venerdì 24 luglio 2020

La stirpe di Tantalo


TANTALO
Gli amici assaggiarono quel cibo e bevvero quella bevanda apparecchiati da Tantalo, e ammutolirono nella vertigine dei sensi. La sazietà e l’ebrezza risultavano del tutto nuove dentro i loro corpi. Si guardavano gli uni con gli altri in uno stato di pace energico, e sembrava loro non servire più la parola. Ciascuno godeva un benessere ed una vigoria dentro di sé e vedeva lo stesso negli occhi degli altri, e da quelli proseguiva a goderne l’effetto. Un effetto che non apparteneva più ai singoli, ma che diventava comunione di piacere e così continuava ad accrescersi. Nella brezza del meriggio ognuno sentiva le proprie membra sciogliersi nel cosmo, in un insieme di compattezza e dissolvimento palpitanti. Il sole e le ombre accarezzavano la vita e l’abbracciavano nel perfetto ritmo ciclico d’ogni cosa. Il tempo, come la parola, sembrava scomparso nel fluido perfettamente immobile del creato.
Al culmine delle altezze, la vertigine travolse ogni mente e si tramutò in nebbia che calò negli occhi di tutti gli amici. Il sonno piovve sui loro corpi.
Avevano bevuto nettare e mangiato ambrosia. Per loro era la prima volta. Tantalo no, lui era abituato. Mortale sì, ma prossimo agli dei. Non era bene sbandierarlo, perché c’era pur sempre qualcuno che tentava di dimostrare una verità diversa, ma lui era figlio di Zeus. Proprio così. E d’altronde, come altro spiegare la benevolenza che, nonostante tutto, continuava ad essergli accordata… Nonostante tutto. Tantalo, infatti, se ne prendeva di confidenze con gli dei! Di quelle confidenze che notoriamente danno noia alla divinità. Quel nettare e quella ambrosia, per esempio, Tantalo non l’aveva ottenuta in dono. Li aveva rubati, e per di più, per il desiderio tutt’altro che nobile di accrescere l’invidia dei suoi amici, e con quella di riconquistare il loro cuore.
Tantalo era ricco, anzi, ricchissimo. Governava su un territorio vastissimo, dalla Lidia alla Frigia. Gli dei avevano di lui considerazione e, spesso, gli concedevano il favore di dividere con loro la mensa. Ma Tantalo era tormentato dalla solitudine. Le ricchezze, pur tanto bramate, erano diventate sorelle scostanti e noiose. Aveva goduto d’ogni cosa, d’ogni oggetto prezioso, ne aveva avuti di sempre più rari, ne aveva accumulati e nascosti da ogni angolo del mondo sino a perderne del tutto il piacere. Tutto quel bronzo ben lavorato, quell’oro e quell’argento rilucenti, tutti quei bauli di stoffe straordinarie tessute dalle mani più esperte, non sortivano ormai alcun effetto sul suo umore, eppure un tempo gli avevano fatto sussultare il cuore di abbondanza. Qualche tripode ben fatto, poche coppe ben cesellate servivano le necessità del suo palazzo, delle sue giornate sempre più lunghe e solitarie. E tutto il resto giaceva accatastato e impolverato, senza vita e senza utilità. Financo le armi, le più perfette armi forgiate nelle viscere di tutti i vulcani della terra, non destavano in lui più alcun interesse. Facevano mostra nei saloni del palazzo, ma non vestivano alcun eroe che le eternasse con azioni memorabili. Tutto il suo potere, poi, che cos’era? Se non orrore e spavento, quella paura che era riuscito ad imprimere negli sguardi di tutti i suoi sudditi. Ed, oggi, dinanzi a sé non aveva più uomini, ma solo volti pavidi, maschere di uomini terrorizzati e per questo sempre pronti a mentire ed a ricorrere all’inganno. Doppi, tripli e quadrupli nel loro encomio servo, costante, irrinunciabile. Ma, soprattutto, il favore degli dei, quell’amicizia che i primi tempi lo aveva colmato d’orgoglio e che, pian piano gli si era mutata in tediosa indifferenza. Sì, perché quel vantaggio di essere accolto nell’Olimpo, alla lunga, aveva mostrato la sua esclusiva inutilità. Zeus, da sempre, lo aveva ammonito: “Nulla mai rivelerai tra i mortali di quanto i tuoi occhi hanno visto nel cielo, di quello che le tue orecchie hanno udito quassù, di ciò che i tuoi sensi hanno percepito alla nostra presenza”. Questa la condizione delle condizioni perché fosse consentito ad un mortale frequentare l’eternità. Questo il patto a garanzia del privilegio, affinché non fossero sovvertite le immutabili leggi sovrane. Ma questa, anche, di tempo in tempo, la ragione del crescente tormento dell’uomo. Che privilegio è, infatti, quel privilegio che non può essere ostentato? Che valore ha un’esclusiva che non può essere mostrata in pubblico? Che vantaggio porta un vantaggio che non può essere esercitato? La vicinanza degli dei, per un mortale, non è un bene di per sé, anzi: suscita ed agita i demoni interiori, può generarne di nuovi ingovernabili.
Tantalo era un uomo grande, forte. Potentissimo, regnava su un popolo quasi sterminato che lo temeva. Era ricco più d’ogni altro. Eppure, nell’Olimpo non era considerato che un inferiore, limitato e misero come ogni altro mortale. E’ vero che con suo padre, Zeus, non avrebbe mai potuto competere, troppo era più forte il figlio di Crono. Ma Zeus era troppo più forte per ogni altro dio. Invece, ce ne erano di divinità che ingiustificatamente si sentivano superiori a lui, Tantalo. E perché, poi? Tantalo era grande e forte e potente, perché continuavano a trattarlo da meno di quello che avrebbe meritato? Un giorno aveva perso il senno per un ricciolo biondo tra i capelli di Atena. La rotondità di quel ricciolo su cui si era posato, quasi distrattamente, il suo sguardo lo stava risucchiando in un vortice di piacere. Il senso indifferenziato d’ogni avvolgimento si era impadronito della sua coscienza, ed il significato d’ogni sferica perfezione aveva invaso il suo essere in modo così penetrante ch’egli era stato ad un passo dal perdere conoscenza. Allora, quando la dea dagli occhi lucenti si era voltata verso di lui, ridendo gli aveva detto: “Mortale, che credi di fare? Bada ai tuoi limiti! Non è per te ciò che contempli, non può la razza tua misurarsi con tali geometrie. Troppo ne soffriresti, poverino: lascia che la tua mente erri su terreni circoscritti, e non tentare altro che mai potrai vedere coi soli occhi tuoi terrestri…” Poi, rivolta al padre, aveva aggiunto: “Lo vedi, padre caro, cosa si fa se si permette ai mortali di starci così vicini? Non è bene portarli alla follia! La tua benevolenza non diventi il peggiore male per qualcuno di loro!”. Così disse, ed andò via la dea velando i suoi occhi azzurri. Fu un giorno maledetto, quello, per Tantalo: Tantalo si stimava tanto più di un mortale, ma gli dei non ne avevano alcuna considerazione; Tantalo era un semidio, ma gli umani lo evitavano.
Tantalo era prigioniero della sua solitudine, e per questo aveva violato la mensa degli dei. Per questo aveva rubato nettare ed ambrosia: per riconquistare gli uomini. E quei suoi amici, li avrebbe costretti ad amarlo, ci sarebbe riuscito con quel dono divino. I suoi amici avrebbero smesso di ossequiarlo per puro terrore del suo potere, ed avrebbero cominciato ad amarlo perché amico degli dei. Avrebbe, così, infranto il sacro giuramento del silenzio, questo è vero, ed avrebbe sfidato l’ira di Zeus, ma avrebbe ripreso a godere la vita tra i mortali. Avrebbe raccontato loro dei suoi banchetti con gli dei, ed essi, con ammirazione verso il privilegio, avrebbero gareggiato per stargli vicino in ogni istante. A Zeus, però, non restò nascosto il furto di Tantalo, e, diversamente, provvide a ripristinare l’ordine delle cose. Gli amici sentirono la sera cadere sui propri occhi e la nebbia riempire la propria mente. Al risveglio, nessuno ricordava il profumo del nettare ed il sapore dell’ambrosia, e tutti temettero di essere stati avvelenati da Tantalo.
La solitudine morse ancora più di prima. Gli amici, al risveglio, lo guardarono con occhi smarriti che mutarono in rancore ed odio misti a timore. Tra loro uno disse: “Tantalo, malvagio tra i malvagi, uomo ingiusto e feroce! Con l’inganno volevi liberarti di noi che pure offesa non ti abbiamo recato. Col veleno mischiato alle bevande volevi ucciderci tutti, temendo forse, nel tuo cuore di belva, che qualcuno di noi potesse mai fare ombra alla tua tracotanza. Hai finto di offrirci un banchetto, e molti di noi avevano gioito pensando tu fossi rinsavito e fossi tornato a cercare negli uomini il piacere dell’amicizia. Ma, invece, no: oltre ogni limite hai spinto il tuo cuore violento, ed hai tentato di sterminare quei pochi che da sempre conosci e che sono cresciuti con te, purtroppo per loro, affianco alla tua pianta velenosa. E col veleno tentasti l’impresa, ma chi ti diede quel farmaco, forse conoscendo l’abisso della tua mente, ebbe pietà degli uomini, e ingannò te che volevi ingannare. Lontano da te scapperemo e non penseremo alla vendetta, perché sono gli dei che hai offeso con il tuo folle intento, e saranno gli dei a ristabilire il rispetto delle sacre leggi che ogni cosa governano!”
Tantalo, allora, pensò che fatalmente dagli uomini non avrebbe mai più potuto avere amicizia. Era il suo destino: troppo uomo per essere divino; troppo divino per essere uomo. Ma se il suo essere troppo vicino alla divinità non poteva che spaventare i mortali, il suo essere troppo mortale non avrebbe mai spaventato gli dei, e questa doveva essere la sua strada. Avrebbe cercato, così, l’accondiscendenza degli dei; non li avrebbe sfidati, ma avrebbe cercato di servirli, pur sempre in tal modo restando un eletto. Non sarebbe mai stato un dio, ma sarebbe stato, tra gli uomini, quello più amato tra gli dei. Così, pensò che avrebbe dovuto lui invitare l’Olimpo a scendere sulla terra e che, in questo ribaltamento di ruoli, avrebbe potuto ristabilire il suo antico privilegio: non dio, ma primo fra gli uomini, tanto da potere invitare alla propria mensa gli immortali.
Cosa offrire, dunque, agli dei, in modo da rendere evidente l’eccezionalità di Tantalo, in modo che gli uomini sempre avrebbero ricordato che Tantalo era stato il primo tra i mortali, il più amato dagli olimpi? Di tori e di capri e di arieti era saturo il cielo. Certo, sacrifici da sempre graditi agli dei ma che qualunque artigiano del popolo avrebbe sempre potuto riproporre. Così pensò, e fece chiamare il figlio Pelope che nulla ancora sapeva del privilegio paterno, e che era giunta l’ora ne venisse a parte.
E l’Olimpo, invitato, giunse dal cielo e riempì il palazzo di Tantalo. L’edificio ben costruito presentava marmi e bronzo e argento ed oro in terra e alle pareti, i saloni erano alti e immensi, i cortili colmi d’ogni più bella pianta. Eppure il cuore di Tantalo non trovava leggerezza e gli pareva di piombo, perché la sua casa, con dentro gli dei, non aveva più nulla di regale, e sembrava misera, spoglia, non degna di un re più che di un guardiano di porci. Non avveniva quello che aveva sperato, non riusciva a sentirsi primo tra gli uomini al cospetto delle divinità; gli pesava, invece, insopportabilmente ogni suo insuperabile limite, ogni sua invalicabile finitezza. Nulla, in quell’ora, lo differenziava dai mortali, ed avrebbe dato la vita per non essere più lì, per essere lontano, su un colle, gettato su un prato, tra mansueti bovini dalle corna lunate, in una invisibile vita comune. Piuttosto che soffrire ancora una volta la superiorità degli immortali che, ancora una volta l’avrebbero deriso e che nulla avrebbero donato al suo cuore se non avvilimento e rabbia.
