TANTALO
Gli
amici assaggiarono quel cibo e bevvero quella bevanda apparecchiati da Tantalo,
e ammutolirono nella vertigine dei sensi. La sazietà e l’ebrezza risultavano
del tutto nuove dentro i loro corpi. Si guardavano gli uni con gli altri in uno
stato di pace energico, e sembrava loro non servire più la parola. Ciascuno
godeva un benessere ed una vigoria dentro di sé e vedeva lo stesso negli occhi
degli altri, e da quelli proseguiva a goderne l’effetto. Un effetto che non
apparteneva più ai singoli, ma che diventava comunione di piacere e così
continuava ad accrescersi. Nella brezza del meriggio ognuno sentiva le proprie
membra sciogliersi nel cosmo, in un insieme di compattezza e dissolvimento
palpitanti. Il sole e le ombre accarezzavano la vita e l’abbracciavano nel
perfetto ritmo ciclico d’ogni cosa. Il tempo, come la parola, sembrava
scomparso nel fluido perfettamente immobile del creato.
Al
culmine delle altezze, la vertigine travolse ogni mente e si tramutò in nebbia
che calò negli occhi di tutti gli amici. Il sonno piovve sui loro corpi.
Avevano
bevuto nettare e mangiato ambrosia. Per loro era la prima volta. Tantalo no,
lui era abituato. Mortale sì, ma prossimo agli dei. Non era bene sbandierarlo,
perché c’era pur sempre qualcuno che tentava di dimostrare una verità diversa,
ma lui era figlio di Zeus. Proprio così. E d’altronde, come altro spiegare la
benevolenza che, nonostante tutto, continuava ad essergli accordata… Nonostante
tutto. Tantalo, infatti, se ne prendeva di confidenze con gli dei! Di quelle
confidenze che notoriamente danno noia alla divinità. Quel nettare e quella
ambrosia, per esempio, Tantalo non l’aveva ottenuta in dono. Li aveva rubati, e
per di più, per il desiderio tutt’altro che nobile di accrescere l’invidia dei
suoi amici, e con quella di riconquistare il loro cuore.
Tantalo
era ricco, anzi, ricchissimo. Governava su un territorio vastissimo, dalla
Lidia alla Frigia. Gli dei avevano di lui considerazione e, spesso, gli
concedevano il favore di dividere con loro la mensa. Ma Tantalo era tormentato
dalla solitudine. Le ricchezze, pur tanto bramate, erano diventate sorelle
scostanti e noiose. Aveva goduto d’ogni cosa, d’ogni oggetto prezioso, ne aveva
avuti di sempre più rari, ne aveva accumulati e nascosti da ogni angolo del mondo
sino a perderne del tutto il piacere. Tutto quel bronzo ben lavorato, quell’oro
e quell’argento rilucenti, tutti quei bauli di stoffe straordinarie tessute
dalle mani più esperte, non sortivano ormai alcun effetto sul suo umore, eppure
un tempo gli avevano fatto sussultare il cuore di abbondanza. Qualche tripode
ben fatto, poche coppe ben cesellate servivano le necessità del suo palazzo,
delle sue giornate sempre più lunghe e solitarie. E tutto il resto giaceva
accatastato e impolverato, senza vita e senza utilità. Financo le armi, le più
perfette armi forgiate nelle viscere di tutti i vulcani della terra, non
destavano in lui più alcun interesse. Facevano mostra nei saloni del palazzo,
ma non vestivano alcun eroe che le eternasse con azioni memorabili. Tutto il
suo potere, poi, che cos’era? Se non orrore e spavento, quella paura che era
riuscito ad imprimere negli sguardi di tutti i suoi sudditi. Ed, oggi, dinanzi
a sé non aveva più uomini, ma solo volti pavidi, maschere di uomini
terrorizzati e per questo sempre pronti a mentire ed a ricorrere all’inganno.
Doppi, tripli e quadrupli nel loro encomio servo, costante, irrinunciabile. Ma,
soprattutto, il favore degli dei, quell’amicizia che i primi tempi lo aveva
colmato d’orgoglio e che, pian piano gli si era mutata in tediosa indifferenza.
Sì, perché quel vantaggio di essere accolto nell’Olimpo, alla lunga, aveva
mostrato la sua esclusiva inutilità. Zeus, da sempre, lo aveva ammonito: “Nulla
mai rivelerai tra i mortali di quanto i tuoi occhi hanno visto nel cielo, di
quello che le tue orecchie hanno udito quassù, di ciò che i tuoi sensi hanno
percepito alla nostra presenza”. Questa la condizione delle condizioni perché
fosse consentito ad un mortale frequentare l’eternità. Questo il patto a
garanzia del privilegio, affinché non fossero sovvertite le immutabili leggi
sovrane. Ma questa, anche, di tempo in tempo, la ragione del crescente tormento
dell’uomo. Che privilegio è, infatti, quel privilegio che non può essere
ostentato? Che valore ha un’esclusiva che non può essere mostrata in pubblico?
Che vantaggio porta un vantaggio che non può essere esercitato? La vicinanza
degli dei, per un mortale, non è un bene di per sé, anzi: suscita ed agita i
demoni interiori, può generarne di nuovi ingovernabili.
Tantalo
era un uomo grande, forte. Potentissimo, regnava su un popolo quasi sterminato
che lo temeva. Era ricco più d’ogni altro. Eppure, nell’Olimpo non era considerato
che un inferiore, limitato e misero come ogni altro mortale. E’ vero che con
suo padre, Zeus, non avrebbe mai potuto competere, troppo era più forte il
figlio di Crono. Ma Zeus era troppo più forte per ogni altro dio. Invece, ce ne
erano di divinità che ingiustificatamente si sentivano superiori a lui,
Tantalo. E perché, poi? Tantalo era grande e forte e potente, perché
continuavano a trattarlo da meno di quello che avrebbe meritato? Un giorno
aveva perso il senno per un ricciolo biondo tra i capelli di Atena. La
rotondità di quel ricciolo su cui si era posato, quasi distrattamente, il suo
sguardo lo stava risucchiando in un vortice di piacere. Il senso
indifferenziato d’ogni avvolgimento si era impadronito della sua coscienza, ed
il significato d’ogni sferica perfezione aveva invaso il suo essere in modo
così penetrante ch’egli era stato ad un passo dal perdere conoscenza. Allora, quando
la dea dagli occhi lucenti si era voltata verso di lui, ridendo gli aveva detto:
“Mortale, che credi di fare? Bada ai tuoi limiti! Non è per te ciò che
contempli, non può la razza tua misurarsi con tali geometrie. Troppo ne
soffriresti, poverino: lascia che la tua mente erri su terreni circoscritti, e
non tentare altro che mai potrai vedere coi soli occhi tuoi terrestri…” Poi,
rivolta al padre, aveva aggiunto: “Lo vedi, padre caro, cosa si fa se si
permette ai mortali di starci così vicini? Non è bene portarli alla follia! La
tua benevolenza non diventi il peggiore male per qualcuno di loro!”. Così
disse, ed andò via la dea velando i suoi occhi azzurri. Fu un giorno maledetto,
quello, per Tantalo: Tantalo si stimava tanto più di un mortale, ma gli dei non
ne avevano alcuna considerazione; Tantalo era un semidio, ma gli umani lo
evitavano.
Tantalo
era prigioniero della sua solitudine, e per questo aveva violato la mensa degli
dei. Per questo aveva rubato nettare ed ambrosia: per riconquistare gli uomini.
E quei suoi amici, li avrebbe costretti ad amarlo, ci sarebbe riuscito con quel
dono divino. I suoi amici avrebbero smesso di ossequiarlo per puro terrore del
suo potere, ed avrebbero cominciato ad amarlo perché amico degli dei. Avrebbe,
così, infranto il sacro giuramento del silenzio, questo è vero, ed avrebbe
sfidato l’ira di Zeus, ma avrebbe ripreso a godere la vita tra i mortali.
Avrebbe raccontato loro dei suoi banchetti con gli dei, ed essi, con
ammirazione verso il privilegio, avrebbero gareggiato per stargli vicino in
ogni istante. A Zeus, però, non restò nascosto il furto di Tantalo, e,
diversamente, provvide a ripristinare l’ordine delle cose. Gli amici sentirono
la sera cadere sui propri occhi e la nebbia riempire la propria mente. Al
risveglio, nessuno ricordava il profumo del nettare ed il sapore dell’ambrosia,
e tutti temettero di essere stati avvelenati da Tantalo.
La
solitudine morse ancora più di prima. Gli amici, al risveglio, lo guardarono
con occhi smarriti che mutarono in rancore ed odio misti a timore. Tra loro uno
disse: “Tantalo, malvagio tra i malvagi, uomo ingiusto e feroce! Con l’inganno
volevi liberarti di noi che pure offesa non ti abbiamo recato. Col veleno
mischiato alle bevande volevi ucciderci tutti, temendo forse, nel tuo cuore di
belva, che qualcuno di noi potesse mai fare ombra alla tua tracotanza. Hai
finto di offrirci un banchetto, e molti di noi avevano gioito pensando tu fossi
rinsavito e fossi tornato a cercare negli uomini il piacere dell’amicizia. Ma,
invece, no: oltre ogni limite hai spinto il tuo cuore violento, ed hai tentato
di sterminare quei pochi che da sempre conosci e che sono cresciuti con te,
purtroppo per loro, affianco alla tua pianta velenosa. E col veleno tentasti l’impresa,
ma chi ti diede quel farmaco, forse conoscendo l’abisso della tua mente, ebbe
pietà degli uomini, e ingannò te che volevi ingannare. Lontano da te scapperemo
e non penseremo alla vendetta, perché sono gli dei che hai offeso con il tuo
folle intento, e saranno gli dei a ristabilire il rispetto delle sacre leggi
che ogni cosa governano!”
Tantalo,
allora, pensò che fatalmente dagli uomini non avrebbe mai più potuto avere
amicizia. Era il suo destino: troppo uomo per essere divino; troppo divino per
essere uomo. Ma se il suo essere troppo vicino alla divinità non poteva che
spaventare i mortali, il suo essere troppo mortale non avrebbe mai spaventato
gli dei, e questa doveva essere la sua strada. Avrebbe cercato, così,
l’accondiscendenza degli dei; non li avrebbe sfidati, ma avrebbe cercato di
servirli, pur sempre in tal modo restando un eletto. Non sarebbe mai stato un
dio, ma sarebbe stato, tra gli uomini, quello più amato tra gli dei. Così,
pensò che avrebbe dovuto lui invitare l’Olimpo a scendere sulla terra e che, in
questo ribaltamento di ruoli, avrebbe potuto ristabilire il suo antico
privilegio: non dio, ma primo fra gli uomini, tanto da potere invitare alla
propria mensa gli immortali.
Cosa
offrire, dunque, agli dei, in modo da rendere evidente l’eccezionalità di
Tantalo, in modo che gli uomini sempre avrebbero ricordato che Tantalo era
stato il primo tra i mortali, il più amato dagli olimpi? Di tori e di capri e
di arieti era saturo il cielo. Certo, sacrifici da sempre graditi agli dei ma
che qualunque artigiano del popolo avrebbe sempre potuto riproporre. Così pensò,
e fece chiamare il figlio Pelope che nulla ancora sapeva del privilegio paterno,
e che era giunta l’ora ne venisse a parte.
E
l’Olimpo, invitato, giunse dal cielo e riempì il palazzo di Tantalo. L’edificio
ben costruito presentava marmi e bronzo e argento ed oro in terra e alle
pareti, i saloni erano alti e immensi, i cortili colmi d’ogni più bella pianta.
Eppure il cuore di Tantalo non trovava leggerezza e gli pareva di piombo,
perché la sua casa, con dentro gli dei, non aveva più nulla di regale, e
sembrava misera, spoglia, non degna di un re più che di un guardiano di porci.
