò il capo tra
le braccia appoggiate sul tavolo. Pensò a Lelia per scacciare la nausea e si
accorse che avrebbe voluto svegliarsi con lei. Sì, si accorse che, in quel
momento, la cosa migliore sarebbe stata quella sempre percepita con timore: il
risveglio di una normalità matrimoniale… Ma la caffettiera gorgogliò e il caffè
coprì quel delicato profumo femminile che pareva essere finito un po’ in tutti
gli angoli della casa.
“Ah, che buon odore di caffè! Questa – gridò
drammatico parodistico – è la vita! Ben altro rispetto alle sciocchezze che vi
sento dire!”, disse rivolgendosi al rubinetto del lavandino con una specifica
occhiataccia rivolta ai piatti sporchi. “Una scopata coi fiocchi! Voglio dire:
fatta con tutte le dovute accortezze e malizie del mestiere, con una donna che
già sa tutto e tutto sa fare alla perfezione… Un bel sonno accucciati dentro
quell’accogliente sentore di sesso… E poi, la mattina, un gran caffè forte e
bollente, seguito dalla prima sigaretta della giornata…”
Prese la caffettiera e versò due dita di caffè nella
tazzina; aggiunse una goccia di latte e si sedette.
“Ma tu guarda se uno deve tenersi addosso questo
nervoso per il fatto di non riuscire a fare un viaggio a natale come tutti gli
anni… Appunto, come tutti gli anni… Non sarà già di per sé mostruoso essere
diventati così abitudinari, così ripetitivi? Con la smania di non fare quello
che tutti fanno, si finisce per fare quello che tanti fanno… È un attimo, come
sempre: pensi di rigare dritto, vivi la convinzione della piena consapevolezza
delle tue scelte (e ne vai orgoglioso!), ma poi, ad un tratto, ti accorgi di
essere scivolato nella fiumana e di essere nuovamente un trasportato dalla
corrente. Che stanchezza…”
Fumò la pregustata prima sigaretta della giornata e,
guardando dentro il camino ormai freddo, pensò nuovamente a Lelia, ricordò il
modo in cui gli aveva chiesto la sveglia, con gli occhi semichiusi, le labbra
senza più rossetto morbide e tumide dal piacere appena consumato, i capelli
raccolti dietro le orecchie, i seni scoperti senza intenzione. Era quella
Lelia, Lelia dopo l’amore, che sapeva ancora più d’amore, ancora più graziosa,
anzi, solo allora, veramente bella.
Il cielo era bianco e fumoso, e tutto come in
sospensione intorno. Aria gelida sul naso. Un chiarore diffuso e immobile a
sbiadire i contorni, le sensazioni stesse. Il mondo pareva tornato in
un’opacità primordiale, avvolto dalla caligine e liberato dai profili e dai
perimetri. Come il corpo di Lelia, in fondo, in quel momento in cui gli era
piaciuto di più: abbandonato, caldo e umido in un semisonno, e i suoi occhi
velati a guardarlo.
Camminava lento, percorrendo il viale lucido di
bagnato. Gli alberi si liberavano dal ruolo di arredo urbano e tornavano ad
essere natura e bosco, in mezzo alla nebbia che si muoveva morbida in piccoli
addensamenti. Le case di fronte, dall’altra parte della strada, non si
scorgevano e l’aiuola non era più costretta a spartire il traffico
automobilistico con uno sfondo di palazzi. Soprattutto, lo sfondo di cemento
armato era sparito quel giorno.
Un po’ di serenità gli parve lì, fortunatamente, a
portata di mano: una passeggiata, camminando solo, in un paesaggio diverso
popolato di ombre discrete. Per una volta, tornare a percepire le cose con
lentezza; ascoltare il mondo, oltre che con gli occhi e con le orecchie,
delicatamente con la pelle.
Tutto sembrava più vero in quell’apparente dormire,
tutto era più vivo, in sé e solo con sé, senza la pesante necessità di apparire,
di manifestare i propri colori. La nebbia suggeriva al giorno la profondità
della notte e del silenzio.
Lelia, quella notte, lo aveva toccato in fondo, ed una
sottile paura accompagnava la constatazione di sentirsela dentro, di continuare
ad averla radicata tra i pensieri. Aveva fatto l’amore con la testa: conosceva
bene la differenza. Illusione di avere percepito l’irripetibile consonanza
fisica e dei desideri, di avere colto l’irrintracciabile momento di perfetta
corrispondenza tra corpi, e, alla fine, un’eco di stordimento che permane a
lungo. E dopo, un vuoto che resta sotto lo sterno e ripropone in bocca il senso
di un’assenza: l’assenza di sfiorare, assaporare, annusare ancora, sentendo il
desiderio essere unico e uguale; la privazione di quel cercare di nuovo e
continuamente, trovando e ritrovando quel che cerca e trova nello stesso
istante…
Mare delle casualità necessarie: è un caso, sì, ma,
verificandosi, diviene necessità! Era stato un caso, eppure doveva essere. Era
stato un caso e, per questo, non avrebbe potuto non essere…
Sarebbe stato bello rivederla, ma, certo, non avrebbe
fatto nulla perché ciò avvenisse. Era un caso e tale doveva rimanere, al
contrario tutto sarebbe andato perduto. Tutto, in definitiva, sorge dal caos:
tentare di determinare gli eventi, di fissare qualcosa, avrebbe significato
tentare di imbrigliare il flusso vitale, pietrificare le cose, morirci dentro,
e perdere il sogno…
Avrebbe comperato il giornale. Aveva la mattina libera
e l’avrebbe trascorsa lentamente, lasciando che ogni cosa restasse
nell’indefinito così come imponeva quella nebbia, così come suggeriva lo stato
di rilassatezza appagata che gli si andava dilatando dentro.
L’edicola era a due passi, quando sentì una mano sulla
spalla, e una voce: “Mario, come va...” e una figura, non ancora ben
identificata, che si lanciava a baciarlo che nulla avrebbe potuto impedirlo.
Tra un bacio e l’altro lo riconobbe e, istintivamente, per frenare il moto di
disappunto che gli sorgeva spontaneo, partirono le solite frasi di circostanza:
“Ah, carissimo... Tutto bene, tutto bene. E tu... che mi dici? In famiglia...”
Per qualche istante le parole si formarono e disposero
autonomamente e le frasi si alternarono comodamente prefabbricate, in modo tale
che, senza alcun impegno supplementare, poté osservarlo e ricavarne il solito
senso di antipatia. Viso pulito, sbarbato di fresco, come sempre. Occhietti
inespressivi e sempre fuori luogo in un volto che sa di stizze e di superbia.
Capelli da immagine tivvù manager rampante, che sarebbe perfetto per le
pubblicità dei biscotti, quelle con la moglie e coi bambini la mattina intorno
al tavolo in cucina e il capo famiglia che arriva giacca e cravatta,
ventiquattrore e giornali sotto il braccio, a sgranocchiare al volo tre o
quattro frollini perché, si capisce, il suo tempo è assai prezioso. Un tipo
perfetto, che piace, infallibilmente, alle zie e alle nonne. Abito
firmatissimo, ma su di lui un effetto scialbo quadrato regolare.
Poi, anche qui in preda ad un qualche automatismo teso
ad evitare di manifestare l’antipatia che gli ispirava, disse: “Ho saputo che
ce l’hai fatta... che sei il nuovo direttore della…”
“Guarda, non me ne parlare!...”
“Bravissimo – pensò –, e così, ora, non me ne libero
più.”
“…Ti dico solo che ho dovuto contendermi quel posto,
che era indiscutibilmente mio! Cioè, era mio nel senso che sono lì da anni, ho
fatto sempre del mio meglio, i risultati, di migliori, nessuno li aveva visti
mai. Insomma, ho risollevato la baracca dal nulla e da solo. Ho centrato
obiettivi che nessuno si era mai neppure sognato di intravedere. E, nel momento
della nomina, ecco che spunta non si sa da dove questo tipo, di cui non si sa
niente. In definitiva, un incompetente che si materializza dal nulla per
cercare di fregarmi, solo perché ha dietro non so quanti e quali santi... Anzi,
ora lo so. No no, non è stato per niente facile! Anzi, ti dico, che da questa
esperienza ho imparato! Ah, se ho imparato! Intanto, a diffidare di tutti e… a
non credere più a nulla. E, comunque, ho capito davvero perché il nostro Paese
va come va. Questo tipo, per quel che ho saputo, non ha mai fatto un giorno
lavorativo vero in vita sua. Ha sempre brigato per stringere amicizie, per
farsi vedere, per mettersi in mostra. E, sai che ti dico? Questa roba paga. Più
che fare, lavorare, realizzare cose, paga il mettersi in vetrina, in modo che
si sappia di te, che esisti, che ci sei. Se no, nonostante quello che vali,
quello che dimostri sul campo, quello che potenzialmente manifesti, resterai un
dimenticato… Uno che nessuno ricorda, nel momento in cui è necessario che
qualcuno si ricordi il tuo nome per suggerirlo all’orecchio giusto, e perché
quell’orecchio lo percepisca come un suono noto… Se no, bello mio, puoi essere
tutto, ma resti solo un anonimo, un dimenticato, un mai sentito, un suono
ignoto. Quello, ti ripeto, non ha mai fatto niente, eppure, appena il suo nome
ha cominciato a circolare, tutti lo conoscevano. Perché si diceva che, già, era
amico di questo, era amico di quest’altro, era stato testimone di nozze di
tizio, andava in vacanza con sempronio. E, tu immagina, così, di punto in
bianco, me lo vedo spuntare che sta per farmi le scarpe.”
Ecco la stizza, eccola: la ricordava bene. E tutto
quello scattare nervoso, poi, che accompagnava ogni suo discorso. Se lo
ricordava proprio così, e così era rimasto, dal liceo. Scattava soprattutto la
testa sopra il collo, tirandosi indietro, a ribadire distanza
dall’interlocutore. E gonfiava il torace, mentre parlava di qualsiasi cosa,
quasi sempre con acredine. Mancava che sbattesse i piedi e l’enorme bambinone
capriccioso sarebbe stato completo. Un gallo cedrone, sì sì, ricordava un gallo
cedrone…
“…Anzi, poi ho saputo che erano, questi santi, pezzi
non grossi, ma enormi! Ma gliel’ho fatta vedere... Ti ricordi Mantella? Era al
liceo con noi, due classi davanti? Non lo ricordi? Non so come descrivertelo…
un po’ grasso già allora? Già una faccia da assessore democristiano?