Ma il banchetto era pronto, e tutto era già stato apparecchiato dai servi sulle tavole ben levigate prima dell’arrivo delle divinità. Nessuno mortale, tranne il padrone di casa, avrebbe potuto assistervi. Il corpo di Pelope era stato smembrato per l’irripetibile occasione. Il figlio di Tantalo sarebbe stato il cibo per gli dei. La carne bollita fumava davanti al volto di Zeus che cominciò a mutare, e divenne notte e lampo e fuoco e furia. Tutti immobili gli dei, impietriti dall’ira montante del figlio di Crono, attendevano il diluvio che si vedeva salire nei suoi occhi. Demetra soltanto restava fissata, distratta, nell’atto di addentare un pezzo di carne che, dopo qualche istante, le scivolò dalle mani. Aveva mangiato una scapola, solo una scapola. Il cielo si oscurò, ed un vento gelido e teso entrò nella sala, spazzando ogni prezioso oggetto appeso alle pareti, strappando le solide porte dagli stipiti, ribaltando i bacili già pronti per la detersione delle mani. Fu come un turbine ad entrare nel palazzo che squarciò il tetto e abbattè le pareti, mentre Zeus gonfiava e diventava sempre più immenso avvolgendo ogni cosa, finché tuonò maledicendo Tantalo, e predicendo alla sua stirpe ogni più inumana disgrazia. Poi, lo precipitò nel Tartaro, e disse rivolto agli altri dei: “Così lo vedrà l’eternità dei morti: eternamente immerso fino al collo in un lago che eternamente si prosciuga quando l’inesausta sete tenterà di placare; da rigogliosi rami su di lui eternamente penderanno i più gustosi frutti che il vento via eternamente rapirà quando per la mai sopita fame verso quelli tenderà le inutili braccia.”

PELOPE
Il cielo alla fine, gonfio di nuvole nere, rovesciò sulla terra fiumi di acqua. Tra le rovine del palazzo di Tantalo nessuno degli immortali aveva mosso un ciglio, né ancora lo muoveva, o detto una sillaba e tutto era temporale. Di fronte all’ira del dio sovrano non c’era che attendere che cessasse e che quell’acqua purificasse ogni cosa. Come quando un uomo col fuoco ed il fumo distrugge un vespaio troppo grosso che gli rende pericolosa la vigna, tutte le api ne escono e si disperdono intorno, così i servi, ora, scampati al disastro, vagavano per le campagne intontiti ripensando alla vita che non gli era stata strappata, e non cercavano rifugio dall’acqua, ma correvano via. Quando anche l’ultimo pezzo di muro dell’antica reggia scomparve trasportato lontano dalla profonda fiumana, Zeus ordinò che le membra di Pelope fossero rimesse a bollire, tutte quante, anche quel pezzo di carne ormai mancante della scapola che Demetra, distratta, aveva mangiato. Poi chiamò le Moire, ed a Cloto disse: “Tu che curi la trama della vita, se quella di questo fanciullo è ancora nelle tue mani, non smettere di tessere e dà forma nuovamente al suo corpo, quando il calore della carne sarà per te giusto.” Tra il fumo, vicina alla gran pentola di bronzo, Cloto cominciò a ricucire pezzo per pezzo quel corpicino ancora troppo giovane, e quando giunse a rimontare la spalla bucata, il figlio di Crono ordinò a Demetra di modellare in avorio un scapola in tutto simile a quella che aveva mangiato e di sistemarla al suo posto. Poi la Grande Madre soffiò nelle narici di Pelope e quello riprese a respirare. E mentre le cuciture pian piano sparivano, riappariva il bellissimo aspetto del giovane. Le ultime gocce di pioggia che caddero dal cielo ne detersero accuratamente le membra e ne unsero generosamente ogni parte con rugiade profumate.
Poseidone, che era in disparte, vide la luce provenire da quel fanciullo e se ne invaghì all’istante. Si avvicinò, dunque, a passi lenti così come il desiderio dettava, a quel fuoco, a quel calderone di bronzo, di fianco al quale giaceva Pelope nudo disteso su teli finissimi ancora avvolto nel vapore della sua rinascita, e rivolto a Zeus disse: “Fratello, padre di noi tutti, questo ragazzo è ormai solo e non ha patria per il tuo giusto divino sdegno. Lo prenderò io, con me, finché non diventerà un uomo e potrà badare a se stesso ed alla triste sorte che gli spetterà per la maledizione che tu hai inflitto a tutta la stirpe di Tantalo. Ma, ora, lascia che venga con me, che possa avere qualche anno di gioia prima di affrontare la dura vita che gli tocca.” Così Pelope fanciullo fu rapito da Poseidone che ne trasse piacere finché non divenne uomo. Allora lo ricondusse nella terra paterna e gli consegnò il potere su quelle terre e su quei popoli.
Ma Pelope si portava addosso una smania continua, un fremito costante. Nelle sconfinate profondità marine, con Poseidone, aveva potuto dare continuo sfogo al demone che lo portava a non stare mai fermo. Ora, quella smania di sentirsi legato era tornata a tormentarlo più forte. Gli prendeva un desiderio acuto di strapparsi un braccio o una gamba, di aprirsi il petto o di staccarsi la testa se solo stava fermo un attimo. Solo il movimento, l’incessante movimento gli dava ristoro. Così, presto, decise di partire, e a chi gli chiedeva il perché ed il dove, rispondeva che sarebbe andato in capo al mondo, a prendere moglie, e che l’avrebbe presa in un regno lontano dal centro di tutto, e solo quando avesse trovato una donna indomabile. Quella cercava, la donna che potesse mettere fine alle sue smanie fiaccandone l’energia.
Il viaggio fu lungo, ma correre, fuggire nel vento di prua della sua nave veloce gli dava giovamento, mentre i suoi marinai increduli lo vedevano sempre all’opera non dormire neanche un istante. Investito dall’aria spumosa in mare aperto aveva la sensazione di liberarsi delle braccia, di perdere pezzi del corpo che, altrimenti, fremevano di continuo come di autonoma vita.
E giunse ad Olimpia dove Enomao regnava e correvano i cavalli migliori del mondo. Ippodamia era la figlia di Enomao. La divina Ippodamia che mai ancora s’era concessa ad estraneo e che solo il letto del padre conosceva. Sulle mura della città ben costruita, tredici pali su cui tredici teste. Tredici pretendenti che avevano pensato, illusi, di potere domare la domatrice. Tredici nobili aspiranti che avevano provato a mescolare sangue che non può e non deve mischiarsi.
Enomao era figlio di Ares, e viveva spietato per un solo ideale: la purezza del sangue. Come i suoi cavalli, la razza più pura che consentiva a quegli animali un corpo perfetto, unico, dallo slancio divino, dalla velocità saettante. Come sua figlia, infinitamente bella, lucente, fredda e intoccabile. Non ci sarebbe mai stato un uomo degno di lei e questa era una verità immutabile. Nessun sangue sarebbe stato tanto puro da potersi mischiare con il suo senza imbastardire.
Tredici uomini avevano detto di avere sangue divino ma non erano riusciti a sostenerlo nella prova. Avevano detto di avere sangue che ribolle nella gara, di sentire nelle narici l’odore della polvere del traguardo, di masticare la vittoria. Erano caduti con fragore, tutti, sbalzati dai carri sulla terra infinita a mordere le pietre mentre venivano travolti dai cavalli che non avevano saputo condurre.
Tredici gare si erano svolte davanti alle alte porte di Olimpia. Il pretendente, inscenando il rapimento di Ippodamia, fuggiva con l’odorosa fanciulla sul suo carro. Enomao immolava un ariete nero, poi, concesso tale vantaggio, montava sul suo carro e si lanciava all’inseguimento. I perfetti cavalli, doni di Ares, bruciavano la terra su cui volavano, raggiungevano il carro del pretendente, Ippodamia saltava sul carro del padre, un attimo prima che lo sfidante fosse sbalzato ingoiando il crudo destino. Tredici teste erano state staccate dai corpi impuri per essere esposte agli uccelli, lì, in cima a quegli alti pali sulle mura di Olimpia, in onore della divina Ippodamia, in onore di quell’ideale.
Questo l’orrore che accoglieva i nobili pretendenti, questi i segnali e gli avvisi, questa la sorte stampata sul cielo di Olimpia.
Ma Enomao accolse il suo ospite con tutti gli onori. Il figlio di Ares rispettava gli dei e così gli ospiti e i supplici cari agli olimpi. Pelope fu accolto e trattato con ogni grazia, cura ed attenzione. Per tre giorni mai si parlò della prova. Furono fatti ricchi sacrifici per propiziare la nuova coppia, e preparati banchetti sontuosi in cui Ippodamia era sempre accanto a Pelope, come già fosse il suo sposo. Quello era il disegno sempre, già messo in scena per tredici volte, ed aveva reso più gustoso l’epilogo al padre e alla figlia. Questa volta, però, Ippodamia, pur tenendo come le altre volte il gioco, sentì qualcosa di diverso e di nuovo: quel giovane bellissimo pareva modellato dalle mani degli dei, la sua pelle era candida ed ogni parte del suo corpo promanava energia attraente. E poi, quella sua schiena rilucente che ne faceva un essere straordinario. Ippodamia se ne invaghì a tal punto che, in segreto, rivelò al figlio di Tantalo ogni cosa, e predispose il piano di fuga, questa volta una fuga vera, e come mettere fine a quelle gare, una fine definitiva. Avrebbe convinto l’auriga del padre, Mirtilo, a sostituire i perni delle ruote con pezzi cedevoli. Mirtilo l’amava alla follia, lei lo sapeva, e sarebbe stato facile indurlo al tradimento. Il carro, così, tirato dai veloci cavalli dono di Ares si sarebbe presto schiantato nella gara funesta.
Ma l’accorto Pelope, temendo l’inganno racchiuso nell’inganno meditò le sue misure. Invocò, quindi, Poseidone, in nome della tenera amicizia d’un tempo. Ricordò quei cavalli con cui era stato rapito dal dio, ed in volo trasportato via nel cielo e nel mare. Quei cavalli così veloci da attraversare in un attimo la terra infinita e le onde degli abissi. Ed il dio che scuote la terra, evocato, condusse i suoi cavalli ad Olimpia: fu il suo regalo di nozze.
