giovedì 5 settembre 2024

Non chiedere se sono felice

 

Quando camminava Alberto buttava i piedi come se volesse liberarsene. Esattamente come quando ci si vuole sfilare le ciabatte semplicemente tirando dei calci in aria. Le braccia ciondolavano ad un ritmo leggermente più sostenuto del passo. Tutto il tronco molleggiava incurvato sulla pancia.

Era domenica mattina. E proprio a quel modo Alberto, appena uscito dal portone di casa sua, procedeva sul viale dritto e già assolato verso la sua auto parcheggiata, come al solito, sin troppo lontano da casa.

Lavorava come una bestia, Alberto, e la sera, quando rincasava, era sempre troppo tardi: tutti i posteggi migliori erano già occupati. E gli toccava ritornare indietro, verso la periferia, anche di molto, prima di riuscire a trovare un buco per potere finalmente abbandonare l’auto. Quartiere di merda, tutti a non fare un cazzo dalla mattina alla sera, buoni soltanto ad occupare con le loro inutili auto tutti i posteggi: quelli più sicuri, quelli più comodi, quelli più all’ombra d’estate…

Era un giorno di riposo quel giorno, ma Alberto doveva risolvere una questione seria, diventata col tempo sempre più opprimente.

Aveva conosciuto Luana sei mesi prima. Ogni tanto, quando il tempo lo ispirava, la domenica mattina andava al parco: circa un chilometro e mezzo da casa sua. Qui si concedeva un caffè con panna, seduto ai tavolini all’aperto del chioschetto storico. Un lusso! Si sentiva un signore! E se ne stava, con quella tazzina davanti, consumata lentamente, a guardare la gente che si alternava ai tavolini, anche per due ore di fila. In realtà, Alberto non guardava la gente, più esattamente seguiva i movimenti attorno a sé come si percepiscono i movimenti dei rami e delle foglie degli alberi mossi dal vento. Comunque, si sentiva in pace col mondo in quei momenti, perché gli pareva di essere, per una volta, immerso nel mondo della gente con una vita, che godeva il proprio tempo ed il proprio denaro. Almeno in quei momenti, si sentiva qualcosa anche lui. Fuori, per un attimo, dal lavoro lavoro lavoro, per un istante vivo! Poi, tornava a casa, ed era già finita… Nuovamente, la solitudine, casa vuota, fredda, sporca, e solo il pensiero, il solito, per l’indomani di tornare a lavorare.

Per questo, la domenica che aveva conosciuto Luana era stato come uscire da tutto il suo incolore passato, era stato come cominciare finalmente ad essere qualcosa. Quella donna, mentre lui guardava tutto attorno a sé e non vedeva nessuno, si era avvicinata al suo tavolino e lo aveva salutato. Più volte aveva dovuto salutarlo, perché Alberto non poteva aspettarsi che qualcuno si rivolgesse a lui, che qualcuno lo salutasse. Ma, infine, si era accorto di lei, aveva messo a fuoco quel vestito pieno di fiori piccoli su un fondo blu che veniva fuori da un piumino color crema con cerniere molto dorate. Aveva, poi, visto due labbra carnose, rosso fuoco, che sorridevano, e due file di denti grandi. In ultimo si era sentito inondato di luce dai suoi occhi grigi e dai suoi capelli biondissimi. Solo dopo tutto questo aveva percepito il suono di un saluto rivolto a lui, sì, proprio a lui. Un saluto che era insieme una formula di cortesia che si scusava per il disturbo ed un accento straniero, cantilenante, dolcissimo. Alberto non aveva ancora capito nulla, che quella donna era già seduta di fronte a lui e gli rivolgeva domande. Non aspettava risposte quel sorriso: diceva di sé, domandava di lui, proseguiva… In pochi istanti si era presentata (Luana) ed aveva appreso da lui il suo nome (Alberto). Aveva decretato che erano entrambi soli, aveva osservato che la solitudine porta tristezza, aveva stabilito, a vantaggio comune, che avrebbero fatto bene a bere un caffè insieme, aveva ordinato per sé cornetto e cappuccino, constatando che Alberto aveva già davanti a sé la sua tazza con ancora metà panna montata e ancora tutto il caffè.

Come cosa assolutamente naturale, la conversazione era decollata. Alberto, completamente a suo agio, aveva parlato di sé come a se stesso. Aveva quarantacinque anni. Aveva perso i genitori, ormai, da più di dieci anni. Viveva da solo. Non aveva parenti, se non lontani cugini all’estero. Non aveva una donna. Lavorava come una bestia. Per carità, avere un lavoro stabile era già una gran fortuna. E, poi, alla fine il lavoro è tutto. In fondo, lui, sì, era un fortunato. Poteva stare tranquillo: aveva già un discreto gruzzoletto da parte, un’auto potente con ancora pochi chilometri (in fondo, ci andava solo al lavoro), la casa di proprietà, e la casa dei suoi genitori che gli dava un piccolo reddito integrativo (la teneva affittata a certi Moldavi, gente che non dava problemi…).