Non avveniva quello che aveva sperato, non riusciva a sentirsi primo tra gli
uomini al cospetto delle divinità; gli pesava, invece, insopportabilmente ogni
suo insuperabile limite, ogni sua invalicabile finitezza. Nulla, in quell’ora,
lo differenziava dai mortali, ed avrebbe dato la vita per non essere più lì,
per essere lontano, su un colle, gettato su un prato, tra mansueti bovini dalle
corna lunate, in una invisibile vita comune. Piuttosto che soffrire ancora una
volta la superiorità degli immortali che, ancora una volta l’avrebbero deriso e
che nulla avrebbero donato al suo cuore se non avvilimento e rabbia.
Ma
il banchetto era pronto, e tutto era già stato apparecchiato dai servi sulle
tavole ben levigate prima dell’arrivo delle divinità. Nessuno mortale, tranne il
padrone di casa, avrebbe potuto assistervi. Il corpo di Pelope era stato
smembrato per l’irripetibile occasione. Il figlio di Tantalo sarebbe stato il
cibo per gli dei. La carne bollita fumava davanti al volto di Zeus che cominciò
a mutare, e divenne notte e lampo e fuoco e furia. Tutti immobili gli dei,
impietriti dall’ira montante del figlio di Crono, attendevano il diluvio che si
vedeva salire nei suoi occhi. Demetra soltanto restava fissata, distratta,
nell’atto di addentare un pezzo di carne che, dopo qualche istante, le scivolò
dalle mani. Aveva mangiato una scapola, solo una scapola. Il cielo si oscurò,
ed un vento gelido e teso entrò nella sala, spazzando ogni prezioso oggetto
appeso alle pareti, strappando le solide porte dagli stipiti, ribaltando i
bacili già pronti per la detersione delle mani. Fu come un turbine ad entrare
nel palazzo che squarciò il tetto e abbattè le pareti, mentre Zeus gonfiava e
diventava sempre più immenso avvolgendo ogni cosa, finché tuonò maledicendo
Tantalo, e predicendo alla sua stirpe ogni più inumana disgrazia. Poi, lo
precipitò nel Tartaro, e disse rivolto agli altri dei: “Così lo vedrà
l’eternità dei morti: eternamente immerso fino al collo in un lago che
eternamente si prosciuga quando l’inesausta sete tenterà di placare; da
rigogliosi rami su di lui eternamente penderanno i più gustosi frutti che il
vento via eternamente rapirà quando per la mai sopita fame verso quelli tenderà
le inutili braccia.”
PELOPE
Il
cielo alla fine, gonfio di nuvole nere, rovesciò sulla terra fiumi di acqua.
Tra le rovine del palazzo di Tantalo nessuno degli immortali aveva mosso un
ciglio, né ancora lo muoveva, o detto una sillaba e tutto era temporale. Di
fronte all’ira del dio sovrano non c’era che attendere che cessasse e che
quell’acqua purificasse ogni cosa. Come quando un uomo col fuoco ed il fumo
distrugge un vespaio troppo grosso che gli rende pericolosa la vigna, tutte le
api ne escono e si disperdono intorno, così i servi, ora, scampati al disastro,
vagavano per le campagne intontiti ripensando alla vita che non gli era stata
strappata, e non cercavano rifugio dall’acqua, ma correvano via. Quando anche
l’ultimo pezzo di muro dell’antica reggia scomparve trasportato lontano dalla
profonda fiumana, Zeus ordinò che le membra di Pelope fossero rimesse a bollire,
tutte quante, anche quel pezzo di carne ormai mancante della scapola che
Demetra, distratta, aveva mangiato. Poi chiamò le Moire, ed a Cloto disse: “Tu
che curi la trama della vita, se quella di questo fanciullo è ancora nelle tue
mani, non smettere di tessere e dà forma nuovamente al suo corpo, quando il
calore della carne sarà per te giusto.” Tra il fumo, vicina alla gran pentola
di bronzo, Cloto cominciò a ricucire pezzo per pezzo quel corpicino ancora
troppo giovane, e quando giunse a rimontare la spalla bucata, il figlio di
Crono ordinò a Demetra di modellare in avorio un scapola in tutto simile a
quella che aveva mangiato e di sistemarla al suo posto. Poi la Grande Madre
soffiò nelle narici di Pelope e quello riprese a respirare. E mentre le
cuciture pian piano sparivano, riappariva il bellissimo aspetto del giovane. Le
ultime gocce di pioggia che caddero dal cielo ne detersero accuratamente le
membra e ne unsero generosamente ogni parte con rugiade profumate.
Poseidone,
che era in disparte, vide la luce provenire da quel fanciullo e se ne invaghì
all’istante. Si avvicinò, dunque, a passi lenti così come il desiderio dettava,
a quel fuoco, a quel calderone di bronzo, di fianco al quale giaceva Pelope
nudo disteso su teli finissimi ancora avvolto nel vapore della sua rinascita, e
rivolto a Zeus disse: “Fratello, padre di noi tutti, questo ragazzo è ormai
solo e non ha patria per il tuo giusto divino sdegno. Lo prenderò io, con me,
finché non diventerà un uomo e potrà badare a se stesso ed alla triste sorte
che gli spetterà per la maledizione che tu hai inflitto a tutta la stirpe di
Tantalo. Ma, ora, lascia che venga con me, che possa avere qualche anno di
gioia prima di affrontare la dura vita che gli tocca.” Così Pelope fanciullo fu
rapito da Poseidone che ne trasse piacere finché non divenne uomo. Allora lo
ricondusse nella terra paterna e gli consegnò il potere su quelle terre e su
quei popoli.
Ma
Pelope si portava addosso una smania continua, un fremito costante. Nelle sconfinate
profondità marine, con Poseidone, aveva potuto dare continuo sfogo al demone
che lo portava a non stare mai fermo. Ora, quella smania di sentirsi legato era
tornata a tormentarlo più forte. Gli prendeva un desiderio acuto di strapparsi
un braccio o una gamba, di aprirsi il petto o di staccarsi la testa se solo
stava fermo un attimo. Solo il movimento, l’incessante movimento gli dava
ristoro. Così, presto, decise di partire, e a chi gli chiedeva il perché ed il
dove, rispondeva che sarebbe andato in capo al mondo, a prendere moglie, e che
l’avrebbe presa in un regno lontano dal centro di tutto, e solo quando avesse
trovato una donna indomabile. Quella cercava, la donna che potesse mettere fine
alle sue smanie fiaccandone l’energia.
Il
viaggio fu lungo, ma correre, fuggire nel vento di prua della sua nave veloce
gli dava giovamento, mentre i suoi marinai increduli lo vedevano sempre
all’opera non dormire neanche un istante. Investito dall’aria spumosa in mare
aperto aveva la sensazione di liberarsi delle braccia, di perdere pezzi del
corpo che, altrimenti, fremevano di continuo come di autonoma vita.
E
giunse ad Olimpia dove Enomao regnava e correvano i cavalli migliori del mondo.
Ippodamia era la figlia di Enomao. La divina Ippodamia che mai ancora s’era
concessa ad estraneo e che solo il letto del padre conosceva. Sulle mura della
città ben costruita, tredici pali su cui tredici teste. Tredici pretendenti che
avevano pensato, illusi, di potere domare la domatrice. Tredici nobili
aspiranti che avevano provato a mescolare sangue che non può e non deve
mischiarsi.
Enomao
era figlio di Ares, e viveva spietato per un solo ideale: la purezza del
sangue. Come i suoi cavalli, la razza più pura che consentiva a quegli animali
un corpo perfetto, unico, dallo slancio divino, dalla velocità saettante. Come
sua figlia, infinitamente bella, lucente, fredda e intoccabile. Non ci sarebbe
mai stato un uomo degno di lei e questa era una verità immutabile. Nessun
sangue sarebbe stato tanto puro da potersi mischiare con il suo senza
imbastardire.
Tredici
uomini avevano detto di avere sangue divino ma non erano riusciti a sostenerlo
nella prova. Avevano detto di avere sangue che ribolle nella gara, di sentire
nelle narici l’odore della polvere del traguardo, di masticare la vittoria.
Erano caduti con fragore, tutti, sbalzati dai carri sulla terra infinita a
mordere le pietre mentre venivano travolti dai cavalli che non avevano saputo
condurre.
Tredici
gare si erano svolte davanti alle alte porte di Olimpia. Il pretendente,
inscenando il rapimento di Ippodamia, fuggiva con l’odorosa fanciulla sul suo
carro. Enomao immolava un ariete nero, poi, concesso tale vantaggio, montava
sul suo carro e si lanciava all’inseguimento. I perfetti cavalli, doni di Ares,
bruciavano la terra su cui volavano, raggiungevano il carro del pretendente,
Ippodamia saltava sul carro del padre, un attimo prima che lo sfidante fosse
sbalzato ingoiando il crudo destino. Tredici teste erano state staccate dai
corpi impuri per essere esposte agli uccelli, lì, in cima a quegli alti pali
sulle mura di Olimpia, in onore della divina Ippodamia, in onore di
quell’ideale.
Questo
l’orrore che accoglieva i nobili pretendenti, questi i segnali e gli avvisi,
questa la sorte stampata sul cielo di Olimpia.
Ma
Enomao accolse il suo ospite con tutti gli onori. Il figlio di Ares rispettava
gli dei e così gli ospiti e i supplici cari agli olimpi. Pelope fu accolto e
trattato con ogni grazia, cura ed attenzione. Per tre giorni mai si parlò della
prova. Furono fatti ricchi sacrifici per propiziare la nuova coppia, e
preparati banchetti sontuosi in cui Ippodamia era sempre accanto a Pelope, come
già fosse il suo sposo. Quello era il disegno sempre, già messo in scena per
tredici volte, ed aveva reso più gustoso l’epilogo al padre e alla figlia.
Questa volta, però, Ippodamia, pur tenendo come le altre volte il gioco, sentì
qualcosa di diverso e di nuovo: quel giovane bellissimo pareva modellato dalle mani
degli dei, la sua pelle era candida ed ogni parte del suo corpo promanava
energia attraente. E poi, quella sua schiena rilucente che ne faceva un essere straordinario.
Ippodamia se ne invaghì a tal punto che, in segreto, rivelò al figlio di
Tantalo ogni cosa, e predispose il piano di fuga, questa volta una fuga vera, e
come mettere fine a quelle gare, una fine definitiva. Avrebbe convinto l’auriga
del padre, Mirtilo, a sostituire i perni delle ruote con pezzi cedevoli.
Mirtilo l’amava alla follia, lei lo sapeva, e sarebbe stato facile indurlo al
tradimento. Il carro, così, tirato dai veloci cavalli dono di Ares si sarebbe
presto schiantato nella gara funesta.
Ma
l’accorto Pelope, temendo l’inganno racchiuso nell’inganno meditò le sue
misure. Invocò, quindi, Poseidone, in nome della tenera amicizia d’un tempo.
Ricordò quei cavalli con cui era stato rapito dal dio, ed in volo trasportato
via nel cielo e nel mare. Quei cavalli così veloci da attraversare in un attimo
la terra infinita e le onde degli abissi. Ed il dio che scuote la terra,
evocato, condusse i suoi cavalli ad Olimpia: fu il suo regalo di nozze.
L’aurora
colore dell’oro del quarto giorno sorse a rischiarare gli dei e i mortali e
Enomao fece chiamare Pelope fuori dalle alte porte della città, sul campo di
gara e gli disse: “Ah quanto dolore porta il mio cuore, o nobile figlio di
Tantalo, dolore di padre che non può trovare pace e di anno in anno s’accresce!
Vedi ora tu le teste di quegli infelici, alte sopra le mura. Tutti signori di
popoli illustri, grandi guerrieri. Ciascuno per tre giorni m’illuse di avere
trovato il genero ricercato. Ciascuno già aveva preso un posto nel mio cuore
ogni anno più vecchio. Ma il quarto giorno, per tredici volte, ognuno di quelli
mi ha abbandonato, tradendo ogni bella promessa. Figlio caro, lo so, ho il
cuore tenero che si lascia ingannare dai sogni facilmente. Io quegli eroi li
accolsi in casa già come fossero parenti, credendo alla forza del loro sangue.