L’aurora colore dell’oro del quarto giorno sorse a rischiarare gli dei e i mortali e Enomao fece chiamare Pelope fuori dalle alte porte della città, sul campo di gara e gli disse: “Ah quanto dolore porta il mio cuore, o nobile figlio di Tantalo, dolore di padre che non può trovare pace e di anno in anno s’accresce! Vedi ora tu le teste di quegli infelici, alte sopra le mura. Tutti signori di popoli illustri, grandi guerrieri. Ciascuno per tre giorni m’illuse di avere trovato il genero ricercato. Ciascuno già aveva preso un posto nel mio cuore ogni anno più vecchio. Ma il quarto giorno, per tredici volte, ognuno di quelli mi ha abbandonato, tradendo ogni bella promessa. Figlio caro, lo so, ho il cuore tenero che si lascia ingannare dai sogni facilmente. Io quegli eroi li accolsi in casa già come fossero parenti, credendo alla forza del loro sangue. Ho offerto loro in dono la mia divina Ippodamia, fidando in quello che essi stessi di sé dicevano e che la gente ripeteva. Tredici uomini che si dicevano di stirpe divina e che, invece, non seppero lanciare il carro veloce nel campo di gara senza morirne. Ah che dolore, figliuolo, vedere tutti quegli uomini, all’aspetto vigorosi e valenti, perire miseramente in un gioco, nel fiore dell’età, e con l’ignominia di non essere stati all’altezza non già delle gesta più nobili, ma neppure di un gioco. Per questo, caro Pelope, voglio ora parlarti come fossi tuo padre. Ascolta con attenzione le mie parole e decidi per il tuo bene, per il mio, e per l’onore della nostra amata Ippodamia. Devi sapere che c’è una legge in queste terre di cavalli veloci dal sangue purissimo, legge eterna che ci fu data dagli dei. La legge prescrive che per suggellare la promessa delle nozze deve darsi una gara tra lo sposo e il padre della sposa. In quella gara sul carro lo sposo deve superare in velocità il carro del padre della sposa, e in tal modo si segna il passaggio del sangue puro da una generazione all’altra. Se il promesso sposo non vince, però, questo è segno che egli non è degno della sposa promessa e… Ma veniamo a noi. Questo che vedi sotto i tuoi piedi è il campo di gara… Vedi i segnali lì giù della svolta?… Sono previsti tre giri. E’ un gioco, non più di questo, ma svolgerlo è legge divina cui non possiamo sottrarci. Te la senti, dunque?”
Disse così, Enomao, e si chinò e cominciò a calzare i sandali. Poi, si rialzò e guardò Pelope con dolcezza: “Non temere, figliuolo, e fidati del vecchio padre di Ippodamia. Io, quando tu sarai già partito, sarò ancora qui fermo per immolare agli dei un ariete nero. Solo quando l’avrò sgozzato ed avrò posto le carni sul fuoco, partirò anch’io. E, con questo vantaggio, avrai vittoria sicura! La legge sarà onorata, ed il cielo benedirà le vostre nozze. Tu bada solo a guidare con valore il tuo carro, e che la misura guidi la tua mano!”
Pelope preparò il carro e, quando fu pronto, Enomao gli porse la mano della figlia. Al segnale i due partirono, ma Pelope tratteneva i divini cavalli dono di Poseidone, e quando fu giunto alla svolta li fermò. Si voltarono allora gli sposi in tempo per vedere Enomao, lanciato nella rincorsa, sbalzato dal carro che perdeva le ruote, saltare oltre i suo cavalli e finire travolto sotto le zampe possenti. Tra la polvere si udì solo una voce tremenda che malediceva Mirtilo, lì in fondo, fermo al traguardo, all’ombra di un ulivo.
Dalle alte porte di Olimpia si riversarono a frotte i servi accorrendo al tremendo misfatto, verso il campo di gara, verso quella polvere, in soccorso del vecchio re morente. Sterope, la regina, restò ferma sulle alte mura da cui osservava ogni cosa ed il suo cuore si sciolse: era finalmente finita.
Pelope ed Ippodamia tornarono verso il traguardo, trassero sul carro Mirtilo che immobile ancora guardava là verso la polvere, e volarono via verso il mare. La prova non era ancora conclusa. In un istante furono su una scogliera a picco sul mare lucente. Lì si fermarono: Ippodamia aveva sete. Pelope prese con se l’elmo che avrebbe fatto da coppa e si allontanò verso il vicino ruscello. Mirtilo, allora, risvegliatosi dai grandi fatti accaduti, cinse con le braccia Ippodamia pretendendo ciò ch’era stato pattuito. Ippodamia cedette all’abbraccio, ma, insieme, si incamminò verso quel sole accecante che rimbalzava in fondo sul mare. Mirtilo sentiva che il sangue pulsava come non mai e in quel bagliore e calore che veniva dall’orizzonte e dal mare non s’accorse di essere sul ciglio della scogliera, quando Ippodamia lo spinse con grazia nel vuoto che lo avvolse.
Al suo ritorno, Pelope offrì la sua acqua fresca a Ippodamia e chiese di Mirtilo. Ella ne bevve, si deterse lo splendido viso, ne passò tra i lunghi biondi capelli mossi dal vento e rispose: “Troppo sul suo cuore pesava il grave segreto. Lo ha chiuso in sé e lo custodisce nell’abisso del mare profondo”. Pelope guardò in basso, verso i flutti, e allora gli parve di udire un cupo boato salire da un gorgo che si frangeva alto sulla candida scogliera. Ippodamia lo cinse da dietro e gli sussurò all’orecchio: “Prima di avermi nell’amore in tutti i modi che la natura conosce, promettimi, mio sposo, che nessuno più veda la tua schiena divina se non io. Giura, davanti agli dei, che io sola, da oggi, possa godere del tuo celeste segreto. Offri alla tua Ippodamia questo privilegio che altri non abbiano: vedere e toccare il tuo corpo fatto della stessa materia in cui sono lavorate le statue del divino Zeus, re delle nuvole.” Pelope, in quell’abbraccio nel vento dell’alta scogliera, nel sole che riempiva il mare ed il mondo, col fremito furente d’ogni suo arto, pel fuoco che saliva dal sangue bollente, promise e giurò ogni cosa. E in quel bagliore del cielo e del mare e del corpo e dei capelli di lei, prese Ippodamia che l’avvinse. Così passarono i giorni e le lune del primo amore, e Pelope vide che solo Ippodamia sapeva liberargli le membra che sempre sentiva legate. Solo Ippodamia, la velocità e la guerra. Poi, tornarono al mondo degli uomini, ad Olimpia dalle alte mura.
Sterope, la regina, accolse la figlia e le disse: ”Donna, che pur sempre figlia mi sei, il sangue non può rivoltarsi a tal punto che gli dei non ne abbiano sdegno, prendi ogni cosa, fa tuo ciò di cui già ti appropriasti, signora sugli uomini le bestie e le piante di queste terre di Olimpia. Lasciami solo la mia vecchiaia, per il silenzio che ho sempre chiuso nel mio cuore e che con me rimarrà serrato nel gelo delle mie stanze. Mettimi in una torre e ordina che goda la ricchezza che può bastare a una vecchia. Di tanti beni, una sola unghia sia lasciata a questa che pur sempre madre ti fu. Tre serve, i miei pepli regali, coppe, anfore, bacili e tripodi tra i più preziosi della reggia, quanti ne possono servire ad una sola persona, a me, non per banchetti, ma per libare solitaria e consumare, regina, sì, regina solo di me stessa, i miei ultimi giorni.” Disse così, fredda, la dura Sterope, e così fu fatto.
Il regno di Tantalo, ormai, era perduto. I barbari avevano preso tutto ciò che sotto il sole era rimasto per troppo tempo senza un padrone. Ma Pelope non se ne curava. Pelope aveva la sua condanna: sentiva sciogliere le corde che lo legavano solo nel furore dell’amore con Ippodamia, in qualunque folle corsa nel vento, nell’ebbrezza dei corpi mutilati in battaglia. Ippodamia gli diede ventidue figli, mentre coi divini cavalli di Poseidone volava in guerra su tutte le terre, smembrando i nemici col bronzo funesto delle sue armi, lasciando quei miseri resti ai cani e agli uccelli, finché non divenne più potente e ricco e temuto di quanto era stato suo padre. E fu signore e padrone del Peloponneso.

IPPODAMIA
Le tenebre avvolgevano Tebe e la luna muoveva le ombre nel palazzo del re Laio. Tutti i lumi erano stati spenti in ogni stanza della reggia ed in ogni casa della città, e la notte era al suo momento più profondo. Ippodamia e i figli Atreo e Tieste erano già penetrati nell’atrio dell’edificio reale, nel cuore portavano il loro disegno funesto da lungo preparato. Nel talamo di Laio, nel letto accanto a lui, in quell’ora, non c’era sua moglie Giocasta, ma il divino fanciullo Crisippo.
Diceva Ippodamia: “Ricordate, o figli, il tradimento di vostro padre Pelope, la ninfa Axioche gli generò Crisippo, ed egli lo ama più di quanto ami voi, che pure siete i migliori, i perfetti della razza. Vostro padre non ha rispetto per il sangue e gli anni gli hanno tolto il senno. Ama quel figlio bastardo perché concepito da una dea, ma, dite, chi di noi non è figlio di Zeus padre onnipotente degli dei e degli uomini? La sua smania lo porta ormai a confondere il sangue, che purissimo io vi ho donato, con la magia di cui egli stesso è il prodotto deforme. Non siate sciocchi, non prestate ascolto a quel che vi racconta, di come rinacque dalle mani degli dei immortali con quell’osso mostruoso lì nella schiena. E pensate piuttosto alla carestia che ancora affligge il nostro regno, dove la terra si rifiuta di generare i suoi frutti perché troppe membra orribilmente strappate dai corpi dei nemici ha lasciato vostro padre ai cani e agli uccelli insepolte. Ricordate chi siete, invece, ascoltate il vostro sangue perfetto, e uccidete Crisippo, figlio della vergogna, se non volete che, presto, vi privi di tutto: della casa e del nome.” Così disse Ippodamia, spingendo i figli a seguirla verso il Talamo di Laio. E quando vi giunsero, videro il candido corpo nudo di Crisippo teneramente accanto al corpo nudo di Laio scoperti da un raggio di luna. Atreo, allora, disse: “Madre, Crisippo è stato allevato nella nostra casa come un fratello. Il sangue, che tu richiami, mi trema nelle vene al solo pensiero che un graffio possa guastare la sua pelle giovane e innocente. Come posso privare della vita un fratello?” Così disse guardando Tieste che abbassava lo sguardo e si torceva le mani. “Hai ragione, figlio, anche tu sei ancora un fanciullo e il cuore ancora non ti è saldo nel petto. Farò io, per voi, quello che è necessario, quello che è giusto. E’ la madre che deve curarsi dei propri puledri che stanno ancora incerti sulle zampe, le quali belle e lunghe non sono ancora robuste per sostenere il vigoroso slancio che la natura gli comanda. Farò io ogni cosa, come quando sola vi ho messi al mondo.”
Disse così Ippodamia, guardò i figli tremanti, scostò l’uscio, entrò leggera, trasse la dura spada di Laio, l’affondò nel petto del fanciullo. Crisippo non aprì neanche gli occhi, mentre il nero sangue fluiva dalle narici e dalle labbra. Borbottò qualcosa Laio, ma quando il possente urlo del re colpì le mura del palazzo, Ippodamia era già in fuga, con ogni energia trascinando con sé quegli incerti puledri.
Questo videro Atreo e Tieste. Questo seppe Pelope, e pregò gli dei di non rivedere mai più Ippodamia. Poi, maledicendo quel sangue pazzo, salì sulla torre e fece a pezzi la suocera, Sterope. Quella carne fu pasto per i cani.
Seppe Ippodamia ogni cosa, e temendo anche per i figli che erano con lei, li condusse a Micene e qui li nascose. Disse Ippodamia, prima di abbandonare Atreo e Tieste: “Figli, dopo avere fatto ogni vostro bene, oggi, io sono il peggiore pericolo per voi. Vostro padre conosce ogni cosa e mi cercherà. Temo che quando mi troverà, se allora voi sarete con me, sarà la vostra rovina, come certamente sarà per me. E’ bene che io vi lasci, e vi lasci per sempre. Solo così potrete sfuggire all’ira del divino Pelope che non si placherà fino a che non mi saprà morta. Salvatevi! Questa terra può essere vostra. La nobiltà del vostro sangue, se lo vorrete, vi consegnerà il potere regale. Versate del sangue marcio se necessario e prendete ciò che vi spetta. Oppure sposate la donna che col suo sangue vi porti sul trono. Ora, altro non chiedete a vostra madre e consentitele la fuga. Altro, questa donna, non ha da darvi.” Piansero i fratelli, ma da uomini ormai, ciascuno già meditando a come commettere l’azione ed a come all’altro impedirla.