Luana, ad un certo punto, gli aveva chiesto, a bruciapelo, se era felice. Alberto era ammutolito: nessun mai gli aveva fatto una domanda del genere. Gli parve una domanda intima, indiscreta, e lo colpì come una frustata. Ma, dopo qualche istante di irritazione e confusione, aveva risposto – anche con un po’ di stizza – che, certo, che era felice! E ribadì che non gli mancava niente, come aveva già detto. Aveva tutto ciò che si potesse desiderare e, anzi, aggiunse, pensava che più di un collega, sul lavoro, invidiasse la sua posizione…

Luana, allora, aveva sorriso con il sorriso più dolce che aveva. Quindi era passata decisamente a parlare di sé. Era nata in una cittadina della Romania. Si era sposata giovanissima. Dalle sue parti era normale. Il marito era un gran lavoratore e vivevano bene. Ebbero una figlia. Lei continuava ad occuparsi dei genitori che, presto, si erano ammalati ed avevano bisogno di aiuto. E, così, si era pure dedicata a loro finché erano rimasti in vita. Poi, dopo qualche anno, il marito aveva cominciato a bere e non era più lui. Litigavano. I soldi non bastavano più. Ma per lei, Luana, i soldi non erano mai stati l’importante. Anzi, la vita è fatta di tante altre cose di maggior valore. Nella vita bisogna essere felici! Se si hanno cose materiali, ma non si è felice, a che scopo vivere? Aveva sopportato quel marito cambiato, era passata sopra a tante cose. Ma quando la figlia aveva finito le scuole, Luana aveva pensato che doveva tornare a vivere. Era venuta in Italia per cambiare tutto. Lavorare, sapeva lavorare, e la forza non le mancava. Lasciare tutto, sì, anche la figlia, e provare ad essere felice. L’Italia è bellissima, la gente è educata… anche se, in fondo, le pareva che gli Italiani fossero stanchi di vivere…

Poi, ad un tratto, si era accorta che era tardi. Aveva accennato ad un impegno che Alberto non aveva capito. Si era alzata, sempre con un sorriso radioso, lo aveva salutato tendendogli la mano, era andata via come una foglia volata nel vento.

Alberto aveva finito la sua panna e bevuto il suo caffè ormai gelato. Aveva la testa piena di immagini di vite lontane, in paesi lontani (non era mai stato in Romania e non sapeva se la stava immaginando com’era davvero). Sentiva nel petto un sorriso del tutto nuovo. Si ricordò – stava per non pensarci – che doveva pagare. Lo fece (anche il cornetto ed il cappuccino di Luana), si alzò un po’ incerto: non gli pareva possibile ritornare a casa, ripiombare nella sua silenziosa solitudine. Dopo quella compagnia così piacevole, dopo avere ascoltato tutte quelle cose diverse, tutta quella vita in movimento… Eppure, non aveva potuto che tornare a casa, tornare nella sua monotonia tranquilla e piatta.

Ma il mondo, ormai, sembrava avere un altro odore. Quella sera stessa, trascinato da una forza irresistibile, era uscito ed era tornato al parco. Non lo aveva mai fatto prima, ed il parco di sera era un’altra cosa. Il chioschetto chiudeva ben prima dell’ora di cena. Di gente non ce n’era in giro e faceva freddo. Da quel giorno, però, tutte le sere, dopo il lavoro, era tornato al parco senza dirsi il perché. Ci fumava due sigarette accanto al chioschetto chiuso, e tornava a casa come se avesse compiuto un atto doveroso. Tutta la settimana era stata un’attesa, il pensiero della domenica come non mai. Ma la domenica era rimasto al tavolino solo come sempre. Luana non era tornata.

Era trascorso un mese prima che riapparisse. Ma riapparve finalmente, in quello stesso luogo, vestita allo stesso modo, con le labbra sempre accese, anche se gli era parsa ancora più bella di come riposava ormai nel suo ricordo. Luana, quella volta, non aveva chiesto alcun permesso di sedersi. Lo aveva salutato come se avessero avuto un appuntamento, aveva ordinato la sua colazione ancora in piedi, ed aveva preso posto come fosse il “suo” posto. Poi, pronunciando un nuovo gioioso “ciao” lo aveva anche accarezzato sul viso. Alberto aveva risposto con un filo di voce. Non era abituato al contatto fisico. Non conosceva proprio la tenerezza, e ne era rimasto stordito. Luana parlava già da un po’, quando Alberto si domandò se, per caso, fosse quella cosa lì la felicità… Poi, aveva ripreso ad ascoltarla, perché Luana richiamava costantemente la sua attenzione toccandogli il braccio. Gli stava chiedendo qualcosa, gli stava domandando della casa dei suoi genitori, gli domandava se ci fossero sempre quei Moldavi, se, per caso, non andassero via. Perché lei stava pensando a quella casa per sua sorella, per la famiglia di sua sorella. In tre erano: la sorella, il marito (suo cognato), la figlia (sua nipote di dodici anni). Sì, ci stava pensando, perché sua sorella, forse, sarebbe venuta anche lei in Italia, e, nel caso, avrebbe avuto bisogno di trovare una casa. Sarebbe stato perfetto, diceva Luana, perché era la casa di un suo amico (Alberto era un suo amico!) e, quindi, sarebbe stata tranquilla di sistemare la sorella nella casa di un amico, piuttosto che di un estraneo. Insomma, la casa di una persona di cui avrebbe potuto fidarsi.