Ho offerto loro in dono la mia divina Ippodamia, fidando in quello che essi
stessi di sé dicevano e che la gente ripeteva. Tredici uomini che si dicevano
di stirpe divina e che, invece, non seppero lanciare il carro veloce nel campo
di gara senza morirne. Ah che dolore, figliuolo, vedere tutti quegli uomini,
all’aspetto vigorosi e valenti, perire miseramente in un gioco, nel fiore
dell’età, e con l’ignominia di non essere stati all’altezza non già delle gesta
più nobili, ma neppure di un gioco. Per questo, caro Pelope, voglio ora
parlarti come fossi tuo padre. Ascolta con attenzione le mie parole e decidi
per il tuo bene, per il mio, e per l’onore della nostra amata Ippodamia. Devi
sapere che c’è una legge in queste terre di cavalli veloci dal sangue purissimo,
legge eterna che ci fu data dagli dei. La legge prescrive che per suggellare la
promessa delle nozze deve darsi una gara tra lo sposo e il padre della sposa.
In quella gara sul carro lo sposo deve superare in velocità il carro del padre
della sposa, e in tal modo si segna il passaggio del sangue puro da una
generazione all’altra. Se il promesso sposo non vince, però, questo è segno che
egli non è degno della sposa promessa e… Ma veniamo a noi. Questo che vedi
sotto i tuoi piedi è il campo di gara… Vedi i segnali lì giù della svolta?…
Sono previsti tre giri. E’ un gioco, non più di questo, ma svolgerlo è legge
divina cui non possiamo sottrarci. Te la senti, dunque?”
Disse
così, Enomao, e si chinò e cominciò a calzare i sandali. Poi, si rialzò e
guardò Pelope con dolcezza: “Non temere, figliuolo, e fidati del vecchio padre
di Ippodamia. Io, quando tu sarai già partito, sarò ancora qui fermo per
immolare agli dei un ariete nero. Solo quando l’avrò sgozzato ed avrò posto le
carni sul fuoco, partirò anch’io. E, con questo vantaggio, avrai vittoria
sicura! La legge sarà onorata, ed il cielo benedirà le vostre nozze. Tu bada
solo a guidare con valore il tuo carro, e che la misura guidi la tua mano!”
Pelope
preparò il carro e, quando fu pronto, Enomao gli porse la mano della figlia. Al
segnale i due partirono, ma Pelope tratteneva i divini cavalli dono di
Poseidone, e quando fu giunto alla svolta li fermò. Si voltarono allora gli
sposi in tempo per vedere Enomao, lanciato nella rincorsa, sbalzato dal carro
che perdeva le ruote, saltare oltre i suo cavalli e finire travolto sotto le
zampe possenti. Tra la polvere si udì solo una voce tremenda che malediceva
Mirtilo, lì in fondo, fermo al traguardo, all’ombra di un ulivo.
Dalle
alte porte di Olimpia si riversarono a frotte i servi accorrendo al tremendo
misfatto, verso il campo di gara, verso quella polvere, in soccorso del vecchio
re morente. Sterope, la regina, restò ferma sulle alte mura da cui osservava
ogni cosa ed il suo cuore si sciolse: era finalmente finita.
Pelope
ed Ippodamia tornarono verso il traguardo, trassero sul carro Mirtilo che
immobile ancora guardava là verso la polvere, e volarono via verso il mare. La
prova non era ancora conclusa. In un istante furono su una scogliera a picco
sul mare lucente. Lì si fermarono: Ippodamia aveva sete. Pelope prese con se
l’elmo che avrebbe fatto da coppa e si allontanò verso il vicino ruscello.
Mirtilo, allora, risvegliatosi dai grandi fatti accaduti, cinse con le braccia
Ippodamia pretendendo ciò ch’era stato pattuito. Ippodamia cedette
all’abbraccio, ma, insieme, si incamminò verso quel sole accecante che
rimbalzava in fondo sul mare. Mirtilo sentiva che il sangue pulsava come non
mai e in quel bagliore e calore che veniva dall’orizzonte e dal mare non s’accorse
di essere sul ciglio della scogliera, quando Ippodamia lo spinse con grazia nel
vuoto che lo avvolse.
Al
suo ritorno, Pelope offrì la sua acqua fresca a Ippodamia e chiese di Mirtilo.
Ella ne bevve, si deterse lo splendido viso, ne passò tra i lunghi biondi
capelli mossi dal vento e rispose: “Troppo sul suo cuore pesava il grave
segreto. Lo ha chiuso in sé e lo custodisce nell’abisso del mare profondo”.
Pelope guardò in basso, verso i flutti, e allora gli parve di udire un cupo
boato salire da un gorgo che si frangeva alto sulla candida scogliera.
Ippodamia lo cinse da dietro e gli sussurò all’orecchio: “Prima di avermi
nell’amore in tutti i modi che la natura conosce, promettimi, mio sposo, che
nessuno più veda la tua schiena divina se non io. Giura, davanti agli dei, che
io sola, da oggi, possa godere del tuo celeste segreto. Offri alla tua
Ippodamia questo privilegio che altri non abbiano: vedere e toccare il tuo
corpo fatto della stessa materia in cui sono lavorate le statue del divino
Zeus, re delle nuvole.” Pelope, in quell’abbraccio nel vento dell’alta
scogliera, nel sole che riempiva il mare ed il mondo, col fremito furente
d’ogni suo arto, pel fuoco che saliva dal sangue bollente, promise e giurò ogni
cosa. E in quel bagliore del cielo e del mare e del corpo e dei capelli di lei,
prese Ippodamia che l’avvinse. Così passarono i giorni e le lune del primo
amore, e Pelope vide che solo Ippodamia sapeva liberargli le membra che sempre
sentiva legate. Solo Ippodamia, la velocità e la guerra. Poi, tornarono al
mondo degli uomini, ad Olimpia dalle alte mura.
Sterope,
la regina, accolse la figlia e le disse: ”Donna, che pur sempre figlia mi sei,
il sangue non può rivoltarsi a tal punto che gli dei non ne abbiano sdegno,
prendi ogni cosa, fa tuo ciò di cui già ti appropriasti, signora sugli uomini
le bestie e le piante di queste terre di Olimpia. Lasciami solo la mia vecchiaia,
per il silenzio che ho sempre chiuso nel mio cuore e che con me rimarrà serrato
nel gelo delle mie stanze. Mettimi in una torre e ordina che goda la ricchezza
che può bastare a una vecchia. Di tanti beni, una sola unghia sia lasciata a
questa che pur sempre madre ti fu. Tre serve, i miei pepli regali, coppe,
anfore, bacili e tripodi tra i più preziosi della reggia, quanti ne possono
servire ad una sola persona, a me, non per banchetti, ma per libare solitaria e
consumare, regina, sì, regina solo di me stessa, i miei ultimi giorni.” Disse
così, fredda, la dura Sterope, e così fu fatto.
Il
regno di Tantalo, ormai, era perduto. I barbari avevano preso tutto ciò che
sotto il sole era rimasto per troppo tempo senza un padrone. Ma Pelope non se
ne curava. Pelope aveva la sua condanna: sentiva sciogliere le corde che lo
legavano solo nel furore dell’amore con Ippodamia, in qualunque folle corsa nel
vento, nell’ebbrezza dei corpi mutilati in battaglia. Ippodamia gli diede
ventidue figli, mentre coi divini cavalli di Poseidone volava in guerra su tutte
le terre, smembrando i nemici col bronzo funesto delle sue armi, lasciando quei
miseri resti ai cani e agli uccelli, finché non divenne più potente e ricco e
temuto di quanto era stato suo padre. E fu signore e padrone del Peloponneso.
IPPODAMIA
Le
tenebre avvolgevano Tebe e la luna muoveva le ombre nel palazzo del re Laio.
Tutti i lumi erano stati spenti in ogni stanza della reggia ed in ogni casa
della città, e la notte era al suo momento più profondo. Ippodamia e i figli
Atreo e Tieste erano già penetrati nell’atrio dell’edificio reale, nel cuore
portavano il loro disegno funesto da lungo preparato. Nel talamo di Laio, nel
letto accanto a lui, in quell’ora, non c’era sua moglie Giocasta, ma il divino
fanciullo Crisippo.
Diceva
Ippodamia: “Ricordate, o figli, il tradimento di vostro padre Pelope, la ninfa
Axioche gli generò Crisippo, ed egli lo ama più di quanto ami voi, che pure
siete i migliori, i perfetti della razza. Vostro padre non ha rispetto per il
sangue e gli anni gli hanno tolto il senno. Ama quel figlio bastardo perché
concepito da una dea, ma, dite, chi di noi non è figlio di Zeus padre
onnipotente degli dei e degli uomini? La sua smania lo porta ormai a confondere
il sangue, che purissimo io vi ho donato, con la magia di cui egli stesso è il
prodotto deforme. Non siate sciocchi, non prestate ascolto a quel che vi
racconta, di come rinacque dalle mani degli dei immortali con quell’osso
mostruoso lì nella schiena. E pensate piuttosto alla carestia che ancora
affligge il nostro regno, dove la terra si rifiuta di generare i suoi frutti
perché troppe membra orribilmente strappate dai corpi dei nemici ha lasciato
vostro padre ai cani e agli uccelli insepolte. Ricordate chi siete, invece,
ascoltate il vostro sangue perfetto, e uccidete Crisippo, figlio della
vergogna, se non volete che, presto, vi privi di tutto: della casa e del nome.”
Così disse Ippodamia, spingendo i figli a seguirla verso il Talamo di Laio. E
quando vi giunsero, videro il candido corpo nudo di Crisippo teneramente
accanto al corpo nudo di Laio scoperti da un raggio di luna. Atreo, allora,
disse: “Madre, Crisippo è stato allevato nella nostra casa come un fratello. Il
sangue, che tu richiami, mi trema nelle vene al solo pensiero che un graffio
possa guastare la sua pelle giovane e innocente. Come posso privare della vita
un fratello?” Così disse guardando Tieste che abbassava lo sguardo e si torceva
le mani. “Hai ragione, figlio, anche tu sei ancora un fanciullo e il cuore
ancora non ti è saldo nel petto. Farò io, per voi, quello che è necessario,
quello che è giusto. E’ la madre che deve curarsi dei propri puledri che stanno
ancora incerti sulle zampe, le quali belle e lunghe non sono ancora robuste per
sostenere il vigoroso slancio che la natura gli comanda. Farò io ogni cosa,
come quando sola vi ho messi al mondo.”
Disse
così Ippodamia, guardò i figli tremanti, scostò l’uscio, entrò leggera, trasse
la dura spada di Laio, l’affondò nel petto del fanciullo. Crisippo non aprì
neanche gli occhi, mentre il nero sangue fluiva dalle narici e dalle labbra.
Borbottò qualcosa Laio, ma quando il possente urlo del re colpì le mura del
palazzo, Ippodamia era già in fuga, con ogni energia trascinando con sé quegli
incerti puledri.
Questo
videro Atreo e Tieste. Questo seppe Pelope, e pregò gli dei di non rivedere mai
più Ippodamia. Poi, maledicendo quel sangue pazzo, salì sulla torre e fece a
pezzi la suocera, Sterope. Quella carne fu pasto per i cani.
Seppe
Ippodamia ogni cosa, e temendo anche per i figli che erano con lei, li condusse
a Micene e qui li nascose. Disse Ippodamia, prima di abbandonare Atreo e
Tieste: “Figli, dopo avere fatto ogni vostro bene, oggi, io sono il peggiore
pericolo per voi. Vostro padre conosce ogni cosa e mi cercherà. Temo che quando
mi troverà, se allora voi sarete con me, sarà la vostra rovina, come certamente
sarà per me. E’ bene che io vi lasci, e vi lasci per sempre. Solo così potrete
sfuggire all’ira del divino Pelope che non si placherà fino a che non mi saprà
morta. Salvatevi! Questa terra può essere vostra. La nobiltà del vostro sangue,
se lo vorrete, vi consegnerà il potere regale. Versate del sangue marcio se
necessario e prendete ciò che vi spetta. Oppure sposate la donna che col suo
sangue vi porti sul trono. Ora, altro non chiedete a vostra madre e
consentitele la fuga. Altro, questa donna, non ha da darvi.” Piansero i
fratelli, ma da uomini ormai, ciascuno già meditando a come commettere l’azione
ed a come all’altro impedirla.