Rappresentante d’istituto, sì, è stato rappresentante d’istituto, mi sembra,
quando noi eravamo in prima liceo… Comunque, adesso è deputato, ed era compagno
di banco di questo soggetto. E con questo ti ho detto tutto! Aggiungi poi che,
ho scoperto, in Italia i sindacati non esistono. Cioè non sono quello che uno
s’aspetta che siano. Sono tutt’altro! Sono un’altra specie di consorteria, che
gestisce la propria fettina di potere, ben intrecciata a tutte le altre
consorterie. Tu lo sai: questo paese è sempre stato democristiano, e a quelli
ti devi rivolgere, anche se non si chiamano più così, ed anche se non si sono
mai chiamati così. Capito!? Qui c’è chi comanda e chi si illude di essere in un
sistema di regole uguale per tutti. Il sistema si regge su questo: la maggior
parte delle persone pensa di essere in un sistema di regole. Solo quando ci
sbatti il muso, cominci a capire che le cose stanno diversamente: le regole
reali sono quasi sempre il contrario delle regole scritte. È come un gioco in
cui si è in troppi per giocare, per cui in pochi si accordano perché esistano
delle regole apparenti nel rispetto delle quali non sarà mai possibile vincere,
e regole segrete per giocare veramente fingendo di rispettare quelle da tutti
conosciute. E questo soggetto qua, ti dico, un tipo viscidissimo, un
trafficone… A vederlo, un tipo anonimo, non penseresti mai… Eppure, ammanigliato
da fare paura. Poi, ho saputo cose di uno squallore… Ha sposato la figlia di
Gavani. Sai quel costruttore che è stato coinvolto nello scandalo dell’area
edificabile AGI (che pare si chiamasse così perché sulla carta era stata
segnata l’area che doveva andare a lui con le sue iniziali A.G., Antonio
Gavani)? Dicevo, ha sposato la figlia, una ragazza che ha sempre avuto dei
problemi psichici, pare... Poi, pure d’aspetto, bruttina, strana, forse un po’
ritardata. Insomma, un matrimonio che era già tutto un programma. Gavani, come
tutti i costruttori della zona, già certamente non era uno stinco di santo, ma,
guarda caso, da quando è entrato in famiglia quel genero lì, l’impresa Gavani
costruisce tutto lei in questa città, fino allo scandalo della lottizzazione
che blocca il piano regolatore. Lui, Gavani, credo lo sai, finisce in galera,
mentre il nostro amico, pulito, nessuno lo considera. Tieni conto che l’ex
direttore della mia filiale, quello che è andato in pensione e di cui ho preso
il posto, fu indagato pure lui a quel tempo, perché la mia banca, si diceva, si
era troppo esposta e risultavano irregolarità nella concessione dei mutui
all’impresa Gavani… insomma, senza garanzie. E il nostro amico, in tutte queste
vicende, chissà com’è, resta sempre sullo sfondo. Ma la cosa squallidissima è
che, finito lo scandalo alla solita maniera – Gavani sì e no si è fatto sei
mesi, poi è morto d’infarto, e nessun altro, che io sappia, ha subito
conseguenze, anche se sicuramente mezzo comune era coinvolto – il nostro amico
lascia la moglie. Capito: lascia quella poveretta, che ora sta dalla madre. E
ora vivono come due figlie di nessuno, chè tutti poi hanno mangiato attorno,
dopo la morte del vecchio. Ma, per dirti, ha fatto tutto il suo interesse e poi
arrivederci e grazie, così…”
Che splendido omettino: Mario se lo ricordava
esattamente così. Era molto che non lo incontrava, ma aveva saputo da un’amica
comune che era diventato direttore di una delle agenzie di banca più importanti
della provincia. Per la verità, aveva saputo molto di più. Aveva avuto notizia
di una serie di retroscena che riguardavano le connessioni politiche di quella
nomina. Ed ora ne aveva conferma dal diretto interessato, anche se questi,
naturalmente, non diceva tutto, non diceva le cose come erano andate nel loro
complesso, ma la solita mezza verità. Non una falsità, ma una parte soltanto
della verità. Diceva di avere capito perché il Paese va come va. “Capito”,
diceva, ma in realtà non si trattava di avere capito, ma, al limite, di avere imparato
quelle regole non scritte che sole, osservate, conducono a posti di potere.
D’altronde tutto ciò si coniugava perfettamente con le sue peculiarità
caratteriali di sempre. Costantemente alla ricerca di qualcuno da scavalcare,
spostare, spingere nell’oscurità. L’attitudine alla sopraffazione pareva, in
lui, particolarmente accentuata, accompagnata da certezze granitiche,
indissolubili. Se lo ricordava bene al liceo, già arrogantemente seduto sulla
sua convinta superiorità, ansioso di primeggiare e, all’occorrenza, di
prevaricare. Mai aveva parlato di moralità, mai si era occupato di politica,
mai si era impegnato per svelare il marcio che governava la loro città e che
l’aveva devastata economicamente e culturalmente. Colpiva, in quel momento,
sentire da lui dire certe cose. Suonava veramente singolare sentirlo parlare di
uno degli scandali più dolorosi degli ultimi anni, come si trattasse di cosa
nuova, venuta alla ribalta di recente. Tanto più perché Mario ricordava bene
come reagiva fino a qualche anno prima se, tra amici ancora studenti, si fosse
aperto un argomento del genere. Erano per lui, quelle, cose lontane dal suo
particulare e, dunque, non esistevano. Stava per saltare l’intero sistema
economico e politico della città, ma per lui erano soltanto chiacchiere,
esagerazioni, strumentalizzazioni, maldicenze. Che del notaio Tizio,
dell’ingegnere Caio, del commercialista Tal dei Tali si dicessero,
ipotizzassero reati gravissimi, restava un problema di altri e, comunque,
sarebbe stato meglio se tutto si fosse risolto in un nulla di fatto. Perché i
professionisti e gli imprenditori di cui si parlava erano ritenuti la crema
della città e infangarli, attribuendo loro fatti che tutti sapevano ma nessuno
diceva, equivaleva ad innescare un sommovimento sovversivo, di per sé
pericoloso. Di alcune vicende, inoltre, Mario si era occupato qualche anno
prima quando, per alcuni mesi, aveva collaborato con un periodico locale. Aveva
tentato, non tanto di fare emergere elementi nuovi, in quanto dalle indagini e
dal sapere comune era già fin troppo chiaro il quadro d’illegalità in cui un
ristrettissimo gruppo di notabili si era spartito l’intera città, quanto di
innescare un dibattito che coinvolgesse le parti sane e silenziose della
società in una sorta di ricostruzione delle basi dello stare insieme
democraticamente. Ma quella esperienza naufragò nel silenzio della radicata e
diffusa convinzione che, in fondo, le cose non sarebbero cambiate. Mario ne
aveva incontrate di persone chiuse nel loro particulare, e la tesi era sempre
la stessa: non si ritenevano danneggiati da quelle persone. Quello stato di
cose, in fondo, non aveva inciso nelle loro vite. Certo, se erano stati
commessi reati, i colpevoli dovevano essere puniti, ma, alla fine di tutto,
questi di cui si parla a chi avevano fatto del male? Avevano fatto i loro
interessi, ma chi non li fa? Mario abbandonò l’impresa, litigando con quasi
tutti i collaboratori che, dopo il suo secondo articolo, avevano ribattezzato
la sua rubrica “Dei mulini a vento”. Aveva tentato di parlare di una
rifondazione delle basi comuni, ma aveva dovuto constatare che chi non
partecipa al banchetto non vuole mettere in discussione il banchetto in quanto
tale, ma solo trovare il modo di parteciparvi, prima o poi. È questa la
ragione, in fondo, per cui tutti sanno tutto e nessuno fa niente, nessuno si
indigna se non per occasionale sceneggiata. E, forse, questa è anche la
dimensione più propria della stanca deriva del capitalismo, come già lo era
stata della lenta agonia dell’antico regime. La dimensione del coinvolgimento
della maggior parte degli individui nei desideri incarnati dai gruppi di
potere. Coinvolgimento che fa specchiare la gente comune nella vita dei potenti
mistificata e mitizzata. La formula del controllo sociale, d’altronde, appare
proprio in questo paradossale fenomeno psicologico di riscatto onirico, che
normalizza il sopruso e scarica la molla naturale della rivincita e della
vendetta.
“…E poi, quando ho visto che la questione andava così,
me le sono coperte anche io le spalle... Eh, pensava d’aver a che fare con uno
sprovveduto... E poi, sai, non si sa mai... tipi del genere... minacce... dove
siamo!?”
“Come, come? Ti ha minacciato? – si risvegliò Mario
dalle sue riflessioni.”
“No no, non ci è arrivato, ma solo perché ha visto,
perché ha capito... Si è accorto, insomma, che non poteva tanto fare lo
stupido... Eh, l’ho messo bene sull’avviso. Non che gli abbia parlato
apertamente, bene inteso, ma gliel’ho mandato chiaro il messaggio. Io sono
convinto che ci avrebbe provato, prima o poi, con le minacce. Guarda... se lo
vedessi... Pensa: dice che minacciò la moglie... Ora non è che ti sto a dire i
particolari... ma arrivò a minacciare la moglie... Un tipo maledetto poi,
caparbio... Tranquillo tranquillo pare lui, ma... testardo... e... non guarda
in faccia a nessuno. Io credo che abbia lasciato la moglie per ragioni
indichiarabili: particolari, ho saputo, d’uno squallore... Un tipo senza
scrupoli... Cose che meglio che non ti racconto...e mo’ l’ha piantata. Eh eh,
ma ha trovato pane per i suoi denti con me. E poi, guarda, non era
assolutamente all’altezza... come ti dicevo: un ignorante... Solo spinte e
conoscenze.”
Mario era scivolato sempre di più dentro ai propri
pensieri. Il gallo cedrone era un fiume di parole sciocche intrecciate in frasi
fastidiose, animate da una fisicità invadente e nervosa. Gli venne in mente un
concetto che si ripeté più volte: ostacolo alla conoscenza non è il falso,
bensì l’insignificante. Cioè a dire: la divagazione o il soffermarsi su
particolari di nessun valore è il vero nemico della ricerca della verità, non
la tesi scorretta e nemmeno la menzogna. Ciò che non ha significato resta nel
nonsenso e ci lascia nell’impossibilità di trarci dalle nebbie. Però, se lo
scopo non è la conoscenza ma la sopravvivenza, l’insignificante acquista il suo
valore: consente al tempo di trascorrere, anzi, più precisamente, consente a
noi di non accorgerci dell’avanzare del tempo, ci regala l’irresponsabilità,
fuori dalla noia che darebbe la coscienza lucida dei secondi che si avvicendano
implacabilmente uguali. I chiacchieratori da bar lo sanno, forse, meglio di
altri: alla fin dei conti, siamo maledettamente fatti di puro tempo, siamo
tempo che si consuma. Alternativa non c’è, se non fuggire l’ascolto del tempo,
coprendo il rumore di fondo della vita con un rumore più forte: il chiasso
dell’insignificanza che abbiamo attorno. Tutti fuggiamo in avanti per staccarci
l’ombra di dosso, l’ombra che segna e fissa il nostro specifico tempo. I grandi
parlatori lo fanno con le chiacchiere, che sono viaggio e rumore. Il tempo deve
trascorrere senza manifestarsi. Così, il troppo insignificante che invade le
nostre vite ci aiuta a far venir sera.
