domenica 1 gennaio 2012

Giorgio Bocca, Il troppo di tutto

Il troppo è il nostro male quotidiano
L'Espresso n. 31 del 2004
Giorgio Bocca

I contemporanei cercano con affanno la spiegazione ai mali che li affliggono eppure la risposta è semplice e si riassume in una parola: troppo. Troppi uomini, troppe macchine, troppo sviluppo, troppo di tutto. L'11 settembre del 2001 a Manhattan in breve spazio sono andate distrutte le sedi di 400 società. Le compagnie di assicurazioni hanno dovuto pagare miliardi di dollari, la sola banca di investimenti Kefe e Bruyette ha perso 56 impiegati, centinaia i morti della Cantor Fitzgerald.
Il troppo di tutto, di abitanti, di auto, di uffici, di Stati, di linguaggi confonde e paralizza il mondo. Sono troppe le guerre infinite per via delle tecniche a disposizione di tutti.
Adolf Hitler pregava il suo dio catastrofico di "perdonargli gli ultimi dieci minuti di guerra" per dire l'uso delle armi totali, ma altri, dopo aver chiesto perdono al loro dio democratico, lo fecero. Le armi, le tecniche e le stragi hanno sempre la scusa della necessità superiore e nella scienza, nella finanza, nel progresso in genere, c'è una regola assoluta: “Ciò che deve andar male, ci andrà”.
Anche le innovazioni miracolose, l'informatica, le nanotecnologie, l'astronautica portano con sé le loro incognite catastrofiche. Il capitalismo regna nel mondo anche se infligge agli uomini pene infernali, il neocolonialismo globale moltiplica gli affamati e gli schiavi, ma è inseguito da tutti come la salvezza economica.
Pensavamo di aver raggiunto il troppo della corruzione ai tempi di Mani pulite, ma gli scandali recenti, Cirio e Parmalat, dimostrano che si è arrivati a un nuovo troppo anche nel furto e che dietro questi scandali si era formata una compagnia a delinquere a tutti i livelli bancari, politici, giudiziari, a una alluvione di omertà e di complicità.
La difesa di Tanzi migliora in numero e impudenza quella di Craxi: rubano tutti e se rubano i padroni possono rubare anche i dipendenti. Il ministro del Tesoro accusa il governatore della Banca d'Italia di aver favorito i ladri, di non essere intervenuto; il governatore ribatte, ma nessuno dei due spiega il perché del mancato intervento. Ci furono anni di retorica populista in cui usava dar la colpa di ogni male al perfido Stato imperialista delle multinazionali, ma ora è chiaro che il colpevole è un altro, è il troppo. Il quale continua ad aumentare e a render ridicole anche le tragedie.
Abbiamo un ministro non si sa bene di cosa se dei lavori pubblici o delle grandi opere o delle gallerie, il quale inventa ogni giorno l'acqua calda: la patente a punti, il raddoppio di valico, l'alta velocità ferroviaria. Il troppo lo lascia parlare e poi una domenica incendia gli sterpi nei prati che fiancheggiano la bretella di Fiano presso Roma e un fiume di automobili accecate si scontrano in un macello di uomini, di fiamme, di lamiere contorte.
L'assurdo del troppo è di essere non solo prevedibile, ma certo: tutti sanno che 20 e passa milioni di auto che possono andare ad alta velocità, prima o poi si scontrano, ma se la produzione e la velocità diminuiscono è una sciagura che tutti cercano di allontanare. Ne è nato un nuovo rapporto con la morte. Che è terribile, temuta dalla società intera se provocata da qualche nuova misteriosa malattia, ma accettata come un prezzo che si deve alla modernità se provocata dal troppo. A date fisse gli aspiranti a una morte da troppo automobilistico si mettono in moto sulle autostrade. È il portato delle vacanze tutti assieme, delle fabbriche, dei negozi, degli uffici chiusi alla stessa data, ma è anche qualcosa di religioso: il bisogno ancestrale a muoversi in massa verso i sacrifici rituali. Morire nella ressa è una consolazione, finire la vita in mezzo a milioni di altri è un “lutto men duro” come diceva il poeta, percorrere una esistenza spesso amara e faticosa per interromperla una domenica sulla Milano laghi o sulla Roma-Orte, un mal comune mezzo gaudio.