Ippodamia
si volse a nord, dove il cuore la portava. Ospite passò tra popoli sconosciuti,
nel freddo crescente dei suoi giorni solitari e privi di speranza. Fuggiva,
meschina, trascinata da un demone che, ad ogni aurora, le mangiava un anno di
vita. L’orrida vecchiaia divorava le sue carni e le rendeva il passo ogni
istante più incerto. Vagava, la donna, come un sogno diurno. Il sangue le si
andava spegnendo, un velo grigio copriva i suoi occhi. Vedeva i confini del
mondo, la pianura era gelata, arida, e secca ogni pianta. Grandi massi
poggiavano dispersi al suolo fin dove lo sguardo arrivava, immersi in una
immota caligine. Solo un albero, un giorno, apparve: enorme, privo di foglie,
dai rami nodosi e tormentati, legno senza vita ma duro e fermo nel vento
tagliente. Ippodamia sedette su un masso a contemplare quella nuova visione, e
qualcosa riprese a mescolarsi nel gelido petto. Era vecchia e stanca, le
ginocchia fragili, ma un nuovo demone sembrò possederla avanzando da quella
pianta. Ippodamia chinò il capo, in attesa. Ma quando sentì una mano posarsi
sui suoi capelli, paterna, non era il demone, ma un vecchio. Il vecchio, in
piedi, teneva una mano sulla fronte della donna e i suoi antichi occhi grigi
penetravano calmi negli occhi di lei. E, allora, il vecchio disse: “Che fai
qui, donna? Perché tanto ti allontanasti? Racconta: come fu che giungesti fino
a questo albero che non dà frutti, non fa ombra, e non vive e non muore?” Così
disse il vecchio, e Ippodamia rispose: “Padre, in fondo al mio cuore è riposta
la ragione, celata, misteriosa anche per me che, per essa, ho mosso tanti passi
dolorosi e ne sono invecchiata come io mi vedo, e come tu mi vedi. Ero ancora
giovane quando pensai di donare tutto il mio amore ai miei figli, quando
iniziai a fuggire la vendetta del padre, quando cercando refrigerio scelsi la
via del nord… Ero ancora giovane, ma un dio volle che perdessi la strada, e con
essa l’età rapidamente. Sangue non sento più che scorre nel mio corpo, e la
ragione, perduta tra tutti questi sassi, non la trovo. Solo un sussulto avverto
ora nell’animo, sento che questo albero mi è propizio… Fui Ippodamia – ora non
sono che il sogno di me stessa – figlia del divino Enomao, signore della
gloriosa Olimpia, che mi amò come si ama una sposa. Tredici, nobili principi,
tentarono di avermi, proclamandosi all’altezza di sostituire il padre, ma non
ingannarono il destino e, così, scelsero la morte. Vissi nella terra dei
cavalli di razza perfetta, e seguii l’insegnamento del sangue che non tradisce
quando resta puro. Lasciai il padre – che cadde pel suo ardore - quando trovai
l’uomo segnato dagli dei, Pelope rinato alla mensa degli olimpi. Mi diedi al
figlio di Tantalo per creare una stirpe di eroi. E generai i migliori tra i
mortali, Atreo e Tieste, purissimi nel sangue, divini nella discendenza. Ma
temetti il bastardo Crisippo, che la ninfa Axioche generò all’infedele Pelope. E
lo uccisi, ancora fanciullo, nell’infame letto di Laio, per le cui turpi voglie
Era scatenò su Tebe la Sfinge. Questa fui, una madre che difende il frutto sano
del proprio ventre, che sorveglia le distrazioni dello sposo, che teme, come è
giusto, gli dei immortali. E quando diedi tutto, questo fu il deserto di
vecchiaia in cui mi ritrovai senza conforto… se non quello che, ora per la
prima volta, viene a me misterioso dal legno di questo albero antico…” Questo
disse Ippodamia e volse lo sguardo dal vecchio all’albero solitario. Il
vecchio, allora, disse: “Quanto riescono ad ingannarsi i mortali, e per quanto
a lungo senza riuscire a liberarsi. E quanto i loro occhi sono mortificati
dalle nebbie, mentre essi credono di vedere ogni cosa con chiarezza. O donna
infelice, che non t’accorgi del male che generasti. Male che chiama male. E più
hai fatto per la gloria dei tuoi figli, più hai segnato la loro sciagura, e
lanciato un’ombra scura di misfatto su tutte le generazioni che verranno. Donna
meschina, che volle dare alla carne sangue puro… Ma il sangue dei mortali è
tutto uguale, ed è la sede della vita che ci è data ed a noi non appartiene, ed
è orrendo delitto versarne anche una goccia. Donna illusa di potere avvicinare
il mortale all’immortale… Misura e limite è dell’uomo, e solo questo è il suo
campo, e solo in quelle il mortale può trovare la vera nobiltà. Mentre le cose
del cielo sono tutte fuori dal limite e dalla misura, e credere di penetrarle
porta solo alla follia. Donna portatrice di sciagure, meglio avresti fatto a
continuare ad agitare il tuo sangue dentro il sudicio letto di tuo padre, senza
portare nel mondo a maturazione altro insano seme che continuerà a generare
piante storte e velenose. Donna infelice, guarda pure quest’albero che ora
irretisce il tuo cuore e la tua mente, e fa, ora, quello che senti giusto.
Chiamalo pure demone se ti piace, ma ascolta il suo richiamo e lasciati
guidare.” Così disse il vecchio, ma Ippodamia era già in piedi perché troppo
forte sentiva il richiamo di quella pianta antica. E così fece, e le girò
intorno finché vide una donna che pendeva da uno di quei rami robusti. Era una
vecchia con gli occhi ormai velati di morte. Ippodamia si inginocchiò sotto l’impiccata.
Scavò a mani nude quella terra fredda e dura, lentamente, ma con tutte le sue
forze. Poi, in quella buca ammucchiò erica secca, arbusti di ginestre, rovi
selvatici e a tutto diede fuoco. Le fiamme, a poco a poco, si alzarono dalla
buca e presero a divorare la vecchia, che era lì che guardava se stessa
bruciare. E Ippodamia bruciava impiccata, e si guardava, impiccata, bruciare.
Le fiamme avvolsero il corpo e, alla fine, divorarono anche la corda, ed il
corpo cadde nella buca. E bruciò ancora fino a quando non rimase che cenere ed
ossa dentro alla cenere. Il vecchio era ormai lontano, diede un ultimo sguardo
verso il fumo e pensò: il tempo coprirà di terra la buca e non ne rimarrà più
alcun segno. Allora, quando tutto quanto deve ancora avvenire sarà consumato,
solo allora Ippodamia avrà pace.
ATREO
La
città di Micene non aveva più un re. L’ultimo sovrano era morto senza lasciare
figli né fratelli, solo una sorella, molto più giovane, generata da una serva
di casa. Erope era il suo nome. Atreo, allora, la prese con sé e ne fece sua
moglie. Poi, convocò gli anziani e disse: “Orfani di Micene dalle larghe
strade, di fronte a voi è Atreo, figlio del divino Pelope che nacque due volte:
la prima da Tantalo, signore d’oriente, figlio di Zeus; la seconda dalle mani
degli dei immortali poi che il padre l’ebbe fatto a pezzi pel troppo amore
verso gli olimpi. Di fronte a voi è Atreo, sposo di Erope, donna dell’ultimo
sangue del sangue che tenne queste terre. Chiamate, ora, Atreo vostro re e
Atreo amerà questo popolo e lo guiderà tra gli amici e sopra i nemici!”
Disse
così Atreo, e tra gli anziani ci fu chi in questo modo rispose: “Divino Atreo,
da nobile hai parlato e questo Consiglio ti ha dato ascolto come meritavi.
Questa città, è vero, ha perso il suo amatissimo re. Egli regnò con grande
saggezza: non ebbe timore dei nemici, ma non ne cercò; ebbe rispetto degli
amici e li accrebbe di numero; non lasciò mai indecisa alcuna controversia tra
gli uomini di questa città e ogni giudizio fu gradito ai mortali e caro agli
immortali; mai lasciò inascoltata una supplica, né mai lasciò alle porte un
forestiero. Il popolo ricorda il suo re e lo piange ancora, ed ha timore di ciò
che accadrà. Il re non ha lasciato figli e questo a non pochi appare come un presagio
di sciagure. Nobile Atreo, il popolo che soffre per avere perduto ciò che è
stato e che non vede come mai potrà essere felice ancora, ha bisogno di un
segno del cielo. Nulla può convincere il popolo, ora, che non sia la voce degli
dei. Non chiederci dunque di chiamarti nostro re. E non meditare di
pretenderlo, fino a che questo segno divino non ci sarà”. Piacquero queste
parole al Consiglio degli anziani e tutti approvarono.
Ma
Atreo chiese ancora di parlare e disse: “Se il segno cercate, io vi dico: il
segno c’è! Chi potrà offrire ecatombi di tori dalle corna lunate ricoperte di
oro e capri neri, i migliori mai nati, certo, avrà il favore degli dei. Ma se
un mortale può offrire sulle sacre fiamme anche una sola bestia ma che sia la
bestia mai vista, l’animale che di per sé è un prodigio, l’agnello d’oro che è
nel suo gregge, credete voi che agli dei possa essere meno gradito? C’è
qualcuno di voi che abbia mai visto un agnello d’oro? Ebbene questo prodigio è
nel mio gregge! E’ o non è un segno questo? Io dico che questo è un segno! E io
vi dico che quell’agnello è nato nel mio gregge, così come la schiena di mio
padre è d’avorio ed è opera del dio Efesto! La mia stirpe è cara agli dei e ne
porta i segni, e questo vi sarà di beneficio! Offrirò, domani, l’agnello d’oro
ad Artemide che illuminerà il regno di questa città. E vi dico e profetizzo che
chi avrà il vello d’oro di quell’animale sarà re. Da ora, per sempre. Ecco il
segno!”
Disse
così Atreo e sciolse il consiglio.
Come
fu detto fu fatto. Il popolo radunato assisteva al prodigio. Atreo sgozzava
l’agnello che versava argenteo sangue e ne prendeva il biondo vello; tagliava
le parti scelte dell’animale e le poneva sulla fiamma. Invocava la dea per il
benessere di Micene. Davanti al fumo che alto saliva, alla fine, Atreo
innalzava il vello d’oro. E il popolo gioiva e riconosceva il suo re.
Atreo
regnava su Micene, col sangue come gli aveva insegnato la madre e col segno
come gli aveva insegnato suo padre. La moglie Erope gli dava dei figli. Il
vello d’oro, nascosto nel fondo di una cassa segreta, gli dava il potere.
Tieste viveva a palazzo anche lui e cresceva i propri figli. Tieste guardava
quello che il fratello faceva, guardava e taceva, taceva e aspettava. Erope
tesseva, tesseva e taceva, taceva e aspettava. Un giorno Erope guardò Tieste e desiderò
quell’uomo. Sapeva quello che quell’uomo voleva e, in quel modo, entrambi
soddisfecero le loro voglie. Tieste prendeva Erope tutte le volte che poteva, e
sapeva che in quel modo il suo sangue, come gli aveva insegnato la madre,
avrebbe regnato e l’avrebbe vendicato. Tieste sapeva dove era nascosto il vello
d’oro e pensava che l’importante era sapere dove era. Atreo governava il suo
popolo e temeva il fratello come un nemico. Erope sapeva che il suo destino era
legato a due uomini che erano i padri dei suoi figli. Tieste tramava vendette e
temeva il fratello come un nemico.
Atreo
vedeva la prole crescere e pensava alla stirpe che avrebbe fatto grande il suo
nome. Erope bruciava nel suo amore segreto e generava Agamennone e generava Menelao.
Tieste godeva nel petto quella sua lenta e nascosta vendetta: la pianta stava
stillando il veleno che l’avrebbe bruciata.