Alberto era cascato in pieno marasma: prima la carezza, poi, essere chiamato “amico”… Aveva risposto a monosillabi senza significato. Poi, era nato in lui un penoso senso di vergogna a pensare lo stato della casa dei suoi: vecchia, tetra, con mobili economici che avevano più di sessant’anni. Non ce la poteva vedere Luana, col suo gran bel sorriso e la sua freschezza in quella casa sin troppo umile. E, quindi, non poteva vederci la sorella di lei. E questa cosa qui, ad un certo punto, l’aveva detta chiara, anche se gli era costato… Era pur sempre, quella casa, una cosa sua, e presentarla come un’abitazione trasandata di cui non aveva avuto alcuna cura, era come denigrare se stesso di fronte a quella donna che avevo preso a contare così tanto prepotentemente nel suo orizzonte. Poi, in ogni caso, c’erano già degli inquilini dentro… Luana aveva subito chiesto se c’era un contratto, sì, insomma, un contratto regolare. Ma, in tutti i modi, aveva assicurato di avere già in mente una possibile soluzione. Aveva chiesto ragguagli precisi su quei Moldavi, dettagli sulla regolarità del loro soggiorno in Italia. E, alla fine, aveva decretato che gli inquilini non sarebbero stati un problema. Ed aveva aggiunto che avrebbe pensato a tutto lei, a convincerli a liberare l’alloggio, se proprio Alberto non se la fosse sentita di farlo lui. Luana aveva concluso, con un gran sorriso e rilassandosi sulla sedia, che era bello avere amici, perché tra amici ci si aiuta, non ci si sente mai soli e deboli, proprio come in famiglia.

Quei Moldavi, in effetti, andarono via che Alberto neanche li vide una volta di più. Se ne era occupata Luana e lui non aveva avuto la minima noia in quella faccenda, né aveva saputo tanto di più. Le chiavi dell’appartamento le aveva già lei. Nel giro di dieci giorni ci si era installata la sorella con il cognato e la nipote. Alberto li aveva conosciuti che abitavano già in casa sua da giorni, quando lo invitarono una domenica a pranzo. Era stata come una giornata di festa. Lo avevano trattato come un re. Poi, solo nel tardo pomeriggio, il cognato lo aveva preso da parte e gli aveva fatto tutto un lungo discorso complicato (non diceva che poche parole in italiano e spesso, quando Alberto lo interrompeva per dirgli che non stava capendo, quello sorrideva, gli dava grandi pacche sulle spalle, e ripeteva sempre la stessa frase con un grande sorriso, “Tu amico mio, io amico tuo. Fratelli!”, e finiva lì tutto il chiarimento). Era stata, poi, Luana, a svelare l’intero contenuto di quel lungo ed incompreso monologo. Il cognato aveva “le mani d’oro”: sapeva fare il muratore, l’idraulico, il falegname, l’elettricista. Insomma, sapeva fare di tutto. La casa, Alberto era il primo ad ammetterlo, era in condizioni penose: tutto vecchio e malfunzionante. Bene, ecco la soluzione perfetta per tutti. Il cognato, poco alla volta, l’avrebbe rimessa a posto senza chiedere alcun compenso, così, per amicizia e riconoscenza. Beninteso, i materiali sarebbero stati a carico di Alberto, ovvio, ma il lavoro non gli sarebbe costato un euro. Tutto sarebbe stato fatto per il meglio e nel suo interesse, senza seccature di sorta, proprio come si fa tra parenti. Si sarebbe trovato, senza neanche accorgersene, una casa rimessa a nuovo senza alcun pensiero. Ecco che significa avere degli amici, come una famiglia… Solo alla fine Luana aveva compreso nell’accordo, e con un “giustamente” lungo un chilometro, che come contropartita della ristrutturazione sarebbe stato opportuno non pretendere alcun canone d’affitto almeno per un anno. Eh, sì, sapeva che non sarebbe neanche stato il caso di dirlo, ma per chiarezza, per tranquillità di tutti… D’altronde, era come ospitare dei parenti, che, a loro volta, si sarebbero disobbligati in un modo o in un altro. E non sarebbe neanche stato il caso di chiarire, così, tutti questi dettagli, ma Luana aveva detto che il cognato aveva insistito. Per rispetto di Alberto, si era impuntato il cognato, bisogna mettere tutto in chiaro sin dal primo momento. Poi, certo, il cognato avrebbe fatto tanti lavori in quella casa e non sarebbe stato a contare le ore, né avrebbe fatto pesare la cosa in alcun modo, perché avrebbe fatto tutto il necessario come fosse stata la casa di un fratello.