Ippodamia si volse a nord, dove il cuore la portava. Ospite passò tra popoli sconosciuti, nel freddo crescente dei suoi giorni solitari e privi di speranza. Fuggiva, meschina, trascinata da un demone che, ad ogni aurora, le mangiava un anno di vita. L’orrida vecchiaia divorava le sue carni e le rendeva il passo ogni istante più incerto. Vagava, la donna, come un sogno diurno. Il sangue le si andava spegnendo, un velo grigio copriva i suoi occhi. Vedeva i confini del mondo, la pianura era gelata, arida, e secca ogni pianta. Grandi massi poggiavano dispersi al suolo fin dove lo sguardo arrivava, immersi in una immota caligine. Solo un albero, un giorno, apparve: enorme, privo di foglie, dai rami nodosi e tormentati, legno senza vita ma duro e fermo nel vento tagliente. Ippodamia sedette su un masso a contemplare quella nuova visione, e qualcosa riprese a mescolarsi nel gelido petto. Era vecchia e stanca, le ginocchia fragili, ma un nuovo demone sembrò possederla avanzando da quella pianta. Ippodamia chinò il capo, in attesa. Ma quando sentì una mano posarsi sui suoi capelli, paterna, non era il demone, ma un vecchio. Il vecchio, in piedi, teneva una mano sulla fronte della donna e i suoi antichi occhi grigi penetravano calmi negli occhi di lei. E, allora, il vecchio disse: “Che fai qui, donna? Perché tanto ti allontanasti? Racconta: come fu che giungesti fino a questo albero che non dà frutti, non fa ombra, e non vive e non muore?” Così disse il vecchio, e Ippodamia rispose: “Padre, in fondo al mio cuore è riposta la ragione, celata, misteriosa anche per me che, per essa, ho mosso tanti passi dolorosi e ne sono invecchiata come io mi vedo, e come tu mi vedi. Ero ancora giovane quando pensai di donare tutto il mio amore ai miei figli, quando iniziai a fuggire la vendetta del padre, quando cercando refrigerio scelsi la via del nord… Ero ancora giovane, ma un dio volle che perdessi la strada, e con essa l’età rapidamente. Sangue non sento più che scorre nel mio corpo, e la ragione, perduta tra tutti questi sassi, non la trovo. Solo un sussulto avverto ora nell’animo, sento che questo albero mi è propizio… Fui Ippodamia – ora non sono che il sogno di me stessa – figlia del divino Enomao, signore della gloriosa Olimpia, che mi amò come si ama una sposa. Tredici, nobili principi, tentarono di avermi, proclamandosi all’altezza di sostituire il padre, ma non ingannarono il destino e, così, scelsero la morte. Vissi nella terra dei cavalli di razza perfetta, e seguii l’insegnamento del sangue che non tradisce quando resta puro. Lasciai il padre – che cadde pel suo ardore - quando trovai l’uomo segnato dagli dei, Pelope rinato alla mensa degli olimpi. Mi diedi al figlio di Tantalo per creare una stirpe di eroi. E generai i migliori tra i mortali, Atreo e Tieste, purissimi nel sangue, divini nella discendenza. Ma temetti il bastardo Crisippo, che la ninfa Axioche generò all’infedele Pelope. E lo uccisi, ancora fanciullo, nell’infame letto di Laio, per le cui turpi voglie Era scatenò su Tebe la Sfinge. Questa fui, una madre che difende il frutto sano del proprio ventre, che sorveglia le distrazioni dello sposo, che teme, come è giusto, gli dei immortali. E quando diedi tutto, questo fu il deserto di vecchiaia in cui mi ritrovai senza conforto… se non quello che, ora per la prima volta, viene a me misterioso dal legno di questo albero antico…” Questo disse Ippodamia e volse lo sguardo dal vecchio all’albero solitario. Il vecchio, allora, disse: “Quanto riescono ad ingannarsi i mortali, e per quanto a lungo senza riuscire a liberarsi. E quanto i loro occhi sono mortificati dalle nebbie, mentre essi credono di vedere ogni cosa con chiarezza. O donna infelice, che non t’accorgi del male che generasti. Male che chiama male. E più hai fatto per la gloria dei tuoi figli, più hai segnato la loro sciagura, e lanciato un’ombra scura di misfatto su tutte le generazioni che verranno. Donna meschina, che volle dare alla carne sangue puro… Ma il sangue dei mortali è tutto uguale, ed è la sede della vita che ci è data ed a noi non appartiene, ed è orrendo delitto versarne anche una goccia. Donna illusa di potere avvicinare il mortale all’immortale… Misura e limite è dell’uomo, e solo questo è il suo campo, e solo in quelle il mortale può trovare la vera nobiltà. Mentre le cose del cielo sono tutte fuori dal limite e dalla misura, e credere di penetrarle porta solo alla follia. Donna portatrice di sciagure, meglio avresti fatto a continuare ad agitare il tuo sangue dentro il sudicio letto di tuo padre, senza portare nel mondo a maturazione altro insano seme che continuerà a generare piante storte e velenose. Donna infelice, guarda pure quest’albero che ora irretisce il tuo cuore e la tua mente, e fa, ora, quello che senti giusto. Chiamalo pure demone se ti piace, ma ascolta il suo richiamo e lasciati guidare.” Così disse il vecchio, ma Ippodamia era già in piedi perché troppo forte sentiva il richiamo di quella pianta antica. E così fece, e le girò intorno finché vide una donna che pendeva da uno di quei rami robusti. Era una vecchia con gli occhi ormai velati di morte. Ippodamia si inginocchiò sotto l’impiccata. Scavò a mani nude quella terra fredda e dura, lentamente, ma con tutte le sue forze. Poi, in quella buca ammucchiò erica secca, arbusti di ginestre, rovi selvatici e a tutto diede fuoco. Le fiamme, a poco a poco, si alzarono dalla buca e presero a divorare la vecchia, che era lì che guardava se stessa bruciare. E Ippodamia bruciava impiccata, e si guardava, impiccata, bruciare. Le fiamme avvolsero il corpo e, alla fine, divorarono anche la corda, ed il corpo cadde nella buca. E bruciò ancora fino a quando non rimase che cenere ed ossa dentro alla cenere. Il vecchio era ormai lontano, diede un ultimo sguardo verso il fumo e pensò: il tempo coprirà di terra la buca e non ne rimarrà più alcun segno. Allora, quando tutto quanto deve ancora avvenire sarà consumato, solo allora Ippodamia avrà pace.

ATREO
La città di Micene non aveva più un re. L’ultimo sovrano era morto senza lasciare figli né fratelli, solo una sorella, molto più giovane, generata da una serva di casa. Erope era il suo nome. Atreo, allora, la prese con sé e ne fece sua moglie. Poi, convocò gli anziani e disse: “Orfani di Micene dalle larghe strade, di fronte a voi è Atreo, figlio del divino Pelope che nacque due volte: la prima da Tantalo, signore d’oriente, figlio di Zeus; la seconda dalle mani degli dei immortali poi che il padre l’ebbe fatto a pezzi pel troppo amore verso gli olimpi. Di fronte a voi è Atreo, sposo di Erope, donna dell’ultimo sangue del sangue che tenne queste terre. Chiamate, ora, Atreo vostro re e Atreo amerà questo popolo e lo guiderà tra gli amici e sopra i nemici!”
Disse così Atreo, e tra gli anziani ci fu chi in questo modo rispose: “Divino Atreo, da nobile hai parlato e questo Consiglio ti ha dato ascolto come meritavi. Questa città, è vero, ha perso il suo amatissimo re. Egli regnò con grande saggezza: non ebbe timore dei nemici, ma non ne cercò; ebbe rispetto degli amici e li accrebbe di numero; non lasciò mai indecisa alcuna controversia tra gli uomini di questa città e ogni giudizio fu gradito ai mortali e caro agli immortali; mai lasciò inascoltata una supplica, né mai lasciò alle porte un forestiero. Il popolo ricorda il suo re e lo piange ancora, ed ha timore di ciò che accadrà. Il re non ha lasciato figli e questo a non pochi appare come un presagio di sciagure. Nobile Atreo, il popolo che soffre per avere perduto ciò che è stato e che non vede come mai potrà essere felice ancora, ha bisogno di un segno del cielo. Nulla può convincere il popolo, ora, che non sia la voce degli dei. Non chiederci dunque di chiamarti nostro re. E non meditare di pretenderlo, fino a che questo segno divino non ci sarà”. Piacquero queste parole al Consiglio degli anziani e tutti approvarono.
Ma Atreo chiese ancora di parlare e disse: “Se il segno cercate, io vi dico: il segno c’è! Chi potrà offrire ecatombi di tori dalle corna lunate ricoperte di oro e capri neri, i migliori mai nati, certo, avrà il favore degli dei. Ma se un mortale può offrire sulle sacre fiamme anche una sola bestia ma che sia la bestia mai vista, l’animale che di per sé è un prodigio, l’agnello d’oro che è nel suo gregge, credete voi che agli dei possa essere meno gradito? C’è qualcuno di voi che abbia mai visto un agnello d’oro? Ebbene questo prodigio è nel mio gregge! E’ o non è un segno questo? Io dico che questo è un segno! E io vi dico che quell’agnello è nato nel mio gregge, così come la schiena di mio padre è d’avorio ed è opera del dio Efesto! La mia stirpe è cara agli dei e ne porta i segni, e questo vi sarà di beneficio! Offrirò, domani, l’agnello d’oro ad Artemide che illuminerà il regno di questa città. E vi dico e profetizzo che chi avrà il vello d’oro di quell’animale sarà re. Da ora, per sempre. Ecco il segno!”
Disse così Atreo e sciolse il consiglio.
Come fu detto fu fatto. Il popolo radunato assisteva al prodigio. Atreo sgozzava l’agnello che versava argenteo sangue e ne prendeva il biondo vello; tagliava le parti scelte dell’animale e le poneva sulla fiamma. Invocava la dea per il benessere di Micene. Davanti al fumo che alto saliva, alla fine, Atreo innalzava il vello d’oro. E il popolo gioiva e riconosceva il suo re.
Atreo regnava su Micene, col sangue come gli aveva insegnato la madre e col segno come gli aveva insegnato suo padre. La moglie Erope gli dava dei figli. Il vello d’oro, nascosto nel fondo di una cassa segreta, gli dava il potere. Tieste viveva a palazzo anche lui e cresceva i propri figli. Tieste guardava quello che il fratello faceva, guardava e taceva, taceva e aspettava. Erope tesseva, tesseva e taceva, taceva e aspettava. Un giorno Erope guardò Tieste e desiderò quell’uomo. Sapeva quello che quell’uomo voleva e, in quel modo, entrambi soddisfecero le loro voglie. Tieste prendeva Erope tutte le volte che poteva, e sapeva che in quel modo il suo sangue, come gli aveva insegnato la madre, avrebbe regnato e l’avrebbe vendicato. Tieste sapeva dove era nascosto il vello d’oro e pensava che l’importante era sapere dove era. Atreo governava il suo popolo e temeva il fratello come un nemico. Erope sapeva che il suo destino era legato a due uomini che erano i padri dei suoi figli. Tieste tramava vendette e temeva il fratello come un nemico.
Atreo vedeva la prole crescere e pensava alla stirpe che avrebbe fatto grande il suo nome. Erope bruciava nel suo amore segreto e generava Agamennone e generava Menelao. Tieste godeva nel petto quella sua lenta e nascosta vendetta: la pianta stava stillando il veleno che l’avrebbe bruciata.