Come si può vegetare senza tentare di capire? Come si
può vivere di certe cose, solo di certe cose, cose insignificanti, per le quali
cinque minuti di riflessione sarebbero sufficienti per mostrarne
l’inconsistenza? Eppure in ogni epoca c’è stato qualcuno che ha svelato
l’immensa miseria umana, i suoi insuperabili limiti, e l’infondatezza delle
illusioni su cui quella miseria edifica castelli di fumo. Ma ogni epoca ha
avuto anche sempre la sua superba nuova fantasia, la sua rinnovata fuga in
avanti, il suo superamento, incarnato dall’intramontabile avanguardista
ottimista. Istinto di conservazione e rimozione… Anche l’umanità dimentica,
rimuove per non lasciarsi attaccare e corrompere dalla sofferenza. Poi, di
tanto in tanto, qualcuno riprende memoria, si sveglia dal sonno, e viene
rapidamente abbattuto; qualcosa di spaventoso riemerge, come dal profondo delle
coscienze dei più, ma subito viene soffocato e nascosto. Chi può credere che un
giorno (quel giorno!) si raggiungerà la perfezione? Un vecchio di ottanta anni
è forse infallibile? Sarebbe meno imperfetto a novanta anni? No, è semplicemente
stanco, e più si inoltra nella senescenza più accetta l’idea della morte, e
buon per lui se, in ogni nuovo giorno, sa come far venir sera.
L’umanità per non essere stanca è sempre adolescente.
La sua attenzione protesa ora verso un fantastico passato, ora verso il futuro
risplendente, non fa che abbandonarsi al sogno. Non ha memoria: la sua meschina
convinzione che cinquanta o, al più, cent’anni fa si viveva nelle caverne, la
rende arrogante e dura. Scoprire la validità del pensiero dei “cavernicoli” di
oltre duemila anni fa sembra non cambiare nulla, resta una consapevolezza di
pochi, non cola in tutti i suoi più ampi meandri, non permea diffusamente le
coscienze. L’uomo sa ripetere le idee di Platone, Socrate, Aristotele, e
quant’altri vuoi, con la stessa precisione con cui ripete le regole del
“monopoli” e del “mercante in fiera”, ma non impara nulla, non vive ciò che
ripete, e non s’accorge di non fare quasi mai un passo in più che altri non
abbiano già fatto in vertiginose lontananze del tempo. L’inconsistenza della
storia non sarà mai accettata. La storia è la bella favola che l’uomo si
racconta da sempre e che, per questo, deve esistere. Per l’eterno sonno in cui
l’umanità trova sollievo, la storia è molto più determinante della religione,
la quale non potrebbe essere senza l’idea illusoria di un progetto in
svolgimento.
A un tratto vide qualcosa nello sguardo e nei gesti
del gallo cedrone, poi riprese a sentirne le parole.
“…Be’, quindi, ti ripeto: quando hai bisogno sai dove
trovarmi. Non voglio rubarti altro tempo... Io, come vedi, sono arrivato… Ciao,
e buon Natale!.”
“Ciao, ciao e... ancora auguri...”
“Grazie, grazie... Ci sentiamo... intesi?”
“Sì, sì...” Intesi: mah. Sempre il solito: altro che
la vita insegna... ma che insegna? Come si è si rimane. Tutto nell’infanzia e
nell’adolescenza, tutto lì è. Poi, così si è e si rimane. Freddo meccanismo di
casualità. Libero arbitrio: fabbrica di fantasie. Marchiati da quei primi anni
della nostra vita, e dai millenni dietro di noi. Se questo non avesse fatto
così, se quello non avesse fatto colà: la Storia non è fatta di “se”. Fissità
delle necessità casuali. Se Napoleone fosse morto a tredici anni... Se in Bruto
fosse prevalso l’amore filiale... Oggi, ora, in questo istante cosa farei? chi
sarei? dove sarei? e tutto questo intorno a me come sarebbe? Forse non sarebbe
così e io... io forse non sarei così, forse non esisterei neanche. Io sono
perché Bruto fu un inguaribile idealista e un patricida, perché fu così come fu
secondo per secondo. Se un solo secondo della vita di Bruto non fosse stato
quello che è stato io forse, e tanti altri, non saremmo mai stati. E tutto il
tempo sarebbe stato differente… Ma che siamo? Secondi, secondi stati... e
secondi da essere. Non abbiamo capito nulla, non capiremo mai nulla. Essere...
piuttosto convincerci di essere. Vegetare per casualità di incalcolabili
secondi fuoriusciti dal nulla, e, giocando, creare la vita.
Intanto, la nebbia restava appoggiata alle cose,
restituendo un senso di pace. Alla fine dei conti, perché prendersela tanto a
cuore? A che scopo mettercisi con tanta dedizione? Certo, fare delle
considerazioni per impedire alla propria mente di adagiarsi su errori comuni
(più pericolosi perché tali), sta bene. Ma, tutto considerato, niente di più
avrebbe ragione di essere. La misura, deve esserci misura in tutte le cose…
Il gallo cedrone era così e sarebbe rimasto così, che
puoi farci!? E poi la vita è fatta di tanto altro, e in questo altro c’è anche
il momento del disimpegno e dell’egoismo. E, diciamolo pure: dell’inutile! Che
poi l’inutile, forse, è come il caso: se è, è perché deve essere, e, dunque,
non può essere inutile…
Comprò il giornale, ma lo ripiegò immediatamente e lo
ripose in una tasca interna del cappotto. La mattinata, nonostante
quell’incontro imprevisto, continuava a presentarsi piacevole. L’atmosfera
permaneva propizia per il rilassamento. Gustare le illusioni, il sogno, le
allucinazioni. L’uomo è così, fortunatamente: caleidoscopico. Forse, unica sua
vera dote. Può essere serio, grave addirittura, razionale, sentimentale,
passionale, freddo, calcolatore, istintivo, impulsivo, ironico, faceto,
umoristico, sciocco, ridicolo, autoironico, adulto, infantile, angosciato,
triste, pensieroso, lieto, contento, felice, bruto, spirituale, un masso, un
refolo di vento… Guai ad essere in una maniera sola di queste! Guai
costringersi in una sola scatolina! E, quel giorno, in quell’istante,
improvvisamente, passando davanti ad una bancarella che spandeva incenso in
mezzo a lucine natalizie, si sentì refolo, un refolo sciocco nella nebbia, un
refolo sognante.
Foresta… Un cavaliere la percorre solitario. La sua
testa è piena di fede, i suoi pensieri di cose religiose. È un vagante, un
cercatore. La ricerca per la ricerca è l’importante, non l’oggetto della
ricerca. Potrebbe stare cercando il Santo Graal, ma anche qualsiasi altra
reliquia. In fondo, sta cercando se stesso, insegue tutto quanto gli sfugge di
sé, tutto quanto non riesce ad afferrare del proprio esistere, ed è capace di
mistificare ogni realtà nell’estremo tentativo di proiettarsi verso zone
sovrumane ed inconoscibili. Perde tutto per andare sempre oltre, per slanciarsi
verso ogni barlume di altrove, ma, alla fine, torna su se stesso e scopre di
essersi appropriato di una dimensione nuova e più vera: forza centripeta dei
poemi cavallereschi. Tutto si liquefa e schizza verso l’esterno per poi tornare
tutto al punto di partenza, e raddensarsi, infine, in grumo compatto. Ma la
tristezza del cavaliere che dà origine all’intero vortice è un mistero nero, la
sua profondità labirintica è inebriante all’inizio, insostenibile subito dopo,
come l’immagine riflessa d’una penombra specchiata. È un vuoto nel quale il
fondo rimarrà invisibile, anche alla fine. Quel vuoto sembra avere generato
ogni mondo possibile, ma in quel vuoto resta costantemente non colto il senso
di tutto.
Ma, ringraziando il cielo, a salvarci da angosce
estenuanti, ecco giungere un Don Chisciotte qualunque. Se non fosse scoppiata,
alla fine, la risata liberatoria, la deflagrazione mancata avrebbe consumato
anche le pietre, precipitate nell’orrido della follia. Ed ecco, infine, la
strada diritta davanti a noi. Un solo senso. Un unico certo vedere. In
superficie, finalmente, fuori da quel vuoto maledettamente attraente. Tutto il
resto, compreso quel vuoto, da ridere! Don Chisciotte è inconcepibile senza
Artù. Ma, parimenti inconcepibile è che Lancillotto resti puro. L’amore: altra
valvola, altra via di fuga, altra strada nell’eterno ritorno di oscillazioni e
fissazioni. Catena di fissazioni… sì, ma mai stabili. Altezze sublimi in cui si
fissa l’istante, ma è già il momento della crisi, per poi tornare a sorridere,
per poi nuovamente incupirsi e cercare ancora uno slancio. Ora si tenta di
abbracciare il tutto, ora si sprofonda nell’immenso universo dei dettagli. Si
gioca all’analisi ed alla sintesi: dal sillogismo, al sonetto, alla scienza
moderna... Ecco perché l’uomo appare sempre vivo, in una continua
ripresentazione di sé come essere ripetutamente nuovo, pervicacemente
sopravvivente. Don Chisciotte viene quando il mondo ha fissato le sue regole ed
ha cristallizzato le sue confortevoli ipocrisie, perdendo il senso, forse anche
il ricordo delle cause che hanno determinato la forma delle relazioni tra gli
uomini e degli uomini con le cose. La realtà è, ormai, condizionata dalle forme
e gli uomini non fanno che sistemarsi in vecchie costruzioni realizzate da
altri uomini, in altri tempi, per altre necessità. Non è più la vita a creare
le forme momentaneamente occorrenti, ma le forme ad informare le esistenze. Una
costruzione ardita e monumentale, ma ridotta ad un rudere, nella quale va a
disporsi la città degli uomini: prestabilito, per ciascuno, il piano e la
stanza che dovrà occupare, senza un perché, se non quello di non lasciare
andare definitivamente in malora quello che fu un glorioso castello. Don
Chisciotte irrompe in quelle stanze fatiscenti e le vede splendide e ricche di
senso, il senso originario. Mentre chi vi abita è suddito dello squallore che,
ormai, vi alberga, e non ne cerca la ragione. Nessuno vuole trovare la ragione
di ciò che, nell’intimo, sente irrimediabilmente perduto, perché più facile e
meno doloroso appare fingere che nulla sia mutato. Stando così le cose, Don
Chisciotte compie l’atto di coerenza che manca: se tutto attorno è rappresentazione,
accettata e difesa dal senso comune, si vada fino in fondo e sia, si reciti
pure, ma senza sciatterie, con arte e al bando l’artificio! Don Chisciotte non
può accettare la rovina a cui tutti gli altri si sono adeguati; prigioniero,
tenta di vedere oltre le mura del carcere, e può soltanto vedere ancora,
sentire il mondo quando ancora le cose, i fatti, gli atti, potevano avere un
significato, prima di mummificarsi in morte forme. Don Chisciotte arriva lì
dove tutto è diventato finzione e rappresentazione. Sente di dovere riportare
il teatro in vita, e fa della sua vita un teatro. Ma quello che lui vede,
forse, è la più vera realtà, in fondo; quello che lui vive, forse, è
l’esistenza più autentica, svelata dalle forme false che normalizzano il mondo
e ce lo rendono astutamente conciliante o perversamente tollerabile.