Ed era stato proprio così. Di punto in bianco, Alberto s’era ritrovato una famiglia. Lo invitavano tutte le domeniche a pranzo, ed erano pranzi infiniti in cui Alberto si lasciava avvolgere da una confusione calda e confortevole. Il cognato parlava continuamente, nella sua lingua per lo più, e si rivolgeva a lui come se Alberto potesse comprenderlo, ma era lo stesso. In fondo, ad Alberto interessava solo di Luana, la sua Luana, che lo aveva cavato dal suo buco e lo aveva riportato alla vita. Tutto il resto non era che lo sfondo del nuovo centro vitale, Luana, che si occupava di lui e dava senso alle sue giornate. Gli aveva anche fatto cambiare il telefono, perché lui aveva ancora un vecchio attrezzo che neanche andava su internet. Gli aveva insegnato ad usare whatsapp, così potevano messaggiarsi e videochiamarsi, e mandarsi le foto. Avevano fatto un gruppo di famiglia e lui era stato compreso. Quante novità e quanta energia nella vita di Alberto! Ma, in fin dei conti, quella felicità era durata niente.

 

Così, quella domenica mattina Alberto doveva farla finita una volta per tutte. Perché, dopo qualche tempo, Luana era completamente cambiata. Era diventata un’altra, distante. Era sempre più impegnata ed aveva sempre meno tempo per lui. Anzi, di tempo non ne aveva più per niente. Quanti mesi erano che non prendevano più un caffè insieme, e non facevano due chiacchiere loro due soltanto? Neanche lo ricordava più quando era stata l’ultima volta. Le domeniche aveva smesso da un bel pezzo di andare da loro a pranzo. All’inizio era stato proprio lui a cercare delle scuse, ma perché si sentiva sempre meno a suo agio. Soprattutto, sperava, di settimana in settimana, di potere passare qualche domenica da solo con Luana… Ma Luana aveva accettato solo una volta quel suo invito. Erano andati al lago. Avevano pranzato fuori. Non era stato granché. Luana, per tutto il tempo, era stata lì, con il suo telefonino a fare chissà cosa. Poi, subito dopo pranzo aveva detto che doveva rientrare perché aveva un appuntamento con una sua amica. Un appuntamento cui non poteva assolutamente mancare, aveva detto, senza dare altre spiegazioni. Si era fatta riaccompagnare a casa, e la giornata si era spezzata così, all’improvviso, prima che lui riuscisse a gustare la compagnia di lei. Da quella volta, non si era mai più concessa. Sempre un impegno, un imprevisto, un appuntamento che non poteva spostare. Luana non aveva più avuto tempo per lui. Neanche più a telefono rispondeva. I suoi messaggi non li leggeva. Alberto era arrivato ad appostarsi sotto casa di lei, per poterle parlare, per sapere cosa mai fosse accaduto, perché avesse preso ad evitarlo. Luana aveva risposto che nulla era cambiato, se non che era lui ad essere diventato appiccicoso e noioso… fissato. E che, a dirla tutta, si stava rivelando anche un ingrato: lei e la sua famiglia avevano cercato di dargli affetto e conforto, visto che lui era un povero uomo solo e triste, ma che lui, ferocemente egoista, aveva preso e preteso, e continuava a pretendere senza dare niente in cambio. Niente in cambio, pensava ora Alberto, ripetendosi per l’ennesima volta quel discorso, niente in cambio? Ma se aveva messo a disposizione la casa dei suoi genitori senza ricavarne alcunché da mesi! Anche il condominio era rimasto a carico suo, e perfino le bollette della luce, del gas e dell’acqua… Tutto lui pagava, perché – dicevano – erano stati questi i patti… Ma quali patti!? Alberto non aveva mai stipulato alcun patto. Per generosità, aveva acconsentito solo perché era un signore lui… Una cosa temporanea doveva essere… E, invece, si era ritrovato a mantenere la famiglia del cognato! Questo era! Altro che chiacchiere! Era tutto un raggiro… Ed era stata Luana ad imbrogliare le carte, questo non se lo nascondeva più. Ma, soprattutto, ora, Luana aveva un altro! Questo faceva la differenza, ora. Alberto se ne era convinto. Ed era questo che non gli andava giù. La casa… ma che se la prendano pure… Tanto, prima o poi, dovranno pure andare via… Ma Luana no, Luana l’aveva tradito veramente, aveva tradito la fiducia su cui era stata fondata la loro amicizia. Luana aveva senza dubbio un altro. Anche se negava. Aveva sempre negato, continuando a dire di non avere nessuno e che, oltre tutto, pure se avesse qualcuno, non dovrebbe renderne conto a lui. Eh, già, si diceva Alberto: prima mi stai lì a fare tutti quei discorsi sulla felicità, sugli affetti, sulla cura che bisogna avere delle persone care… E, poi, scaricato così… Non è giusto, si diceva Alberto. Eh, no, cara! Troppo comodo, troppo facile… Mi chiedi se sono felice! Ti infili dentro la mia vita… Ti ho chiesto io qualcosa? No, hai fatto tutto tu: hai fatto e disfatto. Ed ecco che io sono diventato appiccicoso… Di punto in bianco, sono diventato asfissiante… Io sono diventato insopportabile… No, è che hai trovato un altro, e non vuoi confessarlo. Tutto qua, non hai il coraggio! Avessi almeno il coraggio di dire le cose come stanno. Dimmi che hai un altro, e tutto si chiarisce, no? Sii onesta! Non continuare a fingere! Le amiche, dice, ma quali amiche!? Un altro c’è, è ovvio!