Così gioivano nei loro cuori, finché Zeus, signore della folgore, non addensò nubi oscure nella mente del re. E Atreo scacciò il fratello: via, via da Micene, quella maschera muta che nascondeva sciagure e disgrazie; via, via dal palazzo, quella presenza strisciante, temibile come una serpe; via quel sangue avvelenato carico di pericoli e di inganni; via, espulso dal regno, privato di tutto, della moglie, dei figli e dei beni.
Ma ancora quelle nubi portavano torbidi sogni ad Atreo. E le notti continuavano cupe, cariche di gravi pensieri. Aveva scacciato il fratello, ma questo non era servito ad allontanare le orride visioni, e queste, come malvagi riflessi, lo seguivano dal sogno alla veglia. Ombre malvage camminavano con lui; non c’era luogo in cui queste non fossero già lì ad aspettarlo. Ma in casa quelle occulte presenze erano ancora più fitte, ineffabili ed avvolgenti: erano le ombre sul volto di Erope; erano le ombre che seguivano i suoi figli; erano le ombre che precedevano i figli di Tieste. Le ombre dei sospetti, vermi della mente.
Tieste non andava lasciato fare. Certamente aveva un suo disegno, e lo aveva da tempo. Quale temibile trama aveva già ordito? Quale suo malvagio intento era già in svolgimento? Non era stato saggio tenerlo a Palazzo. Non era stato saggio trattarlo come un fratello leale e sincero, ed allevare i suoi figli nella reggia come fossero figli di re. Quale macchinazione nascondeva in quel serrato silenzio? Quale segreto coltivava nell’ingrato petto? Lo perseguitava, ora, quella piega fissa del labbro sul volto del fratello, come una fredda lama lucente pronta a scattare. Tutto era chiaro, ormai! Era nel gorgo, e i flutti dell’inganno vorticavano intorno per la sua rovina. Era stato avventato nello scacciare Tieste senza assicurarsi prima delle sue intenzioni, senza assicurarsi che avesse il giusto timore del fratello re. Atreo si addestrava senza posa: “Penetra il cuore dei tuoi nemici, e succhiane il sangue! Mostra di concedere loro la libertà, ma per tenerli più stretti in occulte catene! Il vello d’oro è ancora nelle mie mani. Il gorgo, se un dio non trama malvagio, ancora non è chiuso sopra la mia testa. Agire! Agire! Ora, la necessità comanda l’azione. Richiamare Tieste, presto! Ordinare di trovarlo, scovarlo, condurlo qui! Trascinare l’infame… ma con riguardo, s’intende! Silenzia il cuore, Atreo, che neanche la tua ombra senta il tuo pensiero… Il re, Atreo, desidera riconciliarsi con il fratello, questo dovrà essere il messaggio pubblico; il resto, chiuso nel mio cuore, chiuso nel mio pugno.
E un giorno l’aurora aprì il mattino che vide Tieste tornare a Micene. Il sole illuminava i preparativi a palazzo del grande banchetto in suo onore. Ognuno aveva ricevuto l’ordine di trattare Tieste alla stregua del re. E ciò che fu ordinato fu prontamente eseguito, mentre Tieste, scortato con riguardo, veniva accompagnato alla grande sala dei fasti. Qui erano state accese tutte le fiaccole, perché il sole sembrasse ancora più vivo e presente in ogni angolo della casa. I fuochi accesi sotto i tripodi ardevano vibranti. Le tavole ben levigate, già imbandite di pani, aspettavano solo le profumate carni sceltissime, e queste, per non lasciarle freddare, sarebbero state servite solo quando l’ospite avesse trovato il suo comodo. Luccicavano le coppe assetate di dolce vino, e le ricolme anfore erano pronte per la mescita nelle mani dei servi devoti. Atreo accolse Tieste sorridendo con le braccia aperte ed in silenzio gli assegnò il posto di sempre, accanto a sé. Attese che detergesse le mani e, a lui rivolto, cominciò a parlare: “Il sangue si è guastato tra di noi. Questo è avvenuto, ma non ero io, sappi, quello che ti scacciò. Ate confondeva la mia mente e combinava ingannevolmente i miei pensieri. Sogni tormentosi turbavano il mio cuore e visioni amare sconvolgevano il mio animo: tu nel letto di mia moglie; tu padre dei miei figli; tu traditore del sangue. Eri tu, fratello mio, e quei fantasmi erano come realtà. Come vero mi sembrava il tradimento dentro la mia casa, dentro il mio letto! Non c’era più veglia, e tutto appariva in ombre vive davanti a me, tutto accadeva proprio sotto i miei occhi. Tu sai che tutto questo può farlo Ate, la dea che seppe confondere anche l’accorta mente di Zeus onnipotente, e che, da allora, leggera volteggia sulle teste dei mortali ed agli infelici uomini porta discordia. Non ero io quello, ti dico. Questo sono io: questo che hai, ora, davanti a te. E per questo ti ho cercato, perché il sangue non si è mutato in acqua, perché ciò che è stato non sia mai più dimenticato, perché ciò che lega me a te e te a me non sia più perduto. Medita, Tieste, e non dimenticare mai, da oggi, chi è tuo fratello Atreo. Certo, tu hai visto solo che egli ti ha scacciato, ti ha privato della tua famiglia, ti ha tolto i tuoi beni, ti ha costretto a vagare sulla terra infinita come l’ultimo degli infelici mortali. Ma tuo fratello Atreo, oggi, ti ha richiamato e ha imbandito per te il più sontuoso dei banchetti. Perché da oggi si dissolva ogni ombra e la verità riappaia quale è, priva di veli mendaci, torbidi inganni e vergognose falsità. Questo è ciò che meriti, e tuo fratello non te lo farà mancare mai. Mai più ti priverà di tutto quanto tu, giustamente, meriti. Tutto avrai quello che a te è dovuto. Ogni moneta che è tua ti sarà resa. E se pure fossi tu a volere andare via, tuo fratello Atreo ti cercherà fino ai confini della terra infinita, solo per riservare a te, ancora una volta, e ancora per sempre, una tavola come questa, ricca del cibo più ricercato. Perché, fratello, medita e non dimenticare mai: io sono stato uno stolto fino ad oggi, ma da ora e fino all’ultimo tuo respiro, da me avrai sempre più di quello che meriti.
E, ora, come si conviene, suggelliamo questo nuovo patto di lealtà tra di noi, cibando il corpo con queste carni sceltissime, le migliori delle nostre greggi, le più giovani. E libiamo, come è giusto, agli dei: che ascoltino le parole del nostro patto e ne siano testimoni e custodi altissimi. Io ti dico, fratello, davanti alla Terra che tutto genera, davanti al Sole che tutto vede e ascolta, al cospetto degli altissimi dei: “Sempre ti renderò tutto quello che è tuo, e che ti appartiene per quello che sei! Nulla di meno ti riconoscerò! E Ade tremendo e la crudele Persefone mi sprofondino nel Tartaro se le mie parole non sono specchio sincero della mia mente!” E se pure il tuo animo è limpido, come io credo, tu giurerai lo stesso verso di me!”
Tieste aveva la solita maschera immobile. Disse soltanto: “Fratello, accetto le tue parole, sento che sono sincere, e l’animo mio gioisce. Gli dei sanno turbare le fragili menti dei mortali, e chi non sa questa verità è uno stolto. Ma ancora più stolto è colui che lascia se stesso in preda ai demoni per lungo tempo. Nobile, invece è colui che anche nella furia della tempesta del proprio cuore, sa condursi sempre con misura, ricordando gli antichi detti e, tra essi, quello più alto per i mortali: “Patendo conoscere”. Le tue parole, oggi, sono balsamo profumato che cura il dolore che come una lancia trapassava il mio petto da quando fu contesa tra di noi. Ma, ora, dimmi, fratello, perché siamo noi due soli in questa grande sala così ben imbandita che potrebbe accogliere e ben sfamare tutta intera la città? Dove sono i miei cari figli? Perché non accolsero amorevolmente il loro padre? Vergogna ancora patiscono per l’esilio, un tempo, inflitto con infamia al loro genitore?”
Disse così, Tieste, e non un ciglio si mosse sul suo volto. E così rispose Atreo: “Troppo grave fu la guerra che iniziò tra sangue e sangue. Angosce e timori generò nel cuore dei parenti, e così dei cittadini. Una nube tossica calò su Micene e su questa casa: tutti allora temevano i parenti e gli amici più cari; la fiducia tra gli uomini svanì nel vento, come fumo. Ah, imparai, quanto ogni decisione di chi detiene il comando guida e governa gli animi di quelli che seguono e obbediscono, anche se nessun ordine, a quel proposito, mai sia stato impartito. Per questo, Tieste, ho meditato più saggio che la nostra ferita fosse cucita qui, ora, solo tra noi due. Quando l’avremo curata e l’avremo guarita, e il sangue in noi sarà tornato fermo, allora chiameremo tutti gli altri: i parenti ed il popolo amico. I tuoi figli saranno convocati per primi, non temere, e, mi guardino gli dei se non dico il vero, io ti prometto che mai più ti saranno negati, e vivranno con te sempre come carne nella carne. Ora, perché tutto sia compiuto, onora la tavola di tuo fratello, onorala con lui. E nutri degnamente il tuo corpo col cibo che Atreo ti offre, bagna le tue labbra nel vino che Atreo ha serbato per te, e, infine, libiamo insieme agli dei perché allontanino da noi ogni inimicizia. Questo è Atreo, ricorda Tieste, questo è tuo fratello Atreo”.
I servi porgevano le carni e mescevano il vino. Le ancelle disponevano candidi lini sulle tavole ad ogni nuova portata fumante. Atreo invitava Tieste a bere e a mangiare in onore del patto. Tieste mangiava e beveva, meditando i suoi antichi pensieri. Lavorava la sua mente sotto la maschera immota. E beveva e mangiava agli inviti di Atreo. Poi, libavano insieme accompagnando ogni pezzo di carne. Tieste guardava il fratello che ordinava ancora altro cibo, guardava, taceva e mangiava. Taceva e beveva. Invitato, libava agli dei. Ogni gesto di Atreo, ogni suo invito, ogni suo ordine alla gente di casa, Tieste seguiva e faceva, ma il suo cuore correva lontano. La maschera immota.
Atreo disse, ordinando a due servi di avvicinare una cesta dorata: “Come gli dei hanno voluto, ogni cosa è compiuta. Come promesso, ciò che ti è dovuto ti è dato. Guarda, ora, caro Tieste, nella cesta, se riconosci, dalla testa, gli agnelli che oggi mangiasti perché te li offrì Atreo. Guarda le teste mozzate dei tuoi figli di cui stai digerendo le dolci carni. Giudica da te stesso ciò che meriti, e medita chi è tuo fratello e come sa ricambiarti. E che il sapore di questo banchetto non abbandoni mai la tua bocca…”
Disse così Atreo. Tieste rivoltava gli occhi all’indietro, e acidi conati scuotevano le sue membra. Il tremore era in tutto il suo corpo. Sul suo volto salivano le ombre dei morti. Le furiose Erinni erano nella sala. I servi e le ancelle fuggivano inorriditi. Le furie urlavano feroci. Ruggivano rannicchiate negli angoli. I fuochi sotto i tripodi si gonfiavano come falò, le torce avvolgevano le loro lingue ed avvampavano il soffitto. Il vino ribolliva nelle anfore di bronzo. Atreo ripeteva immobile le sue ultime parole, ancora e ancora: “Ciò che meriti… Il sapore di questo banchetto… Questo oggi ti rende tuo fratello… Questo sempre otterrai…”
Tieste, riverso in terra, vomitava rossi grumi di materia e diceva: “Ah, putrido ventre velenoso di mia madre! Cosa partoristi… sudicio ventre di cagna assassina! Questo sangue infetto di rovina desti ai figli tuoi! In che modo mai si laverà questo sangue… femmina depravata… Oh furie, circondate questa casa, appestate ogni stanza col vostro fetido fiato. Io fuggo tutto questo orrore, ma non per viltà, non speri in questo il malvagio Atreo. Fuggo sopraffatto dall’oscenità che si nutre nel petto di questa belva, e che viene dalla madre assassina: assassina del padre, assassina del servo, assassina di un nostro fratello”.