La rubrica “Dei mulini a vento”: così i suoi colleghi,
al giornale, avevano chiamato i suoi interventi tesi a rimarcare, al di là
degli aspetti penali, l’anormalità democratica costituita dall’accettazione
diffusa e silenziosa del malcostume. Gli aspetti più preoccupanti del fenomeno
non stavano nei crimini consumati e neanche nel profilo di coloro che li
avevano commessi, ma nell’assoluta indifferenza in cui cadevano i risultati
delle indagini e in cui, per anni, era caduta la conoscenza che già in città si
aveva di quei misfatti. Considerare che il problema non fosse circoscritto al
procedimento penale in corso era, per i suoi colleghi, un atteggiamento
donchisciottesco, che vuole trovare grandi e nobili nemici dove non ci sono,
che vuole ingaggiare gloriose battaglie su campi deserti. A Mario appariva
sempre più chiaro, invece, che se tutto ciò era avvenuto, per anni ed alla luce
del sole, mentre tutti sapevano e nessuno protestava, le responsabilità diffuse
andavano indagate, approfondite, dibattute. Queste, infatti, rappresentavano la
vera malattia che aveva infettato il corpo sociale, di cui i reati erano
soltanto gli episodici frangenti di crisi acuta. Bisognava preoccuparsi di curare
la malattia prima che diventasse cronica, e non soltanto di tamponare gli
accessi. Avevano visto bene i suoi colleghi, anche se inconsapevolmente ed
animati da tutt’altri intendimenti. Don Chisciotte? Sì, esattamente, Don
Chisciotte! Perché c’è necessità di Don Chisciotte proprio quando l’ordinamento
formale si isterilisce e, parallelo, si impone un ordinamento reale; quando le
regole stabilite hanno perso il loro vigore, il loro senso fondativo, e restano
come pietre mute dove, di tanto in tanto, si va a posare un fiore ed un
pensiero nostalgico. Che ve ne siano di Don Chisciotte, dunque, quando pochi
individui riescono ad imporre alla massa l’ipocrisia delle forme! E se i mulini
a vento fossero davvero giganti oppressori? Se fossero esattamente come tutti i
poteri occulti esistenti nel nostro Paese? Incombenti, eppure circondati dalle
nebbie dell’indeterminazione; immobili, eppure onnipresenti, dotati di
articolazioni lente ma inesorabili; apparentemente inanimati e neutri, eppure
sempre determinanti?...
La nebbia stava diventando fastidiosa. Le mani, nelle
tasche del cappotto, gli si erano gelate, ma sudando bagnavano il tessuto. Si
sentì improvvisamente stanco ed annoiato, i piedi freddi, fuori posto. Decise
di tornare a casa. Pensò che non aveva quasi niente in frigo e si incamminò
verso il supermercato. Ancora una volta Lelia si infilò nei suoi pensieri.
Sarebbe stato bello passeggiare con lei, magari passare dalle vie del mercato e
fare con lei la spesa, lentamente, scegliendo tra i profumi e i colori delle
bancarelle. Chiacchierando, tra un acquisto e un altro, pregustando i sapori
tra la gente, carpendo scampoli di dialoghi avvolti dai richiami dei venditori.
E, invece, era solo, fuori luogo, annoiato ed innervosito dalle mani che
continuavano a sudare inzuppandogli le tasche di freddo. Tutt’altro era stato
il sudore la notte passata, aveva esaltato gli odori del corpo. Ricordava di
avere accarezzato lungamente i piedi di Lelia, umidi e morbidi, di averli
cercati durante l’amplesso, di averli leccati. Ricordava di avere pregustato
gli umori del sesso, di averne respirato l’odore e assaggiato il sapore, di
avere desiderato che il letto ne fosse inondato. Perché aveva concesso tanto a
Lelia? Perché si era concesso tanto? La voleva lì, voleva amarla ancora e mille
volte ancora frugare nell’incavo delle sue natiche, leccare la sua saliva,
annusare gli odori diversi della sua pelle…
Entrò nel supermercato con l’ansia di fare alla
svelta, di tornare a casa il prima possibile, lavarsi il volto e le mani e riposare
solo in un luogo asciutto e caldo. Quando era adolescente due ragazze avevano
segnato la sua sessualità. La prima non lo baciava mai con la lingua: ricordava
solo baci secchi e insapore. Spesso le aveva chiesto spiegazioni, ma non ne
aveva mai ricevute e quell’assenza totale di umidità tra di loro aveva
isterilito ogni sentimento. Si erano lasciati, un giorno, senza tante parole,
che pareva non vi fosse mai stato nulla a tenerli insieme. E, forse, così era
stato. Nulla era trascorso tra i due corpi, nulla di loro si era fuso,
mischiato, confuso. Nello stesso periodo era stato, forse per ripicca, con
un’altra ragazza che, invece, nei baci era stata sempre aggressiva: di quei
baci a bocca aperta, fin troppo, il ricordo restava non di saliva, ma di acqua
tiepida. Quella seconda ragazza aveva lasciato l’impressione del bagnato che
non sa di granché. Parlava molto, senza dire niente e, quando si lasciarono,
non servirono neanche le parole: semplicemente non si cercarono più. Due
ragazze, due storie, due eccessi che gli insegnarono cosa poteva dire il sesso,
la compagnia, il gioco d’amore senza sentimenti, compromissioni, pericolo di
dolore. E, per contrasto, gli suggerirono cosa poteva essere un rapporto vero e
intenso, pericolosissimo, ma saporito, ricco di profumi e violento di colori.
Le mani continuavano a sudare fastidiosamente, mentre
non riusciva a scorgere prodotti commestibili, tutti, come erano, ben rinchiusi
nelle loro plastiche. Del formaggio? Ma, confezionati, parevano tutti dello
stesso sapore di nulla: avrebbe voluto quantomeno sentirne l’odore. Carne? No,
ripensando allo strano sapore dolciastro delle salsicce dell’ultima volta.
Voleva andare via, via subito. Passando dal banco frigo si lasciò irretire da
una porzione per single di pasta alla bolognese. Fu conquistato dall’arancione
dell’olio che aderiva alla plastica trasparente della confezione. Sapeva di
unto, prometteva sapore e, soprattutto, dichiarava di andare d’accordo col
microonde. Prese anche una bottiglia di Chianti, qualsiasi, ed andò alla cassa.
Nessun altro in fila, per fortuna. Le mani della cassiera erano sporche. “Che
schifo di mondo è questo?”, pensò, guardando il volto di quella donna sciatta
che di donna non sapeva per niente. E pensò che doveva pur esserci un motivo
nella vita di quella donna a determinarne l’oblio della femminilità, della
minima cura di sé e del rispetto degli altri. Poi, ritirando il resto, provò
una tristezza profonda, e una nausea che dilagava nel gusto che già sperava in
bocca di quelle tagliatelle bisunte.
Allora! andiamo? No, non vengo. Come non vieni?!
Vestiti, e fai presto, e non rispondere. No! non voglio. Ma tu guarda tuo
figlio: non vuol venire. Hai capito! Anche a Natale vuol prender botte! Aspetta
caro, aspetta. Come non vuoi venire, amore mio: vuoi lasciare la mamma. La
mamma se ne va, e tu rimani solo. Vuoi rimanere solo? Tu hai paura di rimanere
solo. No, non ho paura. Voglio... Non voglio venire! Non voglio... No! No! papà
no! basta...
Maledetto! Sempre, sempre così! Picchiato
selvaggiamente cercando uno sguardo che ogni volta sembrava sempre più assurdo,
lontano, privo di senso. Subivo lo scatenarsi di una forza immensa, per me
bambino, e totalmente irragionevole: come si può subire un improvviso attacco
di un grosso cane che sfreni tutto il suo cieco istinto.
Come basta? Ne devi avere ancora, perché, se non si fa
così con te, non capisci. Papà... no... ti prego... ti prego... basta...
Sempre così! Soffrivo, ma non per gli schiaffi, non
per i pugni e i calci. Era il vuoto nel petto che mi aprivano quegli occhi
stupidi ed estranei: terribile. Come scivolare in fondo a qualcosa con il mondo
intero sopra che si richiude. I suoi occhi, quegli occhi mi facevano piangere:
feroci e sempre più: più piangevo e gridavo pietà, più cercavo la carne della mia
carne, più erano cattivi. Più chiedevo amore, più ottenevo lontananze
spaventose. Non dovevo piangere, questo mi ripeteva, e continuava a picchiarmi.
Non dovevo piangere, cercavo di impormelo ma non ci riuscivo, perché solo nel
pianto poteva esprimersi la mia rabbia. La mia disperazione non lo toccò mai.
Mai percepì la mia presenza. Mai sentì la mia angoscia e i mie tormenti. Eppure
non volevo essere confortato. Soprattutto non volevo un nemico.
Questo era stato il natale della sua infanzia. Per
anni, sempre lo stesso. Erano stati giorni pieni di doveri, ingombri di
obblighi, perché così si deve fare, e non se ne discute. Sempre ed a tutto
discapito delle sue ingenue speranze di calda ed avvolgente vita familiare. Più
immaginava un natale di amore, di attenzioni, di coccole e, perché no, di doni
e sorprese eccezionali, più era chiamato a rispettare ed interpretare le
formule astratte di cortesia che gli adulti si autoimponevano, e basta! Non
momenti di rilassato godimento delle cose più piacevoli, belle e buone, ma
tempo di imposizioni, di impegni e di vincoli. Erano stati giorni pesanti di
costrizioni, e di ribellioni pagate a caro prezzo, pagate con la moneta
dell’ostilità, del risentimento e del rancore. Giorni intrisi di solitudine,
mentre attorno fioccavano le parole melliflue e false dei bei sentimenti.
Lunghi e profondi momenti di sofferenza per un mondo adulto, quello dei suoi
genitori, che calpestava e devastava il suo piccolo e fragile mondo infantile.
Doveva fare l’uomo! Sentiva ripetersi, ma era solo un bambino, ed avrebbe tanto
voluto vivere serenamente quella sua età popolata di sogni e di teneri
affidamenti, senza doversi misurare continuamente con le amare disillusioni a
fronte del fitto reticolato delle ipocrisie degli adulti. E così, il presepe
era la capannetta comprata già bella e finita, completa dei personaggi che
devono esserci, e doveva stare lì, intatto, senza che ci si potesse giocare,
senza che lo si potesse arricchire come in quei begli esempi di costruzioni
ingegnose, dove, meraviglia!, c’è il laghetto con l’acqua vera, ed il
ruscelletto con la cascatella scrosciante, ed il fabbro che batte il martello
sull’incudine, e la sartina che cuce, e la cuoca che mesta nel paiolo, ed il
mugnaio alla macina che gira per il mulino ad acqua, e le case lontane
illuminate sul monte, e dietro il monte un cielo ben fatto che imita le varie
luci del giorno ed il buio stellato della notte… No, niente di tutto ciò era
mai stato possibile, perché il presepe era e doveva restare quel simbolo,
quella capanna comperata non per giocarci, ma per essere tenuta sopra un mobile
a rappresentare il natale. Tirata fuori dalla sua scatola e posizionata in
bella vista in un istante, negando quei bei pomeriggi e serate che avrebbero
potuto essere dedicati ad un giocoso lavoro artigianale di lenta e creativa
realizzazione. Quel natale della sua infanzia era stato tutto e solo un fare
ciò che si è sempre fatto e che si fa sempre allo stesso modo perché si deve
fare. Come le noiosissime visite ai parenti meno stretti ed amici di famiglia:
persone sconosciute o semisconosciute, cui, per dovere, mostrare affetto, cui
rispondere alle solite domande sulla scuola o di fronte ai quali passivamente
presenziare. Come i pranzi e le cene col menù della tradizione fatto, per lo
più, di cibi sgraditi per un bambino. Come l’assoluto divieto di guardare la
televisione, perché nei giorni di festa si deve stare in famiglia e parlare di
cose allegre e riappropriarsi delle belle relazioni umane, e si deve stare a
tavola finché ci stanno i grandi perché questa è la buona educazione. Come
l’imposizione triste dei riti orrendi della religione. E non c’è quasi più
spazio per potere giocare, sia pure da soli, in silenzio, per conto proprio.