Così, quella domenica aveva deciso che sarebbe andato dal cognato per pretendere una spiegazione. Con tutto quello che faceva per quella famiglia, ne aveva il diritto! Aveva il diritto che gli dessero una spiegazione! Erano giorni, ormai, che Luana non rispondeva al telefono e non rispondeva ai suoi messaggi. Per due sere si era appostato sotto casa sua, ma lei non era rientrata! Ora, il cognato gli doveva delle spiegazioni! Sentiva di essere assolutamente dalla parte della ragione! Sentiva che qualcuno gli doveva delle scuse, sì, delle scuse. Era in credito verso quella gente! In un modo o nell’altro dovevano risarcirlo! Gli avevano tolto tutto, questo sentiva. E avrebbero dovuto restituirglielo. Dovevano restituirgli tutto!

Guidava verso quella che era stata la casa dei suoi genitori, sempre più divorato dall’agitazione. Perché gli pareva che i suoi pensieri, ad un certo punto, si impicciassero senza via d’uscita. Sentiva di avere assolutamente diritto ad un risarcimento, ma quando arrivava a pensare cosa avrebbe chiesto, non riusciva a rispondersi. Cioè, ad una spiegazione aveva senza dubbio diritto. Eh, sì, che ne aveva diritto. E chi avrebbe potuto negarlo!? Ma, avuta pure una spiegazione, dove avrebbe potuto arrivare? Sentiva che non poteva finire lì! La rabbia, quindi, montava perché si sentiva senza vie d’uscita. Allora riprendeva d’accapo a rivendicare il suo diritto ad un po’ di rispetto. E qui si convinceva nuovamente che tutte le ragioni erano dalla sua parte. Non potevano trattarlo così, insomma! Come non esistesse, come non fosse mai esistito. Che senso ha andare a chiedere a uno se è felice una volta, se poi non glielo chiedi più? Se poi non te ne preoccupi più? Se poi lo abbandoni e non gli concedi più un minuto del tuo tempo? Lui aveva acconsentito ad ospitarli a casa sua, ma non li aveva mica lasciati a loro stessi: continuava a pagare tutte le spese, perché è così che si fa, no? Anche se, a volere essere sinceri, non c’era mai stato alcun patto, questo era bene chiarirlo e ribadirlo. Mica lo faceva perché ne era obbligato, lo faceva perché è così che si fa, no? È un po’ come se lui ora dicesse: da oggi vi pagate le spese, così, senza dare spiegazioni… Questo è, è un fatto di spiegazioni, bisogna spiegare, si ha il dovere di spiegare. E chi sta dall’altra parte ha il diritto di riceverle queste spiegazioni. E se le spiegazioni non ci sono, ha il diritto alle scuse! Almeno queste. Ecco sì, Alberto aveva diritto alle scuse, questo gli pareva, ora, l’approdo di tutta la sua rabbia, e quel giorno le avrebbe pretese, le scuse!

Sentendo di essere dalla parte della ragione, di avere diritto, di essere nel giusto, di dovere ricevere una riparazione, giunto davanti al cancelletto di ingresso al condominio della casa dei suoi genitori, fermò l’auto davanti senza parcheggiare e senza curarsi che avrebbe impedito il passaggio di altre auto. Scese e suonò il citofono in preda ad un tremore crescente.