Così
gioivano nei loro cuori, finché Zeus, signore della folgore, non addensò nubi
oscure nella mente del re. E Atreo scacciò il fratello: via, via da Micene, quella
maschera muta che nascondeva sciagure e disgrazie; via, via dal palazzo, quella
presenza strisciante, temibile come una serpe; via quel sangue avvelenato
carico di pericoli e di inganni; via, espulso dal regno, privato di tutto,
della moglie, dei figli e dei beni.
Ma
ancora quelle nubi portavano torbidi sogni ad Atreo. E le notti continuavano cupe,
cariche di gravi pensieri. Aveva scacciato il fratello, ma questo non era
servito ad allontanare le orride visioni, e queste, come malvagi riflessi, lo
seguivano dal sogno alla veglia. Ombre malvage camminavano con lui; non c’era
luogo in cui queste non fossero già lì ad aspettarlo. Ma in casa quelle occulte
presenze erano ancora più fitte, ineffabili ed avvolgenti: erano le ombre sul
volto di Erope; erano le ombre che seguivano i suoi figli; erano le ombre che precedevano
i figli di Tieste. Le ombre dei sospetti, vermi della mente.
Tieste
non andava lasciato fare. Certamente aveva un suo disegno, e lo aveva da tempo.
Quale temibile trama aveva già ordito? Quale suo malvagio intento era già in
svolgimento? Non era stato saggio tenerlo a Palazzo. Non era stato saggio
trattarlo come un fratello leale e sincero, ed allevare i suoi figli nella
reggia come fossero figli di re. Quale macchinazione nascondeva in quel serrato
silenzio? Quale segreto coltivava nell’ingrato petto? Lo perseguitava, ora,
quella piega fissa del labbro sul volto del fratello, come una fredda lama lucente
pronta a scattare. Tutto era chiaro, ormai! Era nel gorgo, e i flutti
dell’inganno vorticavano intorno per la sua rovina. Era stato avventato nello
scacciare Tieste senza assicurarsi prima delle sue intenzioni, senza
assicurarsi che avesse il giusto timore del fratello re. Atreo si addestrava
senza posa: “Penetra il cuore dei tuoi nemici, e succhiane il sangue! Mostra di
concedere loro la libertà, ma per tenerli più stretti in occulte catene! Il
vello d’oro è ancora nelle mie mani. Il gorgo, se un dio non trama malvagio,
ancora non è chiuso sopra la mia testa. Agire! Agire! Ora, la necessità comanda
l’azione. Richiamare Tieste, presto! Ordinare di trovarlo, scovarlo, condurlo
qui! Trascinare l’infame… ma con riguardo, s’intende! Silenzia il cuore, Atreo,
che neanche la tua ombra senta il tuo pensiero… Il re, Atreo, desidera
riconciliarsi con il fratello, questo dovrà essere il messaggio pubblico; il
resto, chiuso nel mio cuore, chiuso nel mio pugno.
E
un giorno l’aurora aprì il mattino che vide Tieste tornare a Micene. Il sole
illuminava i preparativi a palazzo del grande banchetto in suo onore. Ognuno
aveva ricevuto l’ordine di trattare Tieste alla stregua del re. E ciò che fu
ordinato fu prontamente eseguito, mentre Tieste, scortato con riguardo, veniva
accompagnato alla grande sala dei fasti. Qui erano state accese tutte le
fiaccole, perché il sole sembrasse ancora più vivo e presente in ogni angolo
della casa. I fuochi accesi sotto i tripodi ardevano vibranti. Le tavole ben
levigate, già imbandite di pani, aspettavano solo le profumate carni
sceltissime, e queste, per non lasciarle freddare, sarebbero state servite solo
quando l’ospite avesse trovato il suo comodo. Luccicavano le coppe assetate di
dolce vino, e le ricolme anfore erano pronte per la mescita nelle mani dei
servi devoti. Atreo accolse Tieste sorridendo con le braccia aperte ed in
silenzio gli assegnò il posto di sempre, accanto a sé. Attese che detergesse le
mani e, a lui rivolto, cominciò a parlare: “Il sangue si è guastato tra di noi.
Questo è avvenuto, ma non ero io, sappi, quello che ti scacciò. Ate confondeva
la mia mente e combinava ingannevolmente i miei pensieri. Sogni tormentosi
turbavano il mio cuore e visioni amare sconvolgevano il mio animo: tu nel letto
di mia moglie; tu padre dei miei figli; tu traditore del sangue. Eri tu,
fratello mio, e quei fantasmi erano come realtà. Come vero mi sembrava il
tradimento dentro la mia casa, dentro il mio letto! Non c’era più veglia, e
tutto appariva in ombre vive davanti a me, tutto accadeva proprio sotto i miei
occhi. Tu sai che tutto questo può farlo Ate, la dea che seppe confondere anche
l’accorta mente di Zeus onnipotente, e che, da allora, leggera volteggia sulle
teste dei mortali ed agli infelici uomini porta discordia. Non ero io quello,
ti dico. Questo sono io: questo che hai, ora, davanti a te. E per questo ti ho
cercato, perché il sangue non si è mutato in acqua, perché ciò che è stato non
sia mai più dimenticato, perché ciò che lega me a te e te a me non sia più
perduto. Medita, Tieste, e non dimenticare mai, da oggi, chi è tuo fratello
Atreo. Certo, tu hai visto solo che egli ti ha scacciato, ti ha privato della
tua famiglia, ti ha tolto i tuoi beni, ti ha costretto a vagare sulla terra
infinita come l’ultimo degli infelici mortali. Ma tuo fratello Atreo, oggi, ti
ha richiamato e ha imbandito per te il più sontuoso dei banchetti. Perché da
oggi si dissolva ogni ombra e la verità riappaia quale è, priva di veli mendaci,
torbidi inganni e vergognose falsità. Questo è ciò che meriti, e tuo fratello
non te lo farà mancare mai. Mai più ti priverà di tutto quanto tu, giustamente,
meriti. Tutto avrai quello che a te è dovuto. Ogni moneta che è tua ti sarà
resa. E se pure fossi tu a volere andare via, tuo fratello Atreo ti cercherà
fino ai confini della terra infinita, solo per riservare a te, ancora una
volta, e ancora per sempre, una tavola come questa, ricca del cibo più
ricercato. Perché, fratello, medita e non dimenticare mai: io sono stato uno
stolto fino ad oggi, ma da ora e fino all’ultimo tuo respiro, da me avrai sempre
più di quello che meriti.
E,
ora, come si conviene, suggelliamo questo nuovo patto di lealtà tra di noi,
cibando il corpo con queste carni sceltissime, le migliori delle nostre greggi,
le più giovani. E libiamo, come è giusto, agli dei: che ascoltino le parole del
nostro patto e ne siano testimoni e custodi altissimi. Io ti dico, fratello,
davanti alla Terra che tutto genera, davanti al Sole che tutto vede e ascolta,
al cospetto degli altissimi dei: “Sempre ti renderò tutto quello che è tuo, e
che ti appartiene per quello che sei! Nulla di meno ti riconoscerò! E Ade
tremendo e la crudele Persefone mi sprofondino nel Tartaro se le mie parole non
sono specchio sincero della mia mente!” E se pure il tuo animo è limpido, come
io credo, tu giurerai lo stesso verso di me!”
Tieste
aveva la solita maschera immobile. Disse soltanto: “Fratello, accetto le tue
parole, sento che sono sincere, e l’animo mio gioisce. Gli dei sanno turbare le
fragili menti dei mortali, e chi non sa questa verità è uno stolto. Ma ancora
più stolto è colui che lascia se stesso in preda ai demoni per lungo tempo.
Nobile, invece è colui che anche nella furia della tempesta del proprio cuore,
sa condursi sempre con misura, ricordando gli antichi detti e, tra essi, quello
più alto per i mortali: “Patendo conoscere”. Le tue parole, oggi, sono balsamo
profumato che cura il dolore che come una lancia trapassava il mio petto da
quando fu contesa tra di noi. Ma, ora, dimmi, fratello, perché siamo noi due
soli in questa grande sala così ben imbandita che potrebbe accogliere e ben
sfamare tutta intera la città? Dove sono i miei cari figli? Perché non
accolsero amorevolmente il loro padre? Vergogna ancora patiscono per l’esilio,
un tempo, inflitto con infamia al loro genitore?”
Disse
così, Tieste, e non un ciglio si mosse sul suo volto. E così rispose Atreo:
“Troppo grave fu la guerra che iniziò tra sangue e sangue. Angosce e timori
generò nel cuore dei parenti, e così dei cittadini. Una nube tossica calò su
Micene e su questa casa: tutti allora temevano i parenti e gli amici più cari;
la fiducia tra gli uomini svanì nel vento, come fumo. Ah, imparai, quanto ogni
decisione di chi detiene il comando guida e governa gli animi di quelli che
seguono e obbediscono, anche se nessun ordine, a quel proposito, mai sia stato
impartito. Per questo, Tieste, ho meditato più saggio che la nostra ferita
fosse cucita qui, ora, solo tra noi due. Quando l’avremo curata e l’avremo
guarita, e il sangue in noi sarà tornato fermo, allora chiameremo tutti gli
altri: i parenti ed il popolo amico. I tuoi figli saranno convocati per primi,
non temere, e, mi guardino gli dei se non dico il vero, io ti prometto che mai
più ti saranno negati, e vivranno con te sempre come carne nella carne. Ora,
perché tutto sia compiuto, onora la tavola di tuo fratello, onorala con lui. E
nutri degnamente il tuo corpo col cibo che Atreo ti offre, bagna le tue labbra
nel vino che Atreo ha serbato per te, e, infine, libiamo insieme agli dei perché
allontanino da noi ogni inimicizia. Questo è Atreo, ricorda Tieste, questo è
tuo fratello Atreo”.
I
servi porgevano le carni e mescevano il vino. Le ancelle disponevano candidi
lini sulle tavole ad ogni nuova portata fumante. Atreo invitava Tieste a bere e
a mangiare in onore del patto. Tieste mangiava e beveva, meditando i suoi
antichi pensieri. Lavorava la sua mente sotto la maschera immota. E beveva e
mangiava agli inviti di Atreo. Poi, libavano insieme accompagnando ogni pezzo
di carne. Tieste guardava il fratello che ordinava ancora altro cibo, guardava,
taceva e mangiava. Taceva e beveva. Invitato, libava agli dei. Ogni gesto di
Atreo, ogni suo invito, ogni suo ordine alla gente di casa, Tieste seguiva e
faceva, ma il suo cuore correva lontano. La maschera immota.
Atreo
disse, ordinando a due servi di avvicinare una cesta dorata: “Come gli dei
hanno voluto, ogni cosa è compiuta. Come promesso, ciò che ti è dovuto ti è
dato. Guarda, ora, caro Tieste, nella cesta, se riconosci, dalla testa, gli
agnelli che oggi mangiasti perché te li offrì Atreo. Guarda le teste mozzate
dei tuoi figli di cui stai digerendo le dolci carni. Giudica da te stesso ciò
che meriti, e medita chi è tuo fratello e come sa ricambiarti. E che il sapore
di questo banchetto non abbandoni mai la tua bocca…”
Disse
così Atreo. Tieste rivoltava gli occhi all’indietro, e acidi conati scuotevano
le sue membra. Il tremore era in tutto il suo corpo. Sul suo volto salivano le
ombre dei morti. Le furiose Erinni erano nella sala. I servi e le ancelle
fuggivano inorriditi. Le furie urlavano feroci. Ruggivano rannicchiate negli
angoli. I fuochi sotto i tripodi si gonfiavano come falò, le torce avvolgevano
le loro lingue ed avvampavano il soffitto. Il vino ribolliva nelle anfore di
bronzo. Atreo ripeteva immobile le sue ultime parole, ancora e ancora: “Ciò che
meriti… Il sapore di questo banchetto… Questo oggi ti rende tuo fratello…
Questo sempre otterrai…”
Tieste,
riverso in terra, vomitava rossi grumi di materia e diceva: “Ah, putrido ventre
velenoso di mia madre! Cosa partoristi… sudicio ventre di cagna assassina!