Atreo, allora, disse: “Giusto così! Ogni cosa si compia! Via da me, e con te trascina via quella cagna con cui ti piacque rivoltarti nelle lenzuola del re. Prendila, perché la cagna traditrice meriti. Come ti ho detto, e come ormai è sacro patto tra noi: tutto e sempre da me avrai ciò che meriti!”

TIESTE
“Sangue nero di mia madre, sangue di sciagure, io ti ho maledetto per il veleno che porti dentro. Ma ora ti invoco, perché solo riconoscendoti, solo ascoltando il tuo amaro scorrere anche nelle mie vene, sento che potrò ottenere la giusta vendetta che sia di conforto alle pene del cuore. Sangue corrosivo che scava la stirpe, incendia la mia mente e rendi i miei piani tempesta devastante per l’odiato fratello e per la sua carne. Che il dolore non sia un fatto che colpisca e poi il tempo divori, ma resti come un’eco perpetua che si rinnovi di generazione in generazione. Che rinasca di continuo nei sogni, guastando la chiara luce dei giorni, marcendo le menti di quelli che verranno al mondo nella tua casa, degenerato fratello, seminando delitti e misfatti così orrendi e così contrari alla natura che ne resti imperitura memoria tra i mortali.
Sangue indemoniato di mia madre, rendi anche a me quella stessa follia che seppe muovere Atreo nei pensieri più detestabili e che lo condusse a sfidare le furiose Erinni con maggiore furia di quelle. Ma le cagne luttuose della notte non finiranno di latrare, fratello, e sarò io a renderle ancora più rabbiose e a dirigerle verso te e verso tutta la tua progenie, a nutrirsi insaziabilmente del delirio che rifiorirà incessantemente nell’animo delle generazioni future.
E per tutto questo un dio mi darà la forza. Oh insuperabile divinità obliqua, oh radioso Apollo, sono certo fosti tu nel mio ultimo sogno il suggeritore di immagini che ancora non mi parlano chiaramente, ma che sono impresse nella mia mente come fulgido bronzo colato nel suo calco. Rendimi, oh dio, chiaro il messaggio di quel sogno, che si ripete da tempo, in cui vedo quella giovane donna velata da una nube che si muove leggera su un prato, vicino ad una fonte d’acqua cristallina, alle soglie di un bosco sacro. Quella giovane ripete riti perfetti in onore di Atena. La giovane è bella come una dea, inaccessibile, ed ogni suo gesto possiede il ritmo infallibile del tempo. Così, mentre si muove, il giardino muta colori e le stagioni si alternano seguendo la danza di lei. La giovane ha un volto sereno, ma immutabile, mentre tutto avviene intorno a lei. Dal bosco, ad un tratto, arriva un lupo. Prima le gira attorno piano, a distanza. Poi si avvicina, comincia a strisciarsi tra le sue gambe. La giovane lo lascia fare e sembra non curarsene, fino a che non comincia ad accarezzarlo. La giovane non è più lei, è una cagna bianca che si accoppia con il lupo. Ed io provo piacere, e sono io che sto penetrando quella candida cagna. E la cagna non è più lei, ed è Pelopia, mia figlia, quella figlia che mi fu sottratta dalla madre traditrice che mi abbandonò. E’ Pelopia che sto amando, cara figlia che non ho mai cercato, è lei che mi prende di un amore ardente che esplode e fluisce rovente dal mio ventre dentro il ventre di lei che si inarca nell’amplesso. E, in quell’istante, i suoi occhi cominciano a sanguinare, il suo volto si infiamma, e torna il volto di una cagna, ma una cagna mostruosa che guaisce orribilmente, mentre il boschetto diventa una selva in fiamme e la fonte, prima di fresca e limpida acqua, si muta in una vena di sangue nero e denso che scorre creando una palude nebbiosa.”
Questo pensava Tieste, vagando di terra in terra, ogni giorno che l’aurora apriva le tende di un nuovo mattino. Dopo il macabro pasto, il dolore aveva fatto scempio della sua mente e lo aveva reso folle. Le visioni del crudele banchetto riempivano tutta la sua realtà, e l’uomo aveva preso a vivere come una bestia nei boschi e nei campi, di notte rintanato in caverne, di giorno sempre in marcia, in fuga da se stesso, in fuga da quelle orribili immagini, mortificando il corpo coi digiuni, e cibandosi solo di radici ed erbe selvatiche. Ma il tempo, nascosto, curava pian piano l’orrenda ferita, finché non gli fu chiaro che l’unica ragione per non sprofondarsi nell’umida terra dandosi la morte, stava nella vendetta che il sangue reclamava. Ma non c’era in terra vendetta che paresse adeguata, non c’era misfatto concepibile da un mortale che potesse stare a fronte del misfatto subito, non c’era orrore umano che stesse alla pari dell’orrore generato da Atreo. Capì, allora, che solo Apollo avrebbe potuto soccorrerlo e consigliarlo. E Tieste lo invocava in ogni suo pensiero. E venne quel sogno, ma l’Obliquo circonda i suoi messaggi di nebbie, e Tieste non sapeva coglierne il senso. Il suo macabro destino lo aveva già condotto a mangiare le carni dei suoi figli; ora quel sogno diceva che avrebbe stuprato la figlia mai conosciuta e che sapeva sacerdotessa di Atena. Orrore su orrore. Ma l’Obliquo gli venne in sogno alla fine per dirgli senza veli: se vuoi vendetta, che sia il riordino di tutto quanto è stato rovesciato nel disordine, hai una sola via da percorrere. Fa’ quel che nel sogno ti è parso chiaro: stupra tua figlia, perché solo dalla tua carne non mischiata con altre carni potrà nascere il vendicatore.

Pelopia era nata nel tempio di Atena a Sicione. Sua madre, la moglie di Tieste, ne aveva già viste accadere troppe alla corte di Micene, quando rimase incinta di lei: il marito la trattava da anni come una serva, e aveva attenzioni solo per la cognata Erope, e tutto sotto gli occhi di Atreo che sembrava non badarci. Troppo era ormai, e quella sua nuova figlia non avrebbe vissuto un solo giorno in quel palazzo che le pareva posseduto dai demoni dello sfacelo e della disgrazia. Poco prima di partorire, abbandonò Micene e cercò rifugio nella città di Sicione. Era scappata con la furia nell’animo e non sapeva cosa avrebbe fatto. Fu quasi per caso, che rivolgendo continuamente il suo cuore alla vergine figlia di Zeus, alla dea più potente di tanti dei, che meditò di chiedere aiuto alle sacerdotesse di Atena. Ed ecco che partorì nel tempio della dea dagli occhi luminosi, accudita da donne che disprezzano gli uomini. Una fu la condizione: il nascituro avrebbe servito il tempio. E non destò meraviglia a nessuna delle vergini quando la nuova vita venne alla luce e si vide che era una femmina. Il voto era stato ascoltato dalla divina Atena, e questa l’aveva esaudito, esigendo per sé una nuova sacerdotessa. E tale divenne Pelopia, allevata nel tempio. Di sé seppe solo di essere nata per volontà della dea, di essere al mondo per indossare le sacre bende della consacrazione. E così fu di lei, che quello credeva di volere. Gelosa custode della propria purezza, dedicata allo sguardo dell’Olimpo, lontana dalle cure dei mortali, al riparo dalla disgustosa vista degli uomini, leggera come limpida aria.
Quella era una delle notti del sacrificio. Pelopia con le altre sacerdotesse era nel bosco sacro. Due capri, uno bianco ed uno nero, venivano condotti alla sacra pietra dello scanno. Pelopia doveva sgozzare le bestie ed affondare le sue mani nel caldo scuro sangue per sentirne ancora la vita, per trasmetterla alla dea. Mentre attorno a lei le altre sacerdotesse avrebbero intonato i segreti inni, reggendo le fiaccole della purificazione. Pelopia affondava la lama ed il calore cominciava a trasmettersi ed espandersi nelle sue mani. La vita fuggiva dalla carne del capro, ma si posava liquida ancora per qualche momento sulla pelle della sacerdotessa, mentre l’occhio della bestia si riempiva di tenebra. Pelopia sentiva l’odore del sangue, sentiva il calore del sangue, se ne cospargeva lentamente il viso, poi tornava ad immergere le mani nella gola del capro per portarle ai seni, e così alle cosce, e infine sul ventre.
Tieste osservava, non visto, quel rito sacro e segreto. Vedeva la figlia mai conosciuta essere donna e bella. La vedeva ungersi di nero sangue. La vedeva rimanere nuda tra le sue sorelle nella danza di tutte. Vedeva le fiaccole ondeggiare nelle ombre. Udiva gli inni sussurrati ripetersi nei ritmi crescenti per poi spegnersi piano nel silenzio della notte e del bosco. Fino a che le fiaccole smisero di ondeggiare e le sacerdotesse lentamente cominciarono a scomparire verso il tempio. Pelopia era rimasta al centro di quella piccola radura, distesa in terra, mentre le compagne, una alla volta, girando lentamente intorno a lei, abbandonavano il luogo. Pelopia rimase sola. Si rialzò, lentamente, ma non seguì le altre. Si avvicinò, invece, ad una fonte, dove prese a detergere il corpo accuratamente.
Presso quella fonte Pelopia fu presa, presso quella fonte sacra Pelopia lasciò la propria purezza. Quella notte Pelopia, mentre disperava per sé – non avrebbe mai più potuto servire la dea - diventava lo strumento del dio del riordino. In quel bosco consacrato Pelopia nasceva ancora una volta tra i mortali, femmina, questa volta, per generare altri mortali nel cerchio della vita, ormai inesorabilmente separata dal suo primo destino. In quelle tenebre, il ritmo della perfezione si mutava nei movimenti scomposti di questo sconosciuto che profanava il suo corpo leggiadro, gravandolo per sempre di seme effimero. La danza celeste mutava in marcia profana.
Nello spasimo di quella violenza, Pelopia rivolse il pensiero per un’ultima volta alla dea dagli occhi lucenti, e le parve di sentire per l’ultima volta la sua voce: “Apriti, figlia, al mondo incerto ed imperfetto della terra, cedi al destino troppo più alto d’ogni disegno mortale, accogli il mistero della tua vita fugace, rivolgi il tuo sguardo, ora, alle cose meschine e vivi finalmente”. Nello spasimo di quella violenza, Pelopia perse pian piano ogni forza, e una nebbia oscura riempì i suoi occhi. Quando si risvegliò, era ancora notte. Il freddo delle tenebre era nella sua carne. Era sola e lo sconosciuto che l’aveva violata non c’era più. Di lui restava la sua spada di bronzo che, scappando, non si era accorto di perdere. Pelopia si lasciò cadere nel ruscello affinché quelle limpide acque le lavassero via il tempo di quelle ore. Ma gli dei non vollero questo, ed ella lasciò il tempio di Atena e si rimise nelle mani del re di Sicione, Tesproto, che l’accolse come una figlia.