Quello era stato il natale della sua infanzia, con un’attenzione nei suoi
confronti che era solo per i rimproveri ed i castighi… Non volevo partecipare a
quel natale dei miei, non volevo, protestavo e trovavo incomprensione totale,
suscitavo cattiveria, prendevo botte…
Accese una sigaretta. Non aveva ancora fumato in quel
dopo pranzo che si era così pesantemente addensato di grevi ricordi. Il fumo
gli parve particolarmente acre, troppo denso. Aria di chiuso, stantia, secca.
Laringe rigida: come un groppo in gola. Un secondo tiro: fumo caldo rovente
acido. Gola arsa. Basta! Niente fumo. Spense la sigaretta. Ancora: un nodo in
gola, e un sapore dolciastro e allappante lasciato dalle tagliatelle arancioni
da microonde.
Entravo in macchina. Stavo attento a non far rumore.
Dovevo il più possibile non dare fastidio, non fare sentire la mia presenza che
potesse riscatenare la belva. Dovevo non esserci. Ecco: sparire.
Terrorizzato... no! no, non ero terrorizzato. Più ci ripenso, più mi pare di
mettere a fuoco: ero schiacciato. Il mio intero orizzonte di bambino era come precipitato
su se stesso. Solo: in me, come un punto nel vuoto. Sul sedile posteriore.
Rappallottolato nel cappottino. Com’era comodo. Era bello, morbido ed aveva i
miei odori. Guscio. Zitto. Zitto: respiravo piano e sottile. Basta ora! Voglio
stare solo, pensavo, se il mondo adulto è una violenza così cieca e sorda,
lasciatemi dentro di me. Qui, buono, nel mio esistere al di qua di voi. Pensavo
alle botte. Vedevo gli occhi della bestia: odio. Poi ricordavo il vuoto esploso
nel petto, e il ricordo era sempre meglio, perché la ferita c’era ma potevo
leccarmela. Avevo sofferto. Soffrivo. Avevo ragione e il tutto fuori torto. Io
soffrivo, lì, in silenzio; lui non avrebbe mai saputo soffrire... per causa
mia! Quanto l’ho amato! Ero un bambino, non potevo non amarlo. Poi, imparai ad
amare solo l’incomprensione e l’isolamento. Forse imparai ad amare solo me
stesso, per difesa, le mie sofferenze... grandi e ingiuste. Non era giusto! Non
è stato giusto! Non è mai giusto negare a un bambino di essere un bambino!
La nebbia era diventata una luce grigia sulla città
silenziosa del dopo pranzo. Nel caldo della casa si lasciò avvolgere dal
torpore. Un abbandono dolce, desiderato. Dormì per più di un’ora. Quando si
alzò dal divano lo fece lentamente, tentando, in quel modo, di conservare la
tranquillità che, ora, gli occupava il cuore. Andò alla finestra e tuffò lo
sguardo, ancora pigro, nel buio rotto dalla luce dei lampioni.
Finalmente sera! C’è vento. La nebbia si è alzata e
adesso è una cupola che riverbera, arancione, le luci della città. Le lampade
sospese tra un palazzo e l’altro nelle vie più strette si sfrenano rimbalzando
l’illuminazione di qua e di là. Fa freddo, si vede. Poca gente. I botti dei
ragazzi si rincorrono continui, lontani e vicini. È presto ancora. Immagino tra
qualche minuto, alla chiusura degli uffici. Tutti a fare compere... È tardi,
siamo agli sgoccioli…
Andò in bagno. Sciacquò il viso saggiandolo lentamente
tra le dita e nelle palme delle mani. Fresca sensazione di risveglio, nella
casa però piacevolmente calda. Prese poi una tazza di caffè, freddo, di quello
avanzato dalla mattina, solo per preparare la bocca ad una sigaretta. Pian
piano, però, rimontava un certo nervosismo. Lo stomaco non era proprio a posto:
le tagliatelle si erano trasformate in una digestione laboriosa e sgradevole.
Avrebbe fatto meglio a cucinare qualcosa da sé, ma non ne aveva avuto voglia ed
ora doveva tenersi l’acidità di stomaco. Va bene: si sarebbe messo in moto,
sarebbe uscito, avrebbe camminato e tutto si sarebbe aggiustato, anche l’umore.
Vestì il soprabito e uscì di casa. Si frugò in tasca,
ne cavò le chiavi dell’automobile. Vi salì. Un gelo fermo e duro sul sedile.
Partì piano, con l’intenzione di fermarsi a passeggiare appena un posto lo
avesse ispirato. Il natale sorgeva dai bui marciapiedi di periferia occupati da
bancarelle di fuochi d’artificio e da gente dell’Europa dell’Est con la sua
stramba mercanzia che suscita immagini di eserciti in rotta e di ospedali
cadenti. Il traffico andava aumentando… Ecco: il ballo orgiastico e
sacrificale. Folla, confusione, luci, aria fredda carica di profumi, di odori e
di richiami. 18.30: corsa in maschera; flusso di vacue follie; vetrine
luccicanti; esposizione di cibi intensi per gli occhi e inebrianti per i nasi;
passerella di storpi; parata di coscienze zoppicanti; fiera di ansie ed
angosce maldestramente tamponate; rassegna di rigurgiti di sofferenze.
Guardali... guardali... Impazziti... Nevrotici...
impegnati in una danza sfrenata, senza più veri sogni o anche illusioni. Imbottiti,
invece, di immagini e soprattutto di bisogni, cavati fin nel midollo dalla
tivvù. Felici, però, anche se a comando: il calendario – giorni fasti e nefasti
come al tempo dei Romani – prescrive anche i sentimenti e gli stati d’animo.
Così, anche la fatica di scegliersi l’umore è risparmiata. Sono felici e tutti
più ben disposti verso il prossimo, perché anche la bontà è da calendario. Un
po’ avvoltoi, un po’ carogne, un po’ assassini, un po’ ladri, ogni tanto
samaritani: ha il suo vantaggio, non ci si annoia mai. E, soprattutto, in
questo modo, il calendario ha definitivamente abolito l’odioso onere della
coerenza, che è diventato un pericoloso vizio: essere fedeli a se stessi prima
che ad altri ed a garanzia di affidabilità per il prossimo è comportamento
sospetto, da individualisti, tendente alla sovversione; in ogni caso,
atteggiamento rigido e scomodo. E via coi regali! I doni... Si odiano, si
detestano, si ammazzerebbero subito se non avessero una pavida coscienza
inscritta che li fa muovere come un motorino a molla, ma più si odiano più si
scambiano costosissimi simboli di stima. Per non parlare del fastidio di
comprarli, questi regali! Gregge di ipocriti maledetti! Tutti perfettamente
incasellati in spazietti cubici, regolari, impermeabili come la loro anima.
Vita: la chiamano così. La mattina si svegliano con il “ti–ti” o
“tititi–tititi” della sveglietta ultrapiatta, ultraprecisa, ultragiapponese,
ultramaledetta. Si alzano eroicamente specchiandosi nell’aurora
dell’efficienza. Fanno colazione (di quelle che fanno bene alla salute, per
carità) e guardando il calendario appeso: “Cara, tra sei giorni è Natale: che
regaliamo a quell’imbecille che deve farti quel favore? Ah, e poi dobbiamo
anche fare il regalo a quel cretino... Come si chiama?... Che idiota
comunque...” E poi escono di casa, tutti alla stessa ora, per inondare di
traffico le stesse strade, per bloccarsi a vicenda, per pestarsi i piedi,
alitarsi in faccia, respirare la stessa aria viziata, sgomitare strofinandosi
gli uni con gli altri, calpestando i più deboli e fragili. PAZZIE! Pazzie...
Teatro di miserie dove mai cala il sipario liberatorio. Fingere. Presentarsi e
ripresentarsi...
Prese la prima stradina che vide buia per fuggire
dall’ingorgo di auto e di gente sempre più fumoso, che godeva di stare lì bene
ammassato, ben strettounito. Raggiunse nuovamente una zona un po’ periferica
ma, in compenso, il silenzio e la calma. Ancora, su un marciapiedi a poca
distanza, una bancarella che ricordava le feste e il rumore dei botti.
Desiderio di una passeggiata, di una sigaretta gustata
nel freddo nero in cui brilla ad ogni tiro il tabacco bruciato, e l’odore
dell’aria gelida. Un po’ in solitudine…
Accostò l’automobile, scese. Si strinse nel soprabito.
Accese una sigaretta e prese a camminare lungo una siepe che gli parve
umidodorosa, degli odori dell’inverno e non del natale degli esercizi
commerciali.
Rumore dei passi sull’asfalto bagnato: un piacevole
ritmo nel freddo silenzio della sera. Ogni tanto un po’ di vento. Profumi
freddi, quasi impercettibili, vengono da quel buio disteso sulla campagna. La
luce d’un lampione m’investe, ma solo per un istante. Torno a godere del vento
che giunge scivolando dalla notte col suo brontolio ora cupo ora sibilante.
Luna: a tratti nelle smagliature della veloce trama di nuvole. Un po’ d’umidità
s’addensa e prende a fluttuare colpita dai tremanti fasci luminosi dei lampioni
picchiati dal vento. Qui le macchine sono poche. È un vialone che, in questo
punto della città, la delimita dalla campagna che è lì, dall’altra parte della
strada, e si vede ancora e si sente, c’è, dentro quel buio che è un sollievo
saperlo. Qui c’è almeno mezzo chilometro di marciapiede, fino alla rotatoria
che poi si esce definitivamente dalla città, dove si può passeggiare senza
temere di incontrare qualcuno che ti rompa i pensieri se hai qualcosa da
pensare.
Qualcosa da pensare Mario l’aveva, perché ciò che era
avvenuto la notte prima con Lelia, forse, non sarebbe dovuto avvenire. La cosa
si stava rapidamente complicando e lui non si sentiva affatto preparato a
gestire tutto quanto gli si andava ingarbugliando dentro. Che era come quelle
nuvole nel nero che andavano, andavano e s’ammassavano senza ragione, tutte
uguali nel grigio ma diverse nelle forme passando davanti alla gelida luna.
Qualcosa da pensare l’aveva, ed era insieme piacevole e sgradevole.
S’interrogava su quale aspetto fosse prevalente, ma non riusciva a fare un solo
passo avanti in quella valutazione. Così restava come intontito, con una gran
voglia, però, di riprovare quella oscillazione.
Ecco un bar, all’angolo di questo edificio. Prenderò
un boccale di birra, e magari qualcosa da sgranocchiare, per sistemare lo
stomaco. La birra ammazza l’unto, rinfresca i sapori pesanti e, a volte,
alleggerisce i pensieri. Tira molte sigarette, questo sì, e fa orinare, ma non
impegna.