Rispose il cognato di Luana. Allora Alberto, senza salutare, chiese dove fosse lei, diretto. Il cognato rispose di non saperlo.

-        Ma come non lo sai!? È domenica! È tua cognata! Dov’è? Non mi risponde a telefono!

-        Non viene qui oggi. Da quando non vieni più tu a mangiare la domenica, lei quasi mai viene.

-        Ok, ma dov’è? Ti sto dicendo che non mi risponde a telefono! Non risponde se le mando un messaggio! Con chi è? Dimmi con chi sta!

-        Io non lo so, amico mio. Ma non ti preoccupare, sta bene.

-        Non sono preoccupato. Voglio sapere perché non mi risponde! Voglio sapere che vita fa! E tu, ora, me lo devi dire!

-        Ma io non sono padre o marito di mia cognata. Io non controllo lei. Perché chiedi a me?

-        Perché, perché mi state prendendo in giro. Perché anche tu mi stai prendendo in giro. Cazzo, ma che credete che sia uno stupido? Io ho bisogno di avere delle spiegazioni! E tu oggi me le dai, o io non mi muovo di qua!

-        Non gridare amico mio! Tu sei arrabbiato, e io non so perché! Io non capisco cosa successo. Sali a prendere un caffè. Non gridare nella strada. Gente sente…

-        Io grido quanto voglio! Questa è casa mia e tu non vieni a dire a me cosa devo fare. Sono io che dico a te quello che devi fare, capito!? Tu devi spiegare! Io ho diritto ad una spiegazione! Anzi, io ho diritto a tutte le spiegazioni, a questo punto!

-        Ma cosa vuoi che spiego io. Io non so quello che vuoi! Io capisco solo tu essere arrabbiato. Ma parlando sistemiamo tutto. Non gridare, amico mio. Calma. Gente sente… Sali. Prendiamo caffè e parliamo, e calmiamo.

-        Ok, salgo. Non è il caffè che voglio. Non voglio più niente da voi. Voglio solo spiegazioni! Ora basta! Forza, apri il cancello, così salgo! E la cosa deve finire qui, ora, una volta per tutte! Cazzo, non sono uno stupido! E voi non avete il diritto di trattarmi come uno stupido! Oggi vi faccio vedere io chi sono! Questa casa è mia e, se voglio, oggi la butto giù con le mie mani, mattone per mattone! Apriiii!?

Il citofono restò muto, ma la serratura del cancello scattò con una vibrazione ronzante.

Quando Alberto oltrepassò anche l’ingresso del portone vetrato, tremava senza controllo. La calma del cognato di Luana gli aveva fatto montare il sangue al cervello più di prima. Di fronte al suo diritto ad ogni riconoscimento di sacrosanta ragione non era tollerabile quella serenità. Ancora a prenderlo in giro, ancora a trattarlo come uno stupido. Quella donna se la faceva con chissà quanti uomini dopo averlo illuso, e si pensava di uscirsene con un caffè!? Si viveva in casa sua, un’intera famiglia viveva sulle sue spalle, e si credeva di cavarsela con quell’ “amico mio”!?

Ma, allora, non si era ancora capito niente? Non si era ancora capito che quello era il giorno in cui tutti i nodi dovevano venire al pettine? Si credeva ancora di vivere, così, gratuitamente? Di fare e disfare tutto quello che si vuole senza pagare pegno?

Quando Alberto cominciò a salire le scale (doveva fare tre piani) gli parve di avere una forza sovrumana che lo spingesse, finché inciampò. Fu un attimo. Ebbe il tempo di accorgersi di non avere modo di parare la caduta con le mani. Sentì un dolore impossibile, oltre ogni ricordo di dolori già provati, allo zigomo destro ed al labbro superiore. La rabbia gli montò ancora più feroce, insieme ad una pulsione violenta ed irresistibile che lo fece girare su se stesso per lanciarsi a corpo morto giù per la rampa di scale che aveva appena percorso in salita. La caduta fu rovinosa. Brevissimo, ancora, un nuovo dolore alla fronte. Il buio ed i sensi svaniti.

Quando il cognato di Luana chiamò l’ambulanza, dopo essersi accorto della caduta di Alberto per le scale, e dopo avere cercato di rianimarlo e di fermare il sangue che gli schizzava dal volto e dalla testa, qualcuno aveva già chiamato i carabinieri perché un uomo visibilmente alterato aveva abbandonato l’auto al centro della strada e gridava come un forsennato sembrando pericoloso.

Tutti i vicini erano sui balconi e le finestre, curiosi, quando Alberto fu portato fuori in barella e caricato sull’autombulanza. Videro, quindi, un uomo con delle bende alla testa ed al volto, che però si muoveva, dando segno di essere vigile. Muoveva le braccia come volesse comunicare qualcosa ai sanitari che lo accompagnavano.