Tieste era fuggito. Tieste non poteva che fuggire. Atreo lo cercava ancora una volta. Una crudele carestia colpiva Micene, e l’oracolo aveva sentenziato: “Atreo, le tue carni sono sparse inquiete per il mondo e la natura ripete questa privazione negando frutti. La terra non raccoglierà più semi finché la tua stessa carne, tuo fratello, non sarà ricondotto in città”. Così, il fratello non poteva lasciare il fratello. Così, Atreo non poteva che inseguire la sua preda, condannato egli stesso a condannare. Alcuni uomini lo informarono che Tieste era stato visto nella città di Sicione, e Atreo si presentò a Tesproto perché lo aiutasse a ritrovare il fratello scomparso. Ma qui Atreo non trovò ciò che da sempre aveva saputo togliergli il sonno. Trovò, però, un turbamento più forte. Tra le figlie di Tesproto, vide Pelopia e il cuore sussultò. Dimenticò Tieste, e volle quella fanciulla che gli scuoteva il sangue. La chiese in moglie a Tesproto come fosse sua figlia. Il re di Sicione che aveva appena accolto Pelopia come un cucciolo impaurito, perso nella nera notte d’inverno, acconsentì felice al desiderio del re fedele alleato. A quel cucciolo, in quel modo, donava un trono di regina.
Atreo tornò a Micene senza la sua preda, ma aveva trovato una moglie. Dopo quella cagna di Erope, questa fanciulla gli avrebbe regalato quanto non aveva mai avuto per colpa di Tieste. Avrebbe avuto una moglie devota, una moglie che avrebbe partorito figli suoi, di Atreo, senza il sospetto che nelle sue lenzuola si fosse infilato l’odiato fratello. Almeno la sua casa, in quel modo, avrebbe visto nascere qualcosa fuori dagli equivoci e dai sospetti. Ci sarebbe stato almeno un Atride puro, neanche sfiorato da ombre d’infamia. A cercare Tieste, invece, avrebbe inviato Agamennone e Menelao. “Che comincino a curare la casa e il regno anche loro!”, pensava Atreo, mentre il cuore gli si gonfiava d’orgoglio per il nascituro. E così ordinò e così fu fatto: Agamennone e Menelao partirono alla ricerca dello zio da ricondurre a Micene, la città che si consumava nella fame. Ma i figli di Atreo ebbero veloce fortuna e in poco tempo Tieste fu incatenato e serrato in una stanza sicura del palazzo. “Non sia torto un capello a quell’uomo! – ordinò Atreo – Sia tenuto in modo che non muoia… e che non viva. Non c’è cosa più semplice che tenere in vita un mortale: un po’ d’acqua e un po’ di pane. Più difficile è escogitare il modo di farlo morire ogni giorno di nuovo. L’animo è incline all’abitudine e anche la tortura peggiore dopo qualche tempo diviene un male conosciuto, quasi un compagno nella desolazione del cuore. E non è più tortura, ma una delle tante sofferenze accettabili. Il mortale si accomoda ad ogni condizione, se questa gli viene imposta. Così lo fecero gli dei, in modo che potesse tollerare la propria finitezza. Ma io, se sarà necessario, lo troverò il modo per rinnovare continuamente la morte nel cuore di Tieste, fino a quando sentirò di doverlo tenere in vita per farlo continuamente morire”.
Ma quando Pelopia partorì, Atreo sentì che tutto era ormai tornato al suo posto, come il sole che torna dopo l’inverno per fare rinascere la terra infinita. Pelopia gli aveva generato un maschio, e quel maschio diceva che, ora, Tieste poteva anche morire. Quella nascita perfetta ordinava la morte di Tieste. Non aveva più senso perpetrare la vendetta. Egisto, così fu chiamato il nuovo nato, era la definitiva vendetta. Era la carne e il sangue di Atreo, di lui solo, che si riappropriava del mondo senza l’ombra di Tieste.
Ma quando Pelopia partorì, quel figlio le ricordò la notte sciagurata in cui la dea l’abbandonò mentre la sua virtù veniva calpestata e derisa. Egisto era figlio delle tenebre, dell’inganno e della violenza, e solo lei lo sapeva. Non voleva quell’essere vicino a sé. Il suo parto, frutto di misfatto, non poteva avere generato che un artefice di misfatti. Sentiva che il suo ventre aveva dato forma a un demone. E decise che quel demone non doveva sopravvivere. Lo portò sui monti, lontano dalla città, e lo depose sotto un albero dove lo avrebbero finito i lupi e gli uccelli.

EGISTO (parte I)
Quel bambino era nato per lasciare il suo segno e il suo respiro non poteva cessare quel giorno. Lo trovarono i pastori della montagna ed ebbero pietà di quella vita indifesa. Presto Atreo seppe ogni cosa ed ai pastori disse: “Questo bambino è figlio mio, il più caro dei miei figli. Come cara mi è la madre, anche se fu lei a lasciarlo nei boschi dove voi lo raccoglieste pietosi per volontà di un dio certamente. La madre è una fanciulla saggia come nessun’altra, ma il parto, come un demone, le ha turbato la mente. Meglio se, per il momento, le cose restano come lei le ha volute. Prendete voi cura di questo bambino. Io ve lo affido, perché sento che questa è la volontà degli dei. Lo alleverete come se fosse vostro. L’evento reca chiaro il senso: Zeus vuole che provi la vita tra rovi e dirupi, perché possa diventare signore di uomini, dopo avere conosciuto le angustie degli ultimi tra i mortali. Che sia figlio di re, certo, non lo dimenticherete, ed io avrò sempre un occhio su di voi. Quando avrà sette anni, lo riprenderò con me e di lui sarà quello che il cielo vorrà: io credo grandi cose.” Disse così Atreo a quei pastori che già avevano accolto quel bambino come una rivelazione divina. Quell’evento parve ad Atreo un nuovo segno che volgeva al termine la partita con Tieste. Ora che aveva generato carne della sua carne, ogni nodo andava sciolto con l’odiato fratello. Quel fratello che era sempre stato il nemico più insidioso: nella sua città, nella sua casa, nel suo letto. Ogni vincolo andava reciso di netto. Non era più il tempo della vendetta, lunga terribile inesorabile, che teneva in catene Tieste. Stava maturando il tempo dei fatti definitivi, che si consumano netti, a determinare una fine senza ripensamenti ed un inizio capace di dispiegarsi senza ostacoli. E il tempo andava maturando con l’età di Egisto, perché era Egisto che poneva la fine per l’inizio. Attese Atreo, attese, come aveva detto, i sette anni del figlio per rivelarsi a lui e riprenderlo in casa. Pianse il bambino quando seppe che doveva lasciare gli amati genitori delle montagne, i verdi prati della sua infanzia, i boschi dei suoi giochi, le mansuete bestie del gregge. Ma poi che seppe qual era la sua stirpe e quale vita l’attendeva nel palazzo del re suo padre, il cuore di bambino cedette ai sogni e felice seguì il suo nuovo vero genitore.
Atreo aveva avuto tempo per meditare il suo disegno. Ora, però, era il suo giovane figlio che doveva realizzarlo. A chi se non a lui spettava il nuovo inizio? “Prendi questa spada, Egisto, figlio mio – disse Atreo -, questa spada che non è di tuo padre, ma che tua madre che ti ha generato ha sempre tenuta con sé gelosamente, e nessuno sa di dove venga perché a nessuno mai ha voluto rivelarlo. Deve essere spada di un dio e questo gioverà nell’impresa. Con questa spada darai la fine e l’inizio. Sei ancora molto giovane, ma pian piano capirai il significato di tutto questo. Ora deve bastarti la guida di tuo padre. Farai quello che ti chiedo, tu che non puoi non seguire la linea della stirpe. Farai quello che ti indicherò, perché è la tua carne che con questo gesto salverai. È la carne degli Atridi che ti forma, è il sangue degli Atridi che ti muove. Il tuo domani si fa oggi. Se oggi non fallirai, di te sarà grande il nome perché farai grande il nome del ramo robusto e florido che discende dal divino Pelope, e, su ancora, da Tantalo feroce, troppo amato da Zeus. C’è un altro ramo, però, che a questo da sempre muove guerra, che vuole fargli ombra costante perché rinsecchisca, mentre ne succhia avido il liquido vitale. Questo è il ramo che va reciso. Ma non temere, come ti ho già detto, ti sarà tutto chiaro a suo tempo. Ora devi affidarti a colui che ti ha generato – solo di lui devi avere fiducia, da ogni altro guardati con sospetto – ed eseguire ciò che ti ordina. Sappi, ora, che c’è una stanza in questo palazzo, nascosta nelle sue viscere. È una stanza scavata sotto le sue fondamenta, direttamente nella dura roccia. In questa stanza è rinchiuso un uomo che è il veleno del tuo sangue. Non deve sopravvivere un giorno di più. Per la tua salvezza, tu, figlio mio, dovrai uccidere quest’uomo, e lo farai con questa spada misteriosa di tua madre, la donna che ti ha messo al mondo e che ha, finalmente, invertito l’ordine delle angustie che opprimevano il cuore di tuo padre. Prendi, figlio questo bronzo affilato e fa’ quanto ti ho detto. Un servo ti accompagnerà alla stanza della prigionia, dove quell’uomo giace stremato dal lento trattamento che gli ho dedicato in questi lunghi sette anni, mentre aspettavo di riaverti con me. È buio in quella grotta e ti sarà facile sorprenderlo ed affondare la lama nel suo esile corpo. Non risparmiare la tua forza, allora, medita solo che più sarà implacabile il tuo gesto, più negli anni sarai grato, nel ricordo, a questo momento e a quanta ferocia avrai posto nell’eliminarlo.”
Egisto era ormai un ragazzo alto e forte, plasmato dalla dura esistenza della montagna. Strinse con orgoglio la spada in pugno - una vera spada lucente e pesante, come nei suoi giochi l’aveva immaginata e desiderata – e si sentì un uomo. Poi, seguendo il servo che gli faceva da guida e ripensando alle parole del padre, si vide nobile come un re, si immaginò implacabile come un dio. Ma quando giunse davanti a quell’uomo che sembrava solo un sacco lercio in terra, volle appoggiare lentamente la punta della spada a saggiare la consistenza del fagotto, prima di infliggere il colpo. Il sacco, allora, si rivelò uomo e uomo veloce: schivò la traiettoria e s’impadronì dell’arma con una mossa fulminea. Egisto si fece di pietra. Ma Tieste parlò immediatamente: “Chi sei tu che vieni con questa spada a punzecchiarmi? Quale altro crudele sistema ha escogitato Atreo per torturarmi? Parla, non ti ho mai visto, sei molto giovane. Cosa fai con una spada vera nelle tue mani che dovrebbero ancora stringere solo simboli di guerra per giochi infantili e non bronzi letali come questo? Ma, cosa vedo tra le mie mani?! Questa spada… dove l’hai presa? Chi ti diede quest’arma? Dove la trovasti, parla!” Così diceva Tieste, ma Egisto non sentiva più le forze e la paura gli aveva asciugato la bocca. Guardava nella penombra quell’uomo che era solo due occhi piantati su di lui, due occhi di belva feroce. “Sei ad un passo da me, ragazzo, ti ucciderò facilmente se non rispondi. Della mia vita non ho più alcun interesse, figurati delle altre, e ti trapasserò con questa spada senza il minimo indugio se non mi dirai dove l’hai presa. Questa spada che torna in questo modo nelle mie mani, e che mi appare qui adesso come tutta la mia vita.” Dissero così quegli occhi feroci, e a lui Egisto rispose: “È di mia madre la spada, è di mia madre. Non me la diede lei. Fui io a prenderla di nascosto.” Gli occhi feroci cambiarono aspetto, la voce mutò e, non più rabbiosa, divenne calma, ma la richiesta fu perentoria: “Portami qui tua madre. Dille che l’aspetta l’uomo della spada.” Ed Egisto non potè fare a meno di eseguire. Si sentiva il cuore stretto nel petto. Si sentiva di nuovo bambino davanti agli uomini nel mondo. Aveva fallito, tradendo la fiducia del padre. Ma ora quell’uomo reclamava la presenza della madre. Avrebbe eseguito.