Toh, sembra carino però! Vedo, al di là della velatura
dei vetri leggermente appannati, tavolini di formica rossa dalle lunghe
gambette in alluminio... esistono ancora. Anche pizza al taglio, dice un
cartello, e panini caldi. Un’aria vecchia ma, tutto sommato, accogliente. Due
figure giovani si indovinano al bancone, e parlano tra loro con il bicchiere in
mano, aiutando il locale a sopravvivere alla sua età. Ad un tavolo d’angolo,
addirittura una partita a carte tra vecchi con la bottiglia di birra in mezzo e
il fumo di sigarette. Un vecchio solo, ad un altro tavolo, beve vino. La sua
mano, stretta al bordo del tavolino, è bruna come le olive e la presa è
vigorosa. Guardo con più attenzione e mi accorgo che quel vecchio non è un
vecchio e lo conosco. Caspita se lo conosco… Sì, mi sembra proprio lui.
Si spostò dall’allucinato riverbero della luce del
neon, ritirandosi nel buio. Cadde a sedere su un muretto basso. Nel pensiero
l’immagine di quell’uomo: era lì, completamente rilasciato sulla squallida
sedia e lo sguardo sulla bottiglia o su qualcos’altro davanti a sé. Con gli
occhi socchiusi, gli era parso. Soltanto la mano sembrava viva ed energica. Una
mano naturalmente bellissima, per la forma, il colore e le vene in rilievo. Una
mano da gente vera che le mani usa tutta la vita per lavorare a contatto con le
cose, artefatte o naturali, e che poi, ad una certa età, quelle mani mette in
tasca, come aveva già fatto solo di domenica, e va in giro per il paese con in
dosso, tutti i giorni, l’ultimo vestito buono. Una mano così, capitata però ad
uno che l’aveva adoperata per sfogliare libri e maneggiare penne. Che l’aveva
usata per delineare i percorsi del sapere, per individuare ed indicare
orientamenti culturali, per porgere a fragili menti adolescenti i vertici del
pensiero. Quella mano era stata convincente e rassicurante; aveva sfogliato il
registro di classe senza diffondere ansie e paure. In quelle mani i libri erano
sempre sembrati meno distanti dalla vita, come rianimati di sangue e carne.
Degni di essere “maneggiati” e gradevoli al tatto.
Sì, era lui ed era lì, ad un tavolino traballante di
uno strambo bar–pizzeria d’asporto ai margini della città. Solo, a bere vino ed
a masticare i propri pensieri. Mario si ricordò che un qualche suo conoscente
gli aveva parlato del “professore” un po’ di tempo addietro. S’era
rincoglionito del tutto, gli era stato detto, s’era sputtanato con tre o
quattro piazzate da alcolizzato a margine di alcune conferenze e presentazioni
di libri. Aveva preso la parola e, dopo qualche riflessione che poteva parere
anche normale, aveva cominciato ad insultare i relatori, i presenti ed anche
qualche illustre assente. Insomma, in men che non si dica era diventato lo
scemo della città. Un ubriacone, un cretino, un pericolo imbarazzante al solo
scorgerlo in lontananza. E la cosa, purtroppo, gli era parsa credibile, anche
se erano anni che non lo incontrava. Gli era parsa credibile, perché quel suo
professore era sempre stato, in fondo, un bastian contrario, uno che faceva
mostra di saperla sempre un po’ più lunga degli altri.
Ma allora è proprio vero!... Ricordo che spesso diceva
ridendo sereno: “Smetteremo mai di prendere a calci la coscienza?”. E beveva
parecchio, questo da sempre, e fumava tantissimo. Non si dava tanta pena per la
salute. In verità, prendeva in giro un po’ tutti, ma sempre bonariamente,
almeno così sembrava, “filosoficamente”. Smontava le certezze altrui e, con
esse, le relative posture assunte, ma sempre con un dialogo dai toni leggeri e
fraterni, tanto che nessuno pareva mai sentirsene travolto ed offeso. Ed
infatti era circondato da simpatie e da un rispettoso riconoscimento,
nonostante, in fin dei conti, sbeffeggiasse un po’ tutti e un po’ in ogni
circostanza.
Ma sì, forse ha ragione lui, se la ragione ha senso in
questo caso. Si sarà stancato di usare la gentilezza ed il garbo per affrontare
la cocciuta ottusità. In realtà, mi ero sempre chiesto da dove prendesse la
forza per quella apparentemente inscalfibile serenità con cui affrontava la
pervicace cretineria che aveva intorno. Mah, alla fine, si sarà semplicemente
stufato di affrontare “filosoficamente” tutta questa ignobile pagliacciata e,
alla fine, se ne è tirato fuori. Capita di perdere la voglia di parlare, quando
ti sembra di restare a parlare da solo…
Ventata gelida sul viso: respirare l’odore del freddo:
aria dura sul naso.
Vado a parlargli e... magari riesco a fare due passi
con lui. Potrebbe essere bello, dopo tanti anni, così, un po’ per caso,
riascoltare quei suoi ragionamenti che ti spiazzavano sempre regalandoti la
ricchezza, ogni volta, di una visione del tutto nuova su qualcosa che ritenevi
non potersi vedere che in un modo solo. Certo, non mi sembra messo tanto bene.
Anche qualcuno dei vecchi compagni del liceo mi aveva detto che ormai faceva
una vita strana, randagia. Aveva anche lasciato la donna che sapevamo, quella
da cui era andato a vivere dopo avere lasciato la moglie. Mi rendo conto di
vederlo ancora con gli occhi del liceale, quando ci pareva essere uno dei pochi
uomini liberi, un simbolo per l’adolescenza. Uomo libero… Una volta lo
incontrammo con lo spazzolino da denti che gli spuntava dal taschino alto della
giacca. “Di che altro hai bisogno quando dormi fuori casa… e non sai nemmeno in
quale letto finisci…” ci aveva detto sorridendo con quel suo sorriso denso di
ironia e, insieme, dolcissimo, quasi infantile. Ne avevamo eretto un mito nei
nostri pensieri. Un uomo libero, veramente libero, l’unico che conoscevamo.
Forse c’è che costano certe libertà… libertà radicali, da tutto e da tutti… e
finisce poi che diventi miseramente un vecchio orso che non incute più alcun
rispetto o timore e che neanche suscita pena, ma solo fastidio e disprezzo…
Entrò nel bar, provando un immediato disagio per la
luce troppo chiara ed intensa e per il caldo fumoso irrespirabile. Il locale
risultava particolarmente maleodorante, angusto ed opprimente.
Due ragazze, molto simili nei lineamenti, brutte,
erano dietro il bancone. Sorridenti, coperte da quella peluria mascolina delle
donne trasandate, parlavano ai clienti in quel chiarore al neon oleastro tra la
caligine puzzolente che ti porti poi via per giorni sopra gli abiti.
“Cosa prende lei, signore?”
“Ah, sì, una birra in boccale... una spina media... E,
senta... pago anche quello che ha preso quel signore, lì, seduto a quel
tavolino.”
“È un suo amico?” facendosi seria e compunta, gli
occhi acconciati a sguardo pietoso, cambiando totalmente fisionomia, come se
avesse diverse facce pelose da adattare alle circostanze.
Gli ripugnavano, quasi come null’altro, quelle
espressioni che molti sanno tirare fuori, così, all’improvviso, per fatti a cui
sono del tutto estranei e verso i quali, invece, sembrano avere necessità di
mostrare compassione. Che fastidio quegli occhi brutti e falsi... Il dramma
dell’incomunicabilità... questo è! Chissà cosa prova davvero questa brutta
ragazzotta? Niente di autentico, ovviamente: prova, anzi mostra di provare
quanto crede di dovere provare in circostanze come questa! Cosa guardano i suoi
inutili occhi? Mah, certo vedono poco, e molto offuscato da lacrime troppo
facili… Chissà quante cose non guardano e non sapranno mai guardare…
“…Perché, sa?, è un po’ che il… “professore” viene
qua... Lei lo conosce, mi pare di capire… Forse sa che… Insomma, è un uomo per
bene… Non che crei il minimo problema… È per lui, più che altro, che dico… se
mi permetto… Sa, la sera, quando chiudiamo, spesso mio fratello deve portarlo
fuori quasi a peso morto. Poi, spesso c’è proprio di riportarlo a casa… Non si
può lasciarlo solo, in quello stato, come un cane in mezzo alla strada…
Insomma, capisce per… il decoro… del “professore”, dico… e anche un po’ per il
nostro locale. Che, comunque, a vedere certe scene non è che invogli poi tanto
la gente, no? Lei capisce sicuramente…”
“Sì, sì, ho capito.” La interruppe con un tono e un
espressione seccata che non riuscì proprio a trattenere. E pagò, mentre il
volto peloso e occhiuto s’irrigidiva risentito.
Eccole le comuni brave personcine: donnina
insignificante che sorride a tutti per mestiere e senza rendersene più conto,
probabilmente; guscio vuoto privo di umanità vera; occhi meccanici. Cercava il
suo quarto d’ora di significanza: rappresentare compassionevolmente un “caso
umano”, il “suo caso umano”. Chissà cosa avrebbe detto se l’avessi lasciata
continuare: si stava tanto infiammando di carità nel suo teatrale
interessamento. Con quell’aria grave che si era stampata in faccia per parlare
di quel tipo lì da aiutare.
Prese una sedia e l’accostò al tavolo sotto lo
sguardo, adesso, dolcematerno della ragazza pelosa. Non vuole rinunciare al suo
quarto d’ora, proprio non vuole rinunciarvi.
“Salve professore!” Disse con voce ed espressione che
si fecero repentinamente incerte nell’osservare i lineamenti mutati in quel
volto, rispetto a quanto risultava nella sua memoria.
Non sbarbato, il naso ingrossato ed offeso da
foruncoli e rigonfiamenti; gli occhi stanchi acquosi, protesi all’esterno tra
palpebre avvizzite. Un colore grigio e verdastro sul viso, tracce rosse nel
giallo degli occhi. Quel volto appariva malamente invecchiato.
“E tu chi sei?”
“Professore, sono io... Mario Prandi.” Si sedette,
imbarazzato di fronte a quegli occhi che erano di vita faticosa, stanca ed
indisponibile. Prese un gran sorso di birra per fare qualcosa. Si sbottonò il
cappotto. Si aggiustò più volte sulla sedia. Alla fine, guardò dritto davanti a
sé il professore per pretendere un riconoscimento.
“Ah, sì, vedo. Bene... e... cosa vuoi?”
La voce, il timbro, il movimento delle labbra parevano
gli stessi, ma un’espressione nuova apriva una estraneità che Mario non si
aspettava.
“Ma... si ricorda di me?”
“No! – e sorrise serenamente, quasi dolcemente – Che
pretese… Come posso ricordarmi di te, se non ricordo neppure me stesso... Io
non ricordo, preferisco non ricordare. Preferisco non fare questi inutili
sforzi che divorano energia. C’è, poi, da considerare che la memoria è come un
cumulo di terra o di sassi o di macigni, che non fa che aumentare il nostro
peso… Io voglio essere leggero... Io vorrei essere un po’ più leggero. Capisci?