Questo sangue infetto di rovina desti ai figli tuoi! In che modo mai si laverà
questo sangue… femmina depravata… Oh furie, circondate questa casa, appestate
ogni stanza col vostro fetido fiato. Io fuggo tutto questo orrore, ma non per
viltà, non speri in questo il malvagio Atreo. Fuggo sopraffatto dall’oscenità
che si nutre nel petto di questa belva, e che viene dalla madre assassina:
assassina del padre, assassina del servo, assassina di un nostro fratello”.
Atreo,
allora, disse: “Giusto così! Ogni cosa si compia! Via da me, e con te trascina
via quella cagna con cui ti piacque rivoltarti nelle lenzuola del re. Prendila,
perché la cagna traditrice meriti. Come ti ho detto, e come ormai è sacro patto
tra noi: tutto e sempre da me avrai ciò che meriti!”
TIESTE
“Sangue
nero di mia madre, sangue di sciagure, io ti ho maledetto per il veleno che
porti dentro. Ma ora ti invoco, perché solo riconoscendoti, solo ascoltando il
tuo amaro scorrere anche nelle mie vene, sento che potrò ottenere la giusta
vendetta che sia di conforto alle pene del cuore. Sangue corrosivo che scava la
stirpe, incendia la mia mente e rendi i miei piani tempesta devastante per
l’odiato fratello e per la sua carne. Che il dolore non sia un fatto che
colpisca e poi il tempo divori, ma resti come un’eco perpetua che si rinnovi di
generazione in generazione. Che rinasca di continuo nei sogni, guastando la
chiara luce dei giorni, marcendo le menti di quelli che verranno al mondo nella
tua casa, degenerato fratello, seminando delitti e misfatti così orrendi e così
contrari alla natura che ne resti imperitura memoria tra i mortali.
Sangue
indemoniato di mia madre, rendi anche a me quella stessa follia che seppe
muovere Atreo nei pensieri più detestabili e che lo condusse a sfidare le
furiose Erinni con maggiore furia di quelle. Ma le cagne luttuose della notte
non finiranno di latrare, fratello, e sarò io a renderle ancora più rabbiose e
a dirigerle verso te e verso tutta la tua progenie, a nutrirsi insaziabilmente
del delirio che rifiorirà incessantemente nell’animo delle generazioni future.
E per
tutto questo un dio mi darà la forza. Oh insuperabile divinità obliqua, oh
radioso Apollo, sono certo fosti tu nel mio ultimo sogno il suggeritore di
immagini che ancora non mi parlano chiaramente, ma che sono impresse nella mia
mente come fulgido bronzo colato nel suo calco. Rendimi, oh dio, chiaro il
messaggio di quel sogno, che si ripete da tempo, in cui vedo quella giovane
donna velata da una nube che si muove leggera su un prato, vicino ad una fonte
d’acqua cristallina, alle soglie di un bosco sacro. Quella giovane ripete riti
perfetti in onore di Atena. La giovane è bella come una dea, inaccessibile, ed
ogni suo gesto possiede il ritmo infallibile del tempo. Così, mentre si muove,
il giardino muta colori e le stagioni si alternano seguendo la danza di lei. La
giovane ha un volto sereno, ma immutabile, mentre tutto avviene intorno a lei.
Dal bosco, ad un tratto, arriva un lupo. Prima le gira attorno piano, a
distanza. Poi si avvicina, comincia a strisciarsi tra le sue gambe. La giovane
lo lascia fare e sembra non curarsene, fino a che non comincia ad accarezzarlo.
La giovane non è più lei, è una cagna bianca che si accoppia con il lupo. Ed io
provo piacere, e sono io che sto penetrando quella candida cagna. E la cagna
non è più lei, ed è Pelopia, mia figlia, quella figlia che mi fu sottratta
dalla madre traditrice che mi abbandonò. E’ Pelopia che sto amando, cara figlia
che non ho mai cercato, è lei che mi prende di un amore ardente che esplode e
fluisce rovente dal mio ventre dentro il ventre di lei che si inarca
nell’amplesso. E, in quell’istante, i suoi occhi cominciano a sanguinare, il
suo volto si infiamma, e torna il volto di una cagna, ma una cagna mostruosa
che guaisce orribilmente, mentre il boschetto diventa una selva in fiamme e la
fonte, prima di fresca e limpida acqua, si muta in una vena di sangue nero e
denso che scorre creando una palude nebbiosa.”
Questo
pensava Tieste, vagando di terra in terra, ogni giorno che l’aurora apriva le
tende di un nuovo mattino. Dopo il macabro pasto, il dolore aveva fatto scempio
della sua mente e lo aveva reso folle. Le visioni del crudele banchetto
riempivano tutta la sua realtà, e l’uomo aveva preso a vivere come una bestia
nei boschi e nei campi, di notte rintanato in caverne, di giorno sempre in
marcia, in fuga da se stesso, in fuga da quelle orribili immagini, mortificando
il corpo coi digiuni, e cibandosi solo di radici ed erbe selvatiche. Ma il
tempo, nascosto, curava pian piano l’orrenda ferita, finché non gli fu chiaro
che l’unica ragione per non sprofondarsi nell’umida terra dandosi la morte,
stava nella vendetta che il sangue reclamava. Ma non c’era in terra vendetta
che paresse adeguata, non c’era misfatto concepibile da un mortale che potesse
stare a fronte del misfatto subito, non c’era orrore umano che stesse alla pari
dell’orrore generato da Atreo. Capì, allora, che solo Apollo avrebbe potuto
soccorrerlo e consigliarlo. E Tieste lo invocava in ogni suo pensiero. E venne
quel sogno, ma l’Obliquo circonda i suoi messaggi di nebbie, e Tieste non
sapeva coglierne il senso. Il suo macabro destino lo aveva già condotto a
mangiare le carni dei suoi figli; ora quel sogno diceva che avrebbe stuprato la
figlia mai conosciuta e che sapeva sacerdotessa di Atena. Orrore su orrore. Ma
l’Obliquo gli venne in sogno alla fine per dirgli senza veli: se vuoi vendetta,
che sia il riordino di tutto quanto è stato rovesciato nel disordine, hai una
sola via da percorrere. Fa’ quel che nel sogno ti è parso chiaro: stupra tua
figlia, perché solo dalla tua carne non mischiata con altre carni potrà nascere
il vendicatore.
Pelopia era nata nel tempio di Atena a Sicione. Sua
madre, la moglie di Tieste, ne aveva già viste accadere troppe alla corte di
Micene, quando rimase incinta di lei: il marito la trattava da anni come una
serva, e aveva attenzioni solo per la cognata Erope, e tutto sotto gli occhi di
Atreo che sembrava non badarci. Troppo era ormai, e quella sua nuova figlia non
avrebbe vissuto un solo giorno in quel palazzo che le pareva posseduto dai
demoni dello sfacelo e della disgrazia. Poco prima di partorire, abbandonò
Micene e cercò rifugio nella città di Sicione. Era scappata con la furia
nell’animo e non sapeva cosa avrebbe fatto. Fu quasi per caso, che rivolgendo
continuamente il suo cuore alla vergine figlia di Zeus, alla dea più potente di
tanti dei, che meditò di chiedere aiuto alle sacerdotesse di Atena. Ed ecco che
partorì nel tempio della dea dagli occhi luminosi, accudita da donne che
disprezzano gli uomini. Una fu la condizione: il nascituro avrebbe servito il
tempio. E non destò meraviglia a nessuna delle vergini quando la nuova vita
venne alla luce e si vide che era una femmina. Il voto era stato ascoltato
dalla divina Atena, e questa l’aveva esaudito, esigendo per sé una nuova
sacerdotessa. E tale divenne Pelopia, allevata nel tempio. Di sé seppe solo di
essere nata per volontà della dea, di essere al mondo per indossare le sacre
bende della consacrazione. E così fu di lei, che quello credeva di volere.
Gelosa custode della propria purezza, dedicata allo sguardo dell’Olimpo,
lontana dalle cure dei mortali, al riparo dalla disgustosa vista degli uomini,
leggera come limpida aria.
Quella era una delle notti del sacrificio. Pelopia
con le altre sacerdotesse era nel bosco sacro. Due capri, uno bianco ed uno
nero, venivano condotti alla sacra pietra dello scanno. Pelopia doveva sgozzare
le bestie ed affondare le sue mani nel caldo scuro sangue per sentirne ancora
la vita, per trasmetterla alla dea. Mentre attorno a lei le altre sacerdotesse
avrebbero intonato i segreti inni, reggendo le fiaccole della purificazione.
Pelopia affondava la lama ed il calore cominciava a trasmettersi ed espandersi
nelle sue mani. La vita fuggiva dalla carne del capro, ma si posava liquida
ancora per qualche momento sulla pelle della sacerdotessa, mentre l’occhio
della bestia si riempiva di tenebra. Pelopia sentiva l’odore del sangue,
sentiva il calore del sangue, se ne cospargeva lentamente il viso, poi tornava
ad immergere le mani nella gola del capro per portarle ai seni, e così alle
cosce, e infine sul ventre.
Tieste osservava, non visto, quel rito sacro e
segreto. Vedeva la figlia mai conosciuta essere donna e bella. La vedeva
ungersi di nero sangue. La vedeva rimanere nuda tra le sue sorelle nella danza
di tutte. Vedeva le fiaccole ondeggiare nelle ombre. Udiva gli inni sussurrati
ripetersi nei ritmi crescenti per poi spegnersi piano nel silenzio della notte
e del bosco. Fino a che le fiaccole smisero di ondeggiare e le sacerdotesse
lentamente cominciarono a scomparire verso il tempio. Pelopia era rimasta al centro
di quella piccola radura, distesa in terra, mentre le compagne, una alla volta,
girando lentamente intorno a lei, abbandonavano il luogo. Pelopia rimase sola.
Si rialzò, lentamente, ma non seguì le altre. Si avvicinò, invece, ad una fonte,
dove prese a detergere il corpo accuratamente.
Presso quella fonte Pelopia fu presa, presso quella
fonte sacra Pelopia lasciò la propria purezza. Quella notte Pelopia, mentre
disperava per sé – non avrebbe mai più potuto servire la dea - diventava lo
strumento del dio del riordino. In quel bosco consacrato Pelopia nasceva ancora
una volta tra i mortali, femmina, questa volta, per generare altri mortali nel
cerchio della vita, ormai inesorabilmente separata dal suo primo destino. In
quelle tenebre, il ritmo della perfezione si mutava nei movimenti scomposti di
questo sconosciuto che profanava il suo corpo leggiadro, gravandolo per sempre
di seme effimero. La danza celeste mutava in marcia profana.
Nello spasimo di quella violenza, Pelopia rivolse il
pensiero per un’ultima volta alla dea dagli occhi lucenti, e le parve di
sentire per l’ultima volta la sua voce: “Apriti, figlia, al mondo incerto ed
imperfetto della terra, cedi al destino troppo più alto d’ogni disegno mortale,
accogli il mistero della tua vita fugace, rivolgi il tuo sguardo, ora, alle
cose meschine e vivi finalmente”. Nello spasimo di quella violenza, Pelopia
perse pian piano ogni forza, e una nebbia oscura riempì i suoi occhi. Quando si
risvegliò, era ancora notte. Il freddo delle tenebre era nella sua carne. Era
sola e lo sconosciuto che l’aveva violata non c’era più. Di lui restava la sua
spada di bronzo che, scappando, non si era accorto di perdere. Pelopia si
lasciò cadere nel ruscello affinché quelle limpide acque le lavassero via il
tempo di quelle ore. Ma gli dei non vollero questo, ed ella lasciò il tempio di
Atena e si rimise nelle mani del re di Sicione, Tesproto, che l’accolse come
una figlia.
Tieste era fuggito. Tieste non poteva che fuggire.