PELOPIA
Pelopia impallidì. Suo figlio parlava di un uomo rinchiuso in una stanza segreta nel palazzo. Questa poteva sembrare una fantasia di fanciulli. Eppure le parlava di cose che non poteva avere inventato: i segni del vero impedivano qualsiasi titubanza. Pelopia seguì il figlio per scale che non aveva mai visto nel palazzo e si trovò di fronte a quegli occhi nel buio. L’uomo, seduto in terra, teneva la spada distesa sulle ginocchia tra le mani. Disse: “Signora, forse voi non sapete chi sono e perché sono qui, ridotto in questo stato. Forse voi non sapevate neanche della mia esistenza, né dell’esistenza di questo buco segreto ai più. Ma tutto questo non ha alcuna importanza e non voglio con altri argomenti occupare il vostro tempo, se non con quello che mi sta più a cuore, ora, della mia vita stessa. Vostro figlio aveva con sé questa spada e mi disse che era vostra. La mia supplica è questa, non di uscire di qui, non di potere rivedere la luce, né di riacquistare il rango che era mio, ma solo sapere come e da chi acquistaste questo bronzo ben lavorato. Se avete pietà del cuore di un padre, questa mia domanda abbia per voi questo valore. La vostra risposta, dando notizie di una figlia mai conosciuta e infelice per volontà degli dei, potrà per un po’ raddolcire l’amaro che corrode l’animo ormai vecchio e stanco di un padre.” E Pelopia rispose: “Orrenda richiesta è la vostra, sconosciuto prigioniero di mio marito. E’ vero, non sapevo di questa lugubre dimora, e avrei preferito non conoscere i nemici di mio marito, all’apparenza così cari nemici, per essere tenuti sotto la terra che si calpesta tutti i giorni nella propria casa. Ma già che la conoscenza è fatta, ditemi piuttosto cosa entrate voi a fare nella faccenda di questa spada che per me è solo motivo di orribili ricordi. Questa spada tranciò di netto la donna che ero, e trafisse il mio petto lasciando una ferita che non rimargina.” Così disse, piangendo, Pelopia, e si coprì il viso con le mani. E Tieste: “Signora, io sarei altro uomo da quello che vedete malridotto e miserabile di fronte a voi. La mia ascendenza è regale e divina. Se intendo bene, voi siete la signora in questo palazzo, e se è così, noi saremmo parenti. Tieste è il mio nome e sono l’odiato fratello del detestabile Atreo che, forse, è ora vostro marito.” E Pelopia: “Sono la sua sposa da sette anni, ma né lui né nessun altro mi ha mai parlato di un suo fratello. Questo mi spiega la particolare collocazione di questa prigione, anche se nulla posso intuire della vostra reciproca inimicizia. Scopro oggi, e mi si stringe il cuore, questo veleno che contamina questa casa. Ma torno a domandarvi, cosa avete a che fare voi con questo maledetto bronzo?” E Tieste: “Era la mia spada, signora, e da quando non fu più nelle mie mani la mia sorte fu ancora più sciagurata. Non posso esserne certo, ma fu così. Quando la persi, subii la caccia spietata del detestato fratello, fuggendo di regione in regione, finché non fui rintracciato dai suoi due figli, Agamennone e Menelao, e fui ridotto in questa grotta. Ma voi, piuttosto, com’è che l’avete con voi. Chi ve la diede? Non ho più niente, lo vedete, e sapere chi la trovò e se ne ebbe vantaggio o svantaggio, forse un po’ gioverebbe alla mente che ormai vaga senza meta e senza più speranza.” E Pelopia: “Le vostre parole non mi sono affatto chiare. Dite di avere perso la spada che era vostra, e che questo avrebbe peggiorato la vostra sorte, come fosse un talismano divino. Mi pregavate all’inizio di rispondere alle vostre domande per rispetto dei sentimenti di un padre. Ora mi dite che vi sarebbe di giovamento sapere chi ebbe la vostra spada. Sono discorsi senza capo né coda questi, e paiono ragionamenti di una mente assai debole. A questo punto, ripeto, non so di voi e della vostra sorte, né dell’ottimo motivo – perché ottimo deve essere senza dubbio – per cui mio marito vi ha cacciato qui sotto. Rendetemi la spada, prima che a lui racconti tutto questo vostro delirio, e temo che per voi sarebbe peggio.” E Tieste: “No, non v’adirate signora. La mia mente è debole senza dubbio, i miei discorsi appaiono slegati, lo capisco, ma solo perché pezzi di una storia lunga di dolori che richiederebbe tempo per essere narrata con adeguata costruzione. Un uomo tenuto in queste condizioni per anni perde cognizione di tutto ed anche di sé. Non riesce più a distinguere quello che è stato da quello che è: tutto si confonde nelle immagini della mente, suscitate da un rumore… tanti sono i rumori nel silenzio e in queste tenebre. Vi chiedevo di questa spada, perché questo oggetto mi ha riportato in vita per un momento con un ricordo nitido. E in questo ricordo di un me che quasi stento a riconoscere come un ricordo di qualcosa di vero e non di un sogno, ecco che a queste mente non più salda si affaccia la mia povera figlia che non seppe chi fu e che gli dei vollero strumento di trame complesse. La mia povera figlia, che non conobbe né il padre né la madre, e che fu consacrata, appena nata, alla dea dai begli occhi lucenti. La mia povera figlia Pelopia che avrebbe generato un figlio fratello dallo sconosciuto genitore per volere dell’Obliquo, perché fosse ripristinato l’ordine violato dagli inauditi orrori accaduti in questa casa…” Questo stava dicendo Tieste, quando Pelopia, rabbrividendo, lo interruppe: “Cosa andate dicendo, pazzo, chi è questa Pelopia di cui dite cose inascoltabili e, ahimé, tanto simili al più triste racconto che io conosca…” Rispose Tieste: “Pelopia, signora, è mia figlia, che sua madre volle sottrarre a questa casa, dandola alla luce nel tempio di Atena a Sicione. Pelopia è quella stessa figlia che Apollo volle posseduta dal padre, da me che ero suo padre, per generare colui che avrebbe riportato l’equilibrio tra le nefandezze della stirpe dei pelopidi. E fu quella notte, signora, che dopo avere violato la mia stessa carne per volontà dell’Obliquo, persi la spada nella fuga veloce.” Dette un urlo Pelopia: “Ahi, ahiaiaiai, me sventurata… E tu, uomo spregevole ed ignobile. Pelopia, quella misera Pelopia di cui parli, ti è di fronte, e questo che è ancora un bambino è il frutto demoniaco di quella notte. Demone a sua volta, come io sentii subito, e che volli abbandonare sui monti perché lo divorassero i cani e gli uccelli. Ma che lo stolto Atreo, credendolo suo, salvò. Salvando la propria disgrazia, penso ora io. Ma ancora più sciagurato il mio infame destino che mi portò anche tra le lenzuola di uno zio. Come una cagna lurida e viziosa, ma ignorando ogni cosa. Ingannata dall’occhio imperscrutabile degli dei, fui strumento del delirio di parenti sconosciuti, di chi mi diede la vita e la divorò. Ma ora che so, la ferita che sanguina da sette anni è niente, e il morbo attuale divora ogni mio pensiero e mi buca le carni. Dammi questo bronzo, padre degenerato, non posso più nulla, solo la morte che liberi da questa peste che mi sento addosso.” Così disse Pelopia e si lasciò cadere sulla punta dell’arma che la trafisse da parte a parte, e la tenebra invocata coprì i suoi occhi.

EGISTO (parte II)
Tieste trasse a sé il ragazzo: “Piangi, Egisto, piangi ora tua madre. Tua madre non ha tollerato il disegno degli dei, che è sempre stato assai grave per i Pelopidi, assai più grave che per tutti gli altri mortali. Piangi tua madre e riconosci il tuo vero padre. Al mondo tu sei per volontà del grande Apollo che mi ingiunse di averti dalla mia stessa carne, e perciò da mia figlia Pelopia. Sei al mondo per ristabilire l’ordine nella stirpe, l’ordine più volte violato e sconvolto dal detestabile mio fratello Atreo. Sono io tuo padre, come ti ha testimoniato ora qui tua madre, dandosi infine la morte. Atreo pensa di essere tuo padre e si inganna: questa è la prima parte del piano dell’Obliquo. Devi sapere che Atreo, accecato dall’invidia e da inesausto e smodato desiderio di potere, ha calpestato ogni diritto di tuo padre Tieste, che gli era stato fratello fedele, trattandolo con odio e disprezzo fino all’esilio. E tuo padre, non dimenticarlo mai, fu costretto come figlio di nessuno a vagare tra genti straniere per elemosinare la vita. E non fu ancora niente, perché Atreo, ancora insoddisfatto, mi richiamò qui in casa accanto a sé, fingendo di volere la riconciliazione del sangue. E fu il più orrendo dei misfatti, perché uccise i miei cari figli, quelli che oggi sarebbero i tuoi fratelli, e mi indusse a mangiarne le carni con l’inganno. Poi mi scacciò, nuovamente privato di tutto, per ridarmi ancora una volta ancora più furiosamente la caccia e gettarmi in questo buco in cui mi ha regalato la morte ogni giorno come dio degli inferi. Medita tutto questo, Egisto. Per quanto ancora ragazzo, ora non hai più tempo, e devi in un giorno, in questo giorno, diventare un uomo in tutta fretta. Quando Atreo saprà ogni cosa, e puoi starne certo che lo scoprirà in breve tempo, non ci sarà per te speranza di salvezza, come non ci fu per i tuoi sfortunati fratelli. Ti strapperà la vita come una belva feroce. Piangi tua madre, ora, Egisto, perché è giusto, ma medita tutto quello che ti ho rivelato e fallo in fretta. Quest’arma che estraggo dal corpo senza vita di tua madre, prendila e mostrala all’orrendo Atreo. Per un attimo penserà che è mio il sangue che la ricopre. Ma in quello stesso istante, trafiggilo e uccidilo. Devasta il suo corpo, perché se lascerai solo un filo di vita in quell’uomo, sarai tu morto subito dopo. Poi, segui il destino della tua esistenza, segui il volere degli dei, segui Apollo implacabile. E vendetta sarà per i tuoi fratelli, per tuo padre e per il tuo sangue”.
Così disse Tieste e le sue parole risuonarono tonanti e cupe nella mente del ragazzo. Egisto prese la spada, e gli parve che davvero il padre gli avesse versato nel cuore l’ira imperiosa dello sterminatore. Le cagne infernali latravano, ora, nel suo petto vigoroso e, nei suoi occhi, le vide anche Tieste che aggiunse rallegrandosi: “Va, figlio, scatena le furiose Erinni che non dimenticano e sono ora dentro di te per avere quanto è loro dovuto. Ne hanno dovuto attendere di tempo, ma la loro ferocia è eterna ed implacabile, ed ora fa bollire il tuo sangue”.
Egisto corse da Atreo e, come gli aveva detto il padre, per prima cosa gli mostrò la spada sulla quale si era rappreso il nero sangue di Pelopia. Gli occhi di Atreo si illuminarono, e fu un attimo. La vista si spense avvolta dalle tenebre. Egisto affondava la lama nel suo petto, poi fulmineo gli tagliava la gola e abbatteva il bronzo sul cranio che si apriva versando grumosa materia. Non fu l’Egisto che si era trovato di fronte a Tieste e che aveva esitato quello che trucidò Atreo. Egisto era ormai nelle mani del dio Apollo e nelle vene gli pulsava il sangue avvelenato delle furiose cagne infernali.