Per questo non voglio ricordare, non voglio ricordare niente di niente... Anche
se… non è che sia tanto semplice. Non siamo tanto semplici. Non siamo macchine
col pulsante del reset. Questo è il guaio della raffinatezza – o della totale
imperfezione – di quello che siamo. Non abbiamo pulsanti di ripristino puro e
semplice. Eppure, quante volte lo vorremmo con tutte le nostre forze. Il
rimedio, la reversibilità, la possibilità di tornare indietro e correggere o,
più semplicemente, cancellare. Eh no! Non c’è questa possibilità. Ma quanto lo
desidereremmo, quanto lo vogliamo!... Voglio, voglio, voglio… Più vuoi, più
giri a vuoto, e più vuoi e più non sei... Tu, per esempio, sei qualcosa? Credi
di essere qualcosa? Il tuo nome?... Credi questo? Eh, bello mio, se credi
questo… Non sei altro che un’insegna... Chi ti ha dato un nome?... Certo, non
te lo sei dato da te, te lo ha dato qualcun altro. Non ti sei dato, sei stato
dato. Eppure, credi di essere, di essere così come credi, così come ti immagini
di essere… No no, dammi retta: non sei, non esisti, ed è pure meglio se ci
pensi bene, carissimo inesistente… Esistere è un atto di tale presupponenza…
Quante risorse ci vogliono per supportare tanta arroganza?... Comunque, se ora
sei seduto, qui davanti a me, se sei venuto in pace per bere e per offrir da
bere, ben venga la tua compagnia. Vuol dire che per qualche istante esisterai.
Sarai qualcosa, perché esisterai per me. Le risorse le spenderò io per farti
esistere. Sarò il tuo dio e tu sarai la mia creatura. Ti trarremo per un po’
dal non essere all’essere.” Riempì il bicchiere e lo bevve con un solo lungo
sorso. Inspirò profondamente, guardando Mario con un lieve sorriso, ancora una
volta con la dolcezza d’un tempo. Stese le braccia davanti a sé ed afferrò saldamente
a destra ed a sinistra i bordi del leggero tavolino. “Ah, il vino! Come negare
il suo divino caldo sapore, unico amico fedele e traditore (sì, traditore,
questo è vero… ma l’unico anche fedele… d’altronde le due cose vanno sempre in
coppia), e lascia dir li stolti che l’acqua frigida credon ch’avanzi. A voce
più ch’al ver drizzan li volti, e così ferman sua oppinione prima ch’arte o
ragion per lor s’ascolti. Ah ah ah, si dia credito almeno a Dante. Parlava
sette secoli fa: vita bestial mi piacque… A voce più ch’al ver drizzan li
volti. Ma, la vedi questa immagine!? A voce più ch’al ver drizzan li volti… Che
potenza descrittiva… Una piazza gremita… facce, come punti fittamente
accostati, l’una affianco all’altra… facce di quelli che mi destano maggiore
antipatia… – tu mettici le facce che vuoi, io ci metto quelle che mi stanno sul
cazzo – e quelle facce ad un rumore, il più sciocco, si volgono – di ver go no
– tutte insieme inebetite nella stessa direzione... Hai mai riflettuto sul
termine “divertimento”? Eh, quanto è usata questa parola! Divergere, e anche
questo mi richiama quell’immagine e le parole di Dante. Caro mio, qui tutti
divergono, divergono affannosamente, bestialmente attratti… continuamente
dis–tratti da un suono, un rumore, un boato… da un lampo, da una luce nel
buio... Fermatevi, no? dico io, e posate... Anzi, anzi, anzi… continuate pure,
fate, fate come meglio vi viene, o come preferite. Mi fermo io… Mi fermo qui a
bere qualcosa, e che il diavolo mi porti… BISOGNA RISPETTARE SE STESSI! tuona
il mondo. No, lo senti? L’imperativo è ovunque, è unico, ossessivo: la cura del
corpo! La costruzione del fisico, dell’immagine. Dobbiamo essere immagine
accettabile, immagine vendibile. Quindi palestra, cibo selezionato, via tutto
quanto intacca la carne. Privazioni, privazioni medioevali. Dobbiamo educare la
carne per… venderla meglio al mercato quotidiano delle relazioni umane… che
sono relazioni tra figure che si dispongono in vetrina l’una di fianco
all’altra… Questo è il “rispetto di sé”…Tenere in piedi queste quattro ossa, se
serve con accorte e meno accorte imbottiture, una pelle ben stirata e quattro
fili di plastica che ti spuntano dal cranio. Devi solo fare finta di niente
quando senti quelle urla. Eh sì, perché prima o poi tutti le sentono quelle
urla. Quelle urla che si formano dentro lo stomaco, che ti assaltano da dentro,
che ti squarciano la gola esplodendovi dentro! Di chi sono? Da dove vengono
quelle urla? Che cosa urlano quelle urla? Silenzio, qui nessuno risponde,
nessuno parla più, si aspetta solo che passino, che svaniscano come un incubo,
che tornino nel silenzio…
Lo sai cosa ci vorrebbe, in realtà? Una rilevante
quantità di denaro. Sta a sentire, la cosa è terribilmente semplice e il
concetto banale, ma è la verità: domani ti svegli e ti trovi sul comodino un
bel libretto con su scritto che hai in banca cento milioni o anche un po’ meno.
Cosa fai? Puoi essere ancora disperato? Eh no, no certo. Cosa te ne frega del
fine ultimo quando ti trovi in mano cento milioni... o anche meno? Spendi,
spendi. Possiedi, possiedi. E fai star zitta la tua testa marcia. Questa è la
vera conoscenza: conoscere le donne più belle (e lo puoi fare ché hai cento
milioni o anche meno), puoi conoscere i posti più belli (ché hai sempre quei
cento milioni), puoi attraversare tutte le esperienze di questo mondo... E
quando hai capito (bada allora di aver finito i soldi) ti spari una pallottola
in fronte, ed è finita la storia (tanto la storia deve finire comunque…). Sì,
finita una sciocca storia, la tua sciocca storia, che non è né più né meno
sciocca di quella di Federico II, intendimi bene! E invece no, noi fatichiamo
per avere mezzo euro in tasca. E, per capire, dobbiamo prendere la via più
difficile, la via al contrario: dalla tristezza alla felicità. Via impossibile!
Invenzione! Balla! E, alla fine, non possiamo neppure spararci in testa. E lo
vuoi sapere perché? Perché non hai gustato nulla, non l’hai posseduta la vita.
E anche se sai che è uno schifo, un groviglio di rifrazioni, un maledetto caos
senza senso, lo sai così, nelle idee, non perché tu l’abbia assaggiata tutta,
divorata e digerita. Eh eh, siamo spacciati, caro mio, finiti e forse mai
iniziati. Storie sciocche, vissute e morte scioccamente. Credi ci sia altro?
No, è tutto qui. È semplice, in fin dei conti, oscenamente semplice! Ed è per
questo che noi facciamo di tutto per farcela più complicata. Perché è
intollerabile l’idea che le cose stiano in questo modo, così meschinamente
semplice da essere del tutto insignificante. Questo è: è intollerabile essere
insignificanti!”
Si riempì un altro bicchiere vuotando la bottiglia, e,
questa volta, lo fece molto lentamente: Parve gustare il suono del vino e il
suo lucente colore rosato. Alzò il bicchiere, pieno per metà, e i lineamenti
del volto si distesero per un attimo, offrendo un’espressione ancora una volta
indecifrabile: dolcezza e vuoto. Volto immobile, esanime. Muscoli e nervi senza
vita, rilasciati, cascanti in un’immagine che si disgrega. E guardando ancora
il bicchiere: “Questa è l’unica cosa...” Diede un sorso. “Non possiamo più
illuderci, possiamo ridere di tutto mentre il sorriso ci brucia le labbra,
mentre quel riso viene risucchiato dentro nel dolore. Siamo sassi lanciati
nello spazio vuoto, in cui non c’è direzione: ogni linea, ogni traiettoria è
esattamente identica a qualsiasi altra possibile. Lanciati e fermi allo stesso
tempo. Con l’ansia di orientarci nel nulla, con la necessità di ripetere tutte
le misurazioni in ogni istante, perché ogni secondo siamo in un punto diverso,
siamo altro da quello che eravamo un secondo prima. Il timore di perdere quel
secondo prima e tutti i secondi che sono stati… Senza un vero orizzonte. Hai
presente il sole di mezzanotte? Così, quella è la nostra vera condizione:
immutabile, allucinante. Non c’è vero trascorrere di niente, non c’è alcun
reale cambiamento se non dentro la nostra testa, che si costruisce
caparbiamente un movimento, una meta da raggiungere; un percorso di punti
disuguali, che invece sono sempre nello stesso punto. Il giorno diverso dalla
notte, le settimane, i mesi, gli anni, non esistono, non ci sono, non hanno
verità… Come uno stupido orologio automatico i cui meravigliosi ingranaggi
girano e girano su se stessi per non muovere, alla fine, nulla. Come sassi,
duri e stupidi, abbandonati nel vuoto, a costruire un pieno che non è,
disorientati, disallineati in ogni istante dopo il precedente. Impossibile
cogliersi: cogliersi sarebbe morire, precipitarsi dentro irrimediabilmente…
irreversibilmente…”. E qui tacque e, appoggiatosi pesantemente sul tavolino,
chinò la testa e rimase così immobile. Era sparito anche quella specie di
sorriso che gli dava ancora sempre dolcezza. Ora quel volto sembrava essere
solo linee ed angoli.
Chissà cosa vede la sua mente?... Parlarsi... boh!...
Chissà che pensa davvero, ed io che cosa dovrei capire dalle sue parole, che
cosa dovrei cogliere nelle sue parole. Ognuno ascolta e comprende quello che
vuole, senza accorgersene, naturalmente, per sé, a difesa di sé. Siamo sfere
impenetrabili e, certamente, non nel migliore dei mondi possibili. Chi potrà
mai capire; chi potrà mai comprendermi?... Comunione delle anime: che fantasia!
Comunione dei corpi, questa forse sì, momentanea, occasionale, determinata
dalla onniconnettiva legge universale della perpetuazione. Pensare quante matte
fantasie abbiamo costruito sopra un impulso meccanico…
“Professore, vuole che l’accompagni a casa?”
Non si mosse per qualche istante. Poi alzò gli occhi
su di lui: “Io adesso vado a pisciare: è il sacro corpo che lo richiede. Tu,
intanto, fa’ il piacere di andare. Torna pure nel non essere. Dai retta a me…”
Mario seguì con lo sguardo il professore alzarsi
lentamente ma senza indugi, tirarsi in piedi dritto, alto in una figura
vigorosa. Lo seguì, ancora, mentre apriva una porta per poi richiuderla dietro
di sé. E pensò di lasciare la cosa alla madreteresa dei bar che sembrava trarre
un gran gusto, in fondo, dall’occuparsi del “professore”.
S’alzò e uscì dal locale. Gelo sul viso. Piedi freddi.
Accese una sigaretta. Salì in macchina, mise in moto e si avviò verso casa
senza pensarci, senza pensare quasi: la birra faceva il suo rilassante
momentaneo effetto. Mente libera: leggerezza, di cui ci si accorge poi, quando
viene a mancare.
Giunto a casa, però, l’idea d’essere lì non lo
infastidì: l’incontro con quel suo professore del liceo aveva lasciato una
sensazione sgradevole. Lo ricordava come un uomo dall’intelligenza inusuale,
capace, attraverso un particolare, di illuminare problemi di qualsiasi tipo, da
quelli storici a quelli filosofici, da quelli letterari a quelli di cronaca.