Atreo lo cercava ancora una volta. Una crudele carestia colpiva Micene, e
l’oracolo aveva sentenziato: “Atreo, le tue carni sono sparse inquiete per il
mondo e la natura ripete questa privazione negando frutti. La terra non
raccoglierà più semi finché la tua stessa carne, tuo fratello, non sarà
ricondotto in città”. Così, il fratello non poteva lasciare il fratello. Così,
Atreo non poteva che inseguire la sua preda, condannato egli stesso a
condannare. Alcuni uomini lo informarono che Tieste era stato visto nella città
di Sicione, e Atreo si presentò a Tesproto perché lo aiutasse a ritrovare il
fratello scomparso. Ma qui Atreo non trovò ciò che da sempre aveva saputo
togliergli il sonno. Trovò, però, un turbamento più forte. Tra le figlie di
Tesproto, vide Pelopia e il cuore sussultò. Dimenticò Tieste, e volle quella
fanciulla che gli scuoteva il sangue. La chiese in moglie a Tesproto come fosse
sua figlia. Il re di Sicione che aveva appena accolto Pelopia come un cucciolo
impaurito, perso nella nera notte d’inverno, acconsentì felice al desiderio del
re fedele alleato. A quel cucciolo, in quel modo, donava un trono di regina.
Atreo tornò a Micene senza la sua preda, ma aveva trovato
una moglie. Dopo quella cagna di Erope, questa fanciulla gli avrebbe regalato
quanto non aveva mai avuto per colpa di Tieste. Avrebbe avuto una moglie
devota, una moglie che avrebbe partorito figli suoi, di Atreo, senza il
sospetto che nelle sue lenzuola si fosse infilato l’odiato fratello. Almeno la
sua casa, in quel modo, avrebbe visto nascere qualcosa fuori dagli equivoci e
dai sospetti. Ci sarebbe stato almeno un Atride puro, neanche sfiorato da ombre
d’infamia. A cercare Tieste, invece, avrebbe inviato Agamennone e Menelao. “Che
comincino a curare la casa e il regno anche loro!”, pensava Atreo, mentre il cuore
gli si gonfiava d’orgoglio per il nascituro. E così ordinò e così fu fatto:
Agamennone e Menelao partirono alla ricerca dello zio da ricondurre a Micene,
la città che si consumava nella fame. Ma i figli di Atreo ebbero veloce fortuna
e in poco tempo Tieste fu incatenato e serrato in una stanza sicura del
palazzo. “Non sia torto un capello a quell’uomo! – ordinò Atreo – Sia tenuto in
modo che non muoia… e che non viva. Non c’è cosa più semplice che tenere in
vita un mortale: un po’ d’acqua e un po’ di pane. Più difficile è escogitare il
modo di farlo morire ogni giorno di nuovo. L’animo è incline all’abitudine e
anche la tortura peggiore dopo qualche tempo diviene un male conosciuto, quasi
un compagno nella desolazione del cuore. E non è più tortura, ma una delle
tante sofferenze accettabili. Il mortale si accomoda ad ogni condizione, se
questa gli viene imposta. Così lo fecero gli dei, in modo che potesse tollerare
la propria finitezza. Ma io, se sarà necessario, lo troverò il modo per
rinnovare continuamente la morte nel cuore di Tieste, fino a quando sentirò di
doverlo tenere in vita per farlo continuamente morire”.
Ma quando Pelopia partorì, Atreo sentì che tutto era
ormai tornato al suo posto, come il sole che torna dopo l’inverno per fare
rinascere la terra infinita. Pelopia gli aveva generato un maschio, e quel
maschio diceva che, ora, Tieste poteva anche morire. Quella nascita perfetta
ordinava la morte di Tieste. Non aveva più senso perpetrare la vendetta.
Egisto, così fu chiamato il nuovo nato, era la definitiva vendetta. Era la
carne e il sangue di Atreo, di lui solo, che si riappropriava del mondo senza
l’ombra di Tieste.
Ma quando Pelopia partorì, quel figlio le ricordò la
notte sciagurata in cui la dea l’abbandonò mentre la sua virtù veniva calpestata
e derisa. Egisto era figlio delle tenebre, dell’inganno e della violenza, e
solo lei lo sapeva. Non voleva quell’essere vicino a sé. Il suo parto, frutto
di misfatto, non poteva avere generato che un artefice di misfatti. Sentiva che
il suo ventre aveva dato forma a un demone. E decise che quel demone non doveva
sopravvivere. Lo portò sui monti, lontano dalla città, e lo depose sotto un
albero dove lo avrebbero finito i lupi e gli uccelli.
EGISTO
(parte I)
Quel bambino era nato per lasciare il suo segno e il
suo respiro non poteva cessare quel giorno. Lo trovarono i pastori della
montagna ed ebbero pietà di quella vita indifesa. Presto Atreo seppe ogni cosa
ed ai pastori disse: “Questo bambino è figlio mio, il più caro dei miei figli.
Come cara mi è la madre, anche se fu lei a lasciarlo nei boschi dove voi lo
raccoglieste pietosi per volontà di un dio certamente. La madre è una fanciulla
saggia come nessun’altra, ma il parto, come un demone, le ha turbato la mente.
Meglio se, per il momento, le cose restano come lei le ha volute. Prendete voi
cura di questo bambino. Io ve lo affido, perché sento che questa è la volontà
degli dei. Lo alleverete come se fosse vostro. L’evento reca chiaro il senso: Zeus
vuole che provi la vita tra rovi e dirupi, perché possa diventare signore di
uomini, dopo avere conosciuto le angustie degli ultimi tra i mortali. Che sia
figlio di re, certo, non lo dimenticherete, ed io avrò sempre un occhio su di
voi. Quando avrà sette anni, lo riprenderò con me e di lui sarà quello che il
cielo vorrà: io credo grandi cose.” Disse così Atreo a quei pastori che già avevano
accolto quel bambino come una rivelazione divina. Quell’evento parve ad Atreo
un nuovo segno che volgeva al termine la partita con Tieste. Ora che aveva
generato carne della sua carne, ogni nodo andava sciolto con l’odiato fratello.
Quel fratello che era sempre stato il nemico più insidioso: nella sua città,
nella sua casa, nel suo letto. Ogni vincolo andava reciso di netto. Non era più
il tempo della vendetta, lunga terribile inesorabile, che teneva in catene
Tieste. Stava maturando il tempo dei fatti definitivi, che si consumano netti,
a determinare una fine senza ripensamenti ed un inizio capace di dispiegarsi
senza ostacoli. E il tempo andava maturando con l’età di Egisto, perché era
Egisto che poneva la fine per l’inizio. Attese Atreo, attese, come aveva detto,
i sette anni del figlio per rivelarsi a lui e riprenderlo in casa. Pianse il
bambino quando seppe che doveva lasciare gli amati genitori delle montagne, i
verdi prati della sua infanzia, i boschi dei suoi giochi, le mansuete bestie
del gregge. Ma poi che seppe qual era la sua stirpe e quale vita l’attendeva
nel palazzo del re suo padre, il cuore di bambino cedette ai sogni e felice
seguì il suo nuovo vero genitore.
Atreo aveva avuto tempo per meditare il suo disegno.
Ora, però, era il suo giovane figlio che doveva realizzarlo. A chi se non a lui
spettava il nuovo inizio? “Prendi questa spada, Egisto, figlio mio – disse Atreo
-, questa spada che non è di tuo padre, ma che tua madre che ti ha generato ha
sempre tenuta con sé gelosamente, e nessuno sa di dove venga perché a nessuno
mai ha voluto rivelarlo. Deve essere spada di un dio e questo gioverà
nell’impresa. Con questa spada darai la fine e l’inizio. Sei ancora molto
giovane, ma pian piano capirai il significato di tutto questo. Ora deve
bastarti la guida di tuo padre. Farai quello che ti chiedo, tu che non puoi non
seguire la linea della stirpe. Farai quello che ti indicherò, perché è la tua
carne che con questo gesto salverai. È la carne degli Atridi che ti forma, è il
sangue degli Atridi che ti muove. Il tuo domani si fa oggi. Se oggi non
fallirai, di te sarà grande il nome perché farai grande il nome del ramo robusto
e florido che discende dal divino Pelope, e, su ancora, da Tantalo feroce,
troppo amato da Zeus. C’è un altro ramo, però, che a questo da sempre muove
guerra, che vuole fargli ombra costante perché rinsecchisca, mentre ne succhia
avido il liquido vitale. Questo è il ramo che va reciso. Ma non temere, come ti
ho già detto, ti sarà tutto chiaro a suo tempo. Ora devi affidarti a colui che
ti ha generato – solo di lui devi avere fiducia, da ogni altro guardati con
sospetto – ed eseguire ciò che ti ordina. Sappi, ora, che c’è una stanza in
questo palazzo, nascosta nelle sue viscere. È una stanza scavata sotto le sue
fondamenta, direttamente nella dura roccia. In questa stanza è rinchiuso un
uomo che è il veleno del tuo sangue. Non deve sopravvivere un giorno di più.
Per la tua salvezza, tu, figlio mio, dovrai uccidere quest’uomo, e lo farai con
questa spada misteriosa di tua madre, la donna che ti ha messo al mondo e che
ha, finalmente, invertito l’ordine delle angustie che opprimevano il cuore di
tuo padre. Prendi, figlio questo bronzo affilato e fa’ quanto ti ho detto. Un
servo ti accompagnerà alla stanza della prigionia, dove quell’uomo giace
stremato dal lento trattamento che gli ho dedicato in questi lunghi sette anni,
mentre aspettavo di riaverti con me. È buio in quella grotta e ti sarà facile
sorprenderlo ed affondare la lama nel suo esile corpo. Non risparmiare la tua
forza, allora, medita solo che più sarà implacabile il tuo gesto, più negli
anni sarai grato, nel ricordo, a questo momento e a quanta ferocia avrai posto
nell’eliminarlo.”
Egisto era ormai un ragazzo alto e forte, plasmato
dalla dura esistenza della montagna. Strinse con orgoglio la spada in pugno -
una vera spada lucente e pesante, come nei suoi giochi l’aveva immaginata e
desiderata – e si sentì un uomo. Poi, seguendo il servo che gli faceva da guida
e ripensando alle parole del padre, si vide nobile come un re, si immaginò
implacabile come un dio. Ma quando giunse davanti a quell’uomo che sembrava
solo un sacco lercio in terra, volle appoggiare lentamente la punta della spada
a saggiare la consistenza del fagotto, prima di infliggere il colpo. Il sacco,
allora, si rivelò uomo e uomo veloce: schivò la traiettoria e s’impadronì
dell’arma con una mossa fulminea. Egisto si fece di pietra. Ma Tieste parlò
immediatamente: “Chi sei tu che vieni con questa spada a punzecchiarmi? Quale
altro crudele sistema ha escogitato Atreo per torturarmi? Parla, non ti ho mai
visto, sei molto giovane. Cosa fai con una spada vera nelle tue mani che
dovrebbero ancora stringere solo simboli di guerra per giochi infantili e non
bronzi letali come questo? Ma, cosa vedo tra le mie mani?! Questa spada… dove
l’hai presa? Chi ti diede quest’arma? Dove la trovasti, parla!” Così diceva
Tieste, ma Egisto non sentiva più le forze e la paura gli aveva asciugato la
bocca. Guardava nella penombra quell’uomo che era solo due occhi piantati su di
lui, due occhi di belva feroce. “Sei ad un passo da me, ragazzo, ti ucciderò
facilmente se non rispondi. Della mia vita non ho più alcun interesse, figurati
delle altre, e ti trapasserò con questa spada senza il minimo indugio se non mi
dirai dove l’hai presa. Questa spada che torna in questo modo nelle mie mani, e
che mi appare qui adesso come tutta la mia vita.” Dissero così quegli occhi
feroci, e a lui Egisto rispose: “È di mia madre la spada, è di mia madre. Non
me la diede lei. Fui io a prenderla di nascosto.” Gli occhi feroci cambiarono
aspetto, la voce mutò e, non più rabbiosa, divenne calma, ma la richiesta fu
perentoria: “Portami qui tua madre. Dille che l’aspetta l’uomo della spada.” Ed
Egisto non potè fare a meno di eseguire. Si sentiva il cuore stretto nel petto.