Un carabiniere scambiò al volo due parole con uno degli infermieri, e ci fu un cenno d’intesa. Poi si rivolse al cognato di Luana e, subito dopo, questi andò verso l’auto di Alberto, vi entrò, mise in moto, e la spostò dal centro della strada parcheggiandola in uno stallo libero. Quindi, tornò dal carabiniere che aveva in mano dei fogli. Parlarono a lungo. Il cognato di Luana parlava calmo senza gesticolare, muoveva solo il capo ritmicamente come con desolazione. Il carabiniere ascoltava impassibile, ed ogni tanto annotava qualcosa. Il secondo carabiniere stava seduto nella gazzella, a tratti si avvicinava ai due, ascoltava per un po’, annuiva, tornava in auto. I curiosi, dopo un po’, tornarono alle loro occupazioni.

Qualche giorno dopo, un uomo con una più che visibile fasciatura alla testa, vestito in maniera molto trasandata e con evidenti macchie di sangue rappreso sugli abiti, attraversò a passo sostenuto la strada fino a quel cancello. Buttava i piedi come volesse liberarsene e ciondolava le braccia incurvato sulla pancia. Si guardò attorno per qualche istante. Si diresse verso quell’auto parcheggiata. Vi salì, mise in moto, ed andò via.

 

mercoledì 1 febbraio 2023

Natale

 Aprì gli occhi controvoglia. Dall’imposta di legno, solo accostata, entrava una morbida luce di foschia. Sentì il soffice calore del letto. Realizzò che non doveva andare a lavoro – era in ferie – e il respiro si distese ampio. Annusò un odore estraneo, un profumo femminile. Immerse il naso nel cuscino e tornò dentro di sé. Poi, dopo qualche istante, il corpo scattò autonomamente e si ritrovò supino con le braccia e le gambe che si scuotevano dal torpore. Quel profumo permaneva tutt’attorno e, tutto sommato, non era per niente sgradevole. Lelia, era l’odore di Lelia quello. Già, aveva dormito da lui. La chiamò, inutilmente, non c’era. Quindi, ricordò che quella notte, forse verso le tre, si erano svegliati e si erano accorti di essersi addormentati, senza volerlo, insieme. Allora lui le aveva detto di restare, che non gli spiaceva, e lei aveva chiesto una sveglia perché doveva alzarsi presto per un appuntamento di lavoro. Così, sicuramente, era già andata via, ma aveva lasciato il suo profumo in casa e sulle lenzuola.

Si mise a sedere sul letto e appoggiò il viso sulle mani, e sentì di avere l’odore di Lelia anche sopra la pelle.

Il caso! La casualità: sostanza profonda e nascosta della vita. Programmare, credere di decidere, volontà superba di determinare: illusione e assillo di morte! Lasciarsi galleggiare, invece, con la massima levità, nel mare dell’esistenza, senza pervicaci velleità… Divorare gli istanti, tutti i momenti afferrabili, per non lasciare che, a un tratto, resti solo polvere nei nostri pugni stretti verso l’avvenire…

Bocca asciutta, impastata di saliva non sua e amara di fumo e di vino. Non avevano bevuto molto: se non si ingannava, solo una bottiglia che aveva in casa di cabernet del Friuli. Però, non avevano mangiato nulla, solo sigarette, e poi avevano fatto l’amore a lungo. Lui aveva fumato l’ultima, dopo tutto, che Lelia già dormiva, probabilmente. Si era alzato, aveva bevuto un bicchiere d’acqua fresca e aveva fumato sazio e solo davanti al camino, chiudendo gli occhi di tanto in tanto, e riassaporando con piena voluttà i momenti appena vissuti. Rilassata stanchezza dell’approdo! Sigaretta respirata a fondo, ma lentamente. Il sapore del tabacco intenso come la prima volta. Si era quindi disteso, stanchissimo, di fianco a Lelia ed il sonno li aveva inghiottiti…

Tolse le mani dal viso. Ricordò il viaggio andato a monte e imprecò contro l’ottusa radiosveglia che, sopra i numeri dell’ora, gli mostrava il calendario. Era il ventitré di dicembre e quell’anno, diversamente dal solito, sarebbe rimasto in città per un maledetto contrattempo, anche se in ferie. Sì, almeno quello, almeno le ferie, almeno un po’ di pausa dal corso ordinario e ostinato della vita prefabbricata. Tuttavia, non riusciva proprio a capacitarsi: da sei anni aveva giurato a se stesso di non trascorrere le feste in città. “Crollasse il mondo, io tra questi matti non resto”, questo era stato l’impegno. E per cinque anni ci era riuscito, andando via in posti lontani, caldi e meno caldi, dove, comunque, sentiva di riuscire a spogliarsi di se stesso e del solito mondo appiccicato addosso. Con gli anni era diventato sempre più refrattario alle ritualità: quel perpetuarsi maniacale, di anno in anno, di generazione in generazione, di atti, parole e addirittura sentimenti; rinnovate messinscene di folli mascherate; eccesso di luci, di colori, di profumi, di cibi, troppo di tutto; baccanale religioso, orgia di sublimate paure, tripudio di storpie coscienze, mediocre sussulto di verità ingoiate come acidi conati. Lo aveva negli occhi quel falò sacrificale che sopravviveva dalla notte dei tempi e che sapeva del senso inspiegabile delle cose. Ma il senso inspiegabile delle cose prima attrae la curiosità, poi affascina, ad un certo punto della vita diventa solo noia che ammansisce…

Nella sua testa riemerse la stridula vocina della ragazza dell’agenzia di viaggi: “Spiacente signore... Ieri... forse qualcosa avremmo potuto trovarla, ma oggi... lei capisce... è davvero troppo tardi. Arrivederci... e... auguri!”

“Si dispiace lei. Bestia. Voce fasulla”, ripeté con un fastidio montante. “Sono spiacente che si dispiaccia, signorina, anzi, sa che le dico? Sono amareggiato per averle arrecato tale mestizia e mi scuso, mi rendo conto d’averla rattristata… Questa si rattrista, ed io, intanto, me ne sto qua, inchiodato in questa maledetta città, come un fesso, come un gran bel pezzo d’idiota tra tutti gli altri idioti!”

Andò in cucina, accese il fornello e vi mise su la caffettiera già pronta. Bevve un bicchiere d’acqua, e i piatti sporchi del giorno prima nell’acquaio aggiunsero un’ulteriore sfumatura al senso di squallore che già s’era infilato nel suo stomaco. Rimase un attimo a fissare l’azzurra fiammella del gas: “Li brucerei! Sì, li metterei tutti in un enorme calderone – e andava molleggiandosi sulle ginocchia illustrando con le braccia allargate davanti a sé l’ampiezza dell’immaginaria marmitta – e li cucinerei a fuoco lento... Lento? Chi ha detto lento? Veloce, velocissimo. Queste vaccate delle torture lente... Veloce, velocissimo! Soluzioni rapide e radicali! Non è più tempo di gustare il trascorrere del tempo… Siamo o non siamo nell’epoca che tutto misura sull’istantaneità della risposta? Sollecitazione, reazione immediata! Il tempo lungo, il tempo morto, è intollerabile, anzi, inconcepibile… Cucinati, via, a fuoco vivacissimo!”

Si lasciò cadere su una sedia e sprofondò il capo tra le braccia appoggiate sul tavolo. Pensò a Lelia per scacciare la nausea e si accorse che avrebbe voluto svegliarsi con lei. Sì, si accorse che, in quel momento, la cosa migliore sarebbe stata quella sempre percepita con timore: il risveglio di una normalità matrimoniale… Ma la caffettiera gorgogliò e il caffè coprì quel delicato profumo femminile che pareva essere finito un po’ in tutti gli angoli della casa.

“Ah, che buon odore di caffè! Questa – gridò drammatico parodistico – è la vita! Ben altro rispetto alle sciocchezze che vi sento dire!”, disse rivolgendosi al rubinetto del lavandino con una specifica occhiataccia rivolta ai piatti sporchi. “Una scopata coi fiocchi! Voglio dire: fatta con tutte le dovute accortezze e malizie del mestiere, con una donna che già sa tutto e tutto sa fare alla perfezione… Un bel sonno accucciati dentro quell’accogliente sentore di sesso… E poi, la mattina, un gran caffè forte e bollente, seguito dalla prima sigaretta della giornata…”

Prese la caffettiera e versò due dita di caffè nella tazzina; aggiunse una goccia di latte e si sedette.

“Ma tu guarda se uno deve tenersi addosso questo nervoso per il fatto di non riuscire a fare un viaggio a natale come tutti gli anni… Appunto, come tutti gli anni… Non sarà già di per sé mostruoso essere diventati così abitudinari, così ripetitivi? Con la smania di non fare quello che tutti fanno, si finisce per fare quello che tanti fanno… È un attimo, come sempre: pensi di rigare dritto, vivi la convinzione della piena consapevolezza delle tue scelte (e ne vai orgoglioso!), ma poi, ad un tratto, ti accorgi di essere scivolato nella fiumana e di essere nuovamente un trasportato dalla corrente. Che stanchezza…”

Fumò la pregustata prima sigaretta della giornata e, guardando dentro il camino ormai freddo, pensò nuovamente a Lelia, ricordò il modo in cui gli aveva chiesto la sveglia, con gli occhi semichiusi, le labbra senza più rossetto morbide e tumide dal piacere appena consumato, i capelli raccolti dietro le orecchie, i seni scoperti senza intenzione. Era quella Lelia, Lelia dopo l’amore, che sapeva ancora più d