Soprattutto, sembrava una persona che sapeva vivere meglio degli altri, più
intensamente, con consapevolezze diverse, sereno… Ora, la vita del professore
non sembrava più quel che era parso a quei liceali di un tempo…
Si sedette accanto al camino ancora caldo. Brace
rovente. Scintille. Scoppiettii. Rianimò meccanicamente il fuoco. Rosso,
giallo, azzurro, blu, nero. Vita. Movimento. Divenire. Desiderio di partecipare
a quella energia. Potenza, movimenti arcani, forze misteriose. Cos’è questo
uscire dal nulla delle cose… per essere?...
Rimase lì, ipnotizzato dalla fiamma che sgorgava da
chissà dove, per molto, assistendo allo scorrere indipendente dei suoi
pensieri, quasi immagini continue: correre di luoghi, persone, fatti, parole.
Pian piano la mente sembrava aprirsi, vagando, su uno spazio infinito di
afflizione – quel consumarsi per essere vita… e la grande presupponenza
dell’essere… – eppure rassicurante, forse abbracciava e intuiva qualcosa, forse
girava e rifluiva su se stessa; si ingannava o forse coglieva per un attimo, un
secondo inafferrabile… Ed il pensiero era leggero in quei momenti, si dipanava
rapido, sorgeva come dal nulla ed accoglieva tutto, per poi smarrirsi. Lui era
lì, immobile, gli occhi inanimati, l’espressione del viso indecifrabile.
Non spesso cadeva in tali stati di meditazione. Giusto
definirla meditazione? Mah... Forse, meglio dire visioni? Certo è che c’era in
quei momenti un abbandono della coscienza ad una sorta di autonomia cerebrale.
Momenti che lo avevano travolto da ragazzo, e che, poi, dopo l’adolescenza
erano diventati meno frequenti. Quei momenti, ancora oggi, non mancavano
d’angosciarlo nel momento in cui, svaniti, restava di loro ancora un’eco, un
senso sul quale bisognava riflettere. E quando questo senso, quasi un alito, un
soffio profondo, s’accostava naturalmente a ciò che definiamo realtà, si
rivoltava in un istante d’assurdo devastante. Un istante che svaniva
immediatamente, perché, quasi avvertendo istintivamente un immane pericolo, il fisico
rispondeva meccanicamente a quello che era un patimento interiore: s’alzava
bruscamente se era seduto; se era in piedi, lo sguardo assente, prendeva ad
interessarsi di qualcosa, qualunque cosa, freneticamente. A volte aveva tentato
di capire, di spiegarsi... di dare un significato a quella intuizione di un
tutto che, in un attimo, precipitava nel nulla. Inutile lotta con la vertigine,
con la paura? Subito sfiancato, era respinto, rigettato nel reale, nel continuo
stordimento, nella normale continuità. Come fare? Che fare? L’inquietudine e il
turbamento eccessivi diventavano essi stessi narcotizzanti. Tutto in un attimo
era dimenticato. Tutto finiva. Tutto era perduto. E, forse, era meglio così...
Si alzò: decise di rituffarsi tra la gente, voleva
rotolarsi nella fiumana caldodorosa di persone gioiosofestanti...
Partecipiamo... sì... a quel tripudio... “Divergiamo”. Aveva, in fondo,
bisogno di piccole cose in quel momento, di piccole care cose rassicuranti…
Giunse in centro ma dovette tornare verso la periferia
per parcheggiare l’automobile. Tutti i parcheggi traboccavano di autovetture.
Lasciata l’auto, s’incamminò verso il centro. Il primo
tratto di strada risultava deserto di pedoni. Poi, quasi improvvisamente, si
trovò immerso in un fiume di gente. Si procedeva a stento. Cominciò a provare
un fastidioso disagio... Era come essere fuori posto. E d’altronde lo era, lui
che di quel baccanale non voleva fare parte. Era nel posto sbagliato, nel
momento sbagliato, con lo stato d’animo incoerente con tutto quanto viveva
fuori di lui. Non aveva da fare regali, o, in generale, compere collegate con
le festività. Non era lì per gioire con altri di non si sa che cosa… Detestava
quelle carnevalate, ed ora ci si era messo dentro… Era solo, ecco il punto.
Tutti camminavano in compagnia, ridevano, si tenevano stretti, ondeggiavano, si
fermavano, ripartivano a stento… e lui da solo. Come quando vedi un cane
randagio capitato in mezzo ad una folla. Spaurito, disorientato,
nell’indifferenza pericolosa degli umani. Che ci faceva da solo, isolato? E,
per questo, preda degli sguardi altrui. Così si fermava davanti alle vetrine e
fingeva nervoso interessamento come a gridare a quella folla: “Sono qui per una
commissione importante che voi non sapete! Sì, sono qui perché ho urgenza di
fare un acquisto... cosa mia, che non vi riguarda... fatevi gli affari vostri
una buona volta!”
Terribilmente indispettito, era sul punto di cercare
un pretesto per tornarsene a casa e rinchiudersi. Le mani avevano ripreso a
sudargli fredde nelle tasche del cappotto. Quando vide, tre o quattro persone
davanti a sé, Milvia: la sua giustificazione! Milvia, che non mancava di
esserci nella sua vita per accarezzarlo ed asciugarlo quando era fradicio di
solitudine… Milvia, una sua vecchia e cara conoscenza. Milvia, che avrebbe
desiderato averlo come suo uomo da sempre (almeno, così pensava lui), ma che
nulla aveva mai fatto per forzarlo. Milvia, che lui amava amare con passione
ricorrente, di tanto in tanto, senza contrarne obblighi. Una sua amica, vera,
ma anche amante. Donna non particolarmente bella, ma di una affascinante
intelligenza e sensibilità. Attraente per la cura raffinata ed infallibile
della propria figura. Ricordava di averla trovata irresistibile anche in una
occasione in cui l’aveva incontrata intenta a correre: indossava un completo
sportivo di ottima qualità, alla moda, che lasciava scoperto l’ombelico ed
esaltava la perfezione dei seni, le torniva le coscie e si incavava nel pube
alla perfezione, disegnandole sul didietro un culo perfetto; in testa aveva una
fascia per i capelli bianca che le contornava il volto esaltandone i lineamenti
aggraziati, ed emanava anche allora un profumo conturbante. Donna costruita con
tutte le fragranze, le malizie e le astuzie della femminilità artefatta. Dalla
pelle fresca, rosea, aromatica sempre pronta per essere carezzata ed esplorata
con le labbra respirandone piano, ma avidamente, gli effluvi di quei cosmetici
inebrianti. Il viso stupendamente disegnato dal trucco sempre impeccabile. Amabile
nei gesti, anche nelle circostanze più turbolente. Figura da romanzo, donna da
poesia, femmina per inchiostro e sogno.
La raggiunse. L’abbracciò. E si lasciò scivolare in
quel suo sorriso accogliente che non lo tradiva mai. Corpo magro ma flessuoso.
Sotto il giaccone a mezza gamba, ben tornito in vita, sentì la levità di quelle
morbide forme impregnate dal fluttuare caldo del profumo che ricordava bene.
Vento rigenerante e rassicurante. Desiderio di toccarla, abbracciarla ancora, stringerla
a sé.
“Milvia, saranno due mesi che non ci sentiamo!”
“Beh, non venirlo a dire a me. Potevi anche farla una
telefonatina... Ma, già, tu non chiami mai…” Voce ed espressione atteggiate ad
offesa, ma come per gioco. Abile lei. Sguardo imbronciato da bimba. Che grazia!
Che maestria! Anche tutto questo la rende adorabile. L’amo!
“Ma sai... gli impegni… gli impicci… gli affanni di
una vita complicata…”, disse teatralmente, sorridendo infine, e tuffandosi ancora
in quegli occhi così ospitali…
“Sì sì, basta. Non accetto scuse, e tu sai bene che
neanche ce n’è bisogno. Se volessi dare credito a tutte le sciocchezze che,
all’occorrenza, sei in grado di raccontare…
Ma sai che puoi sempre farti perdonare. Ora, almeno per cinque minuti,
non scappare... Accompagnami un po’.”
Lui sorrise di nuovo, ormai radioso, accentuando
l’intensità dello sguardo, sicuro di piacerle, e già pregustando quel gioco che
andava a ricominciare.
“Cosa facevi in giro tutta sola?”
“Compro regali. Domani sera sono a cena dai miei e
devo pensare a tutti i nipotini, capisci?”
“No.”
“Sono una zia, come fai a non capire… E, in quanto
zia, anche un po’ befana.” E il suo sorriso s’impregnò di sensualità, contando
certo in una risposta che le confermasse la sua avvenenza. Lui invece le passò
una mano sulla spalla, la strinse e le sussurrò in un orecchio: “La befana è
impegnata stasera o può fermarsi a casa di un povero bimbo solo che, per
l’occasione, potrebbe prepararle una bella cenetta?” Gioco d’amore, scaramucce,
“Contrasto” di Cielo d’Alcamo: finzione ancestrale.
Lei sorrise raggiante, comunicando così le sue
promesse.
Divertimento antico, originario. Apertura al mondo, gioia
di includere ed essere inclusi. Desiderio dell’universo altrui. Smania di
naufragio, di dispersione in dimensioni sconosciute. Aspirazione ad uno
scioglimento in caldi mari lontani. Sogno d’ogni pulsione profonda. Ci
sfioriamo, ci tocchiamo, annusando i nostri tepori, divorando i nostri sapori.
Ci abbracciamo, rincorrendo l’occasione per sentire il peso del corpo altrui,
per non avvertire più il peso del nostro. Attraversare, penetrare, possedere
mondi sconosciuti. Per generare nuovi mondi. Ecco l’eterno autoinganno del
gioco, del cerimoniale, ecco lì il piacere! Recitare, recitare sempre una
parte, anche per amare una donna. Recitare e rappresentarsi. Ripresentarsi
secondo dopo secondo. Continua necessità di ricollocarsi, di riapparire,
rimanifestarsi, rinascere e giustificare la propria impermeabile presenza. Per
se stessi? Per divertire se stessi? Sì, prima di tutto, buffoni di se stessi...
Gran virtù, questa! Essere in grado di piacersi allo specchio! Chi non riesce
ad allietare se stesso – sapendo assistere allo spettacolo che dà – deve essere
disperato, tuffato negli altri e trasportato dalla marea delle sensazioni non
sue. Essere protagonisti davanti a sé, prima di tutto davanti a sé. Come un
attore di teatro, primo ammiratore di se stesso: prova e riprova fino a che si
piace. Quindi, ad un certo punto, sa che piacerà. E, allora, convintamente,
porta in scena il personaggio. Ma senza mai poter sapere se finisce in tragedia
o in commedia o, come più spesso accade, in anonimo dramma…
Mario si strinse a Milvia e sentì che quel suo natale
portava nostalgie: per tutti gli universi attraversati e perduti, per tutti i
mari in cui si era bagnato per poi tornare velocemente a riva ad asciugarsi,
per tutti i tramonti in cui si era dissolto senza attendere la notte. Per tutti
i giganti in cui aveva creduto di scorgere i mulini a vento e che, per questo,
aveva rinunciato a combattere. E, infine, sentendo davanti a sé i giorni di
ferie, ricordando la notte trascorsa con Lelia, immaginando le ore che avrebbe
trascorso con Milvia, pensò che anche quelle nostalgie erano, ora, un nuovo
mondo liquido ed accogliente, in cui sarebbe stato “dolce continuare per un po’
a naufragare”…