Si sentiva di nuovo bambino davanti agli uomini nel mondo. Aveva fallito,
tradendo la fiducia del padre. Ma ora quell’uomo reclamava la presenza della
madre. Avrebbe eseguito.
PELOPIA
Pelopia impallidì. Suo figlio parlava di un uomo
rinchiuso in una stanza segreta nel palazzo. Questa poteva sembrare una
fantasia di fanciulli. Eppure le parlava di cose che non poteva avere inventato:
i segni del vero impedivano qualsiasi titubanza. Pelopia seguì il figlio per
scale che non aveva mai visto nel palazzo e si trovò di fronte a quegli occhi
nel buio. L’uomo, seduto in terra, teneva la spada distesa sulle ginocchia tra
le mani. Disse: “Signora, forse voi non sapete chi sono e perché sono qui,
ridotto in questo stato. Forse voi non sapevate neanche della mia esistenza, né
dell’esistenza di questo buco segreto ai più. Ma tutto questo non ha alcuna
importanza e non voglio con altri argomenti occupare il vostro tempo, se non con
quello che mi sta più a cuore, ora, della mia vita stessa. Vostro figlio aveva
con sé questa spada e mi disse che era vostra. La mia supplica è questa, non di
uscire di qui, non di potere rivedere la luce, né di riacquistare il rango che
era mio, ma solo sapere come e da chi acquistaste questo bronzo ben lavorato.
Se avete pietà del cuore di un padre, questa mia domanda abbia per voi questo
valore. La vostra risposta, dando notizie di una figlia mai conosciuta e
infelice per volontà degli dei, potrà per un po’ raddolcire l’amaro che corrode
l’animo ormai vecchio e stanco di un padre.” E Pelopia rispose: “Orrenda
richiesta è la vostra, sconosciuto prigioniero di mio marito. E’ vero, non
sapevo di questa lugubre dimora, e avrei preferito non conoscere i nemici di
mio marito, all’apparenza così cari nemici, per essere tenuti sotto la terra
che si calpesta tutti i giorni nella propria casa. Ma già che la conoscenza è
fatta, ditemi piuttosto cosa entrate voi a fare nella faccenda di questa spada
che per me è solo motivo di orribili ricordi. Questa spada tranciò di netto la
donna che ero, e trafisse il mio petto lasciando una ferita che non rimargina.”
Così disse, piangendo, Pelopia, e si coprì il viso con le mani. E Tieste:
“Signora, io sarei altro uomo da quello che vedete malridotto e miserabile di
fronte a voi. La mia ascendenza è regale e divina. Se intendo bene, voi siete
la signora in questo palazzo, e se è così, noi saremmo parenti. Tieste è il mio
nome e sono l’odiato fratello del detestabile Atreo che, forse, è ora vostro
marito.” E Pelopia: “Sono la sua sposa da sette anni, ma né lui né nessun altro
mi ha mai parlato di un suo fratello. Questo mi spiega la particolare collocazione
di questa prigione, anche se nulla posso intuire della vostra reciproca
inimicizia. Scopro oggi, e mi si stringe il cuore, questo veleno che contamina questa
casa. Ma torno a domandarvi, cosa avete a che fare voi con questo maledetto
bronzo?” E Tieste: “Era la mia spada, signora, e da quando non fu più nelle mie
mani la mia sorte fu ancora più sciagurata. Non posso esserne certo, ma fu
così. Quando la persi, subii la caccia spietata del detestato fratello,
fuggendo di regione in regione, finché non fui rintracciato dai suoi due figli,
Agamennone e Menelao, e fui ridotto in questa grotta. Ma voi, piuttosto, com’è
che l’avete con voi. Chi ve la diede? Non ho più niente, lo vedete, e sapere
chi la trovò e se ne ebbe vantaggio o svantaggio, forse un po’ gioverebbe alla
mente che ormai vaga senza meta e senza più speranza.” E Pelopia: “Le vostre
parole non mi sono affatto chiare. Dite di avere perso la spada che era vostra,
e che questo avrebbe peggiorato la vostra sorte, come fosse un talismano divino.
Mi pregavate all’inizio di rispondere alle vostre domande per rispetto dei
sentimenti di un padre. Ora mi dite che vi sarebbe di giovamento sapere chi
ebbe la vostra spada. Sono discorsi senza capo né coda questi, e paiono
ragionamenti di una mente assai debole. A questo punto, ripeto, non so di voi e
della vostra sorte, né dell’ottimo motivo – perché ottimo deve essere senza
dubbio – per cui mio marito vi ha cacciato qui sotto. Rendetemi la spada, prima
che a lui racconti tutto questo vostro delirio, e temo che per voi sarebbe
peggio.” E Tieste: “No, non v’adirate signora. La mia mente è debole senza
dubbio, i miei discorsi appaiono slegati, lo capisco, ma solo perché pezzi di
una storia lunga di dolori che richiederebbe tempo per essere narrata con
adeguata costruzione. Un uomo tenuto in queste condizioni per anni perde
cognizione di tutto ed anche di sé. Non riesce più a distinguere quello che è
stato da quello che è: tutto si confonde nelle immagini della mente, suscitate
da un rumore… tanti sono i rumori nel silenzio e in queste tenebre. Vi chiedevo
di questa spada, perché questo oggetto mi ha riportato in vita per un momento
con un ricordo nitido. E in questo ricordo di un me che quasi stento a
riconoscere come un ricordo di qualcosa di vero e non di un sogno, ecco che a
queste mente non più salda si affaccia la mia povera figlia che non seppe chi
fu e che gli dei vollero strumento di trame complesse. La mia povera figlia,
che non conobbe né il padre né la madre, e che fu consacrata, appena nata, alla
dea dai begli occhi lucenti. La mia povera figlia Pelopia che avrebbe generato
un figlio fratello dallo sconosciuto genitore per volere dell’Obliquo, perché
fosse ripristinato l’ordine violato dagli inauditi orrori accaduti in questa
casa…” Questo stava dicendo Tieste, quando Pelopia, rabbrividendo, lo
interruppe: “Cosa andate dicendo, pazzo, chi è questa Pelopia di cui dite cose
inascoltabili e, ahimé, tanto simili al più triste racconto che io conosca…”
Rispose Tieste: “Pelopia, signora, è mia figlia, che sua madre volle sottrarre
a questa casa, dandola alla luce nel tempio di Atena a Sicione. Pelopia è
quella stessa figlia che Apollo volle posseduta dal padre, da me che ero suo
padre, per generare colui che avrebbe riportato l’equilibrio tra le nefandezze
della stirpe dei pelopidi. E fu quella notte, signora, che dopo avere violato
la mia stessa carne per volontà dell’Obliquo, persi la spada nella fuga
veloce.” Dette un urlo Pelopia: “Ahi, ahiaiaiai, me sventurata… E tu, uomo
spregevole ed ignobile. Pelopia, quella misera Pelopia di cui parli, ti è di
fronte, e questo che è ancora un bambino è il frutto demoniaco di quella notte.
Demone a sua volta, come io sentii subito, e che volli abbandonare sui monti
perché lo divorassero i cani e gli uccelli. Ma che lo stolto Atreo, credendolo
suo, salvò. Salvando la propria disgrazia, penso ora io. Ma ancora più
sciagurato il mio infame destino che mi portò anche tra le lenzuola di uno zio.
Come una cagna lurida e viziosa, ma ignorando ogni cosa. Ingannata dall’occhio
imperscrutabile degli dei, fui strumento del delirio di parenti sconosciuti, di
chi mi diede la vita e la divorò. Ma ora che so, la ferita che sanguina da
sette anni è niente, e il morbo attuale divora ogni mio pensiero e mi buca le
carni. Dammi questo bronzo, padre degenerato, non posso più nulla, solo la
morte che liberi da questa peste che mi sento addosso.” Così disse Pelopia e si
lasciò cadere sulla punta dell’arma che la trafisse da parte a parte, e la
tenebra invocata coprì i suoi occhi.
EGISTO
(parte II)
Tieste trasse a sé il ragazzo: “Piangi, Egisto,
piangi ora tua madre. Tua madre non ha tollerato il disegno degli dei, che è
sempre stato assai grave per i Pelopidi, assai più grave che per tutti gli
altri mortali. Piangi tua madre e riconosci il tuo vero padre. Al mondo tu sei
per volontà del grande Apollo che mi ingiunse di averti dalla mia stessa carne,
e perciò da mia figlia Pelopia. Sei al mondo per ristabilire l’ordine nella
stirpe, l’ordine più volte violato e sconvolto dal detestabile mio fratello
Atreo. Sono io tuo padre, come ti ha testimoniato ora qui tua madre, dandosi
infine la morte. Atreo pensa di essere tuo padre e si inganna: questa è la
prima parte del piano dell’Obliquo. Devi sapere che Atreo, accecato
dall’invidia e da inesausto e smodato desiderio di potere, ha calpestato ogni
diritto di tuo padre Tieste, che gli era stato fratello fedele, trattandolo con
odio e disprezzo fino all’esilio. E tuo padre, non dimenticarlo mai, fu
costretto come figlio di nessuno a vagare tra genti straniere per elemosinare
la vita. E non fu ancora niente, perché Atreo, ancora insoddisfatto, mi
richiamò qui in casa accanto a sé, fingendo di volere la riconciliazione del
sangue. E fu il più orrendo dei misfatti, perché uccise i miei cari figli,
quelli che oggi sarebbero i tuoi fratelli, e mi indusse a mangiarne le carni
con l’inganno. Poi mi scacciò, nuovamente privato di tutto, per ridarmi ancora
una volta ancora più furiosamente la caccia e gettarmi in questo buco in cui mi
ha regalato la morte ogni giorno come dio degli inferi. Medita tutto questo,
Egisto. Per quanto ancora ragazzo, ora non hai più tempo, e devi in un giorno,
in questo giorno, diventare un uomo in tutta fretta. Quando Atreo saprà ogni
cosa, e puoi starne certo che lo scoprirà in breve tempo, non ci sarà per te
speranza di salvezza, come non ci fu per i tuoi sfortunati fratelli. Ti
strapperà la vita come una belva feroce. Piangi tua madre, ora, Egisto, perché
è giusto, ma medita tutto quello che ti ho rivelato e fallo in fretta. Quest’arma
che estraggo dal corpo senza vita di tua madre, prendila e mostrala all’orrendo
Atreo. Per un attimo penserà che è mio il sangue che la ricopre. Ma in quello
stesso istante, trafiggilo e uccidilo. Devasta il suo corpo, perché se lascerai
solo un filo di vita in quell’uomo, sarai tu morto subito dopo. Poi, segui il
destino della tua esistenza, segui il volere degli dei, segui Apollo
implacabile. E vendetta sarà per i tuoi fratelli, per tuo padre e per il tuo
sangue”.
Così disse Tieste e le sue parole risuonarono
tonanti e cupe nella mente del ragazzo. Egisto prese la spada, e gli parve che
davvero il padre gli avesse versato nel cuore l’ira imperiosa dello
sterminatore. Le cagne infernali latravano, ora, nel suo petto vigoroso e, nei
suoi occhi, le vide anche Tieste che aggiunse rallegrandosi: “Va, figlio,
scatena le furiose Erinni che non dimenticano e sono ora dentro di te per avere
quanto è loro dovuto. Ne hanno dovuto attendere di tempo, ma la loro ferocia è
eterna ed implacabile, ed ora fa bollire il tuo sangue”.
Egisto corse da Atreo e, come gli aveva detto il
padre, per prima cosa gli mostrò la spada sulla quale si era rappreso il nero
sangue di Pelopia. Gli occhi di Atreo si illuminarono, e fu un attimo. La vista
si spense avvolta dalle tenebre. Egisto affondava la lama nel suo petto, poi
fulmineo gli tagliava la gola e abbatteva il bronzo sul cranio che si apriva
versando grumosa materia. Non fu l’Egisto che si era trovato di fronte a Tieste
e che aveva esitato quello che trucidò Atreo. Egisto era ormai nelle mani del
dio Apollo e nelle vene gli pulsava il sangue avvelenato delle furiose cagne
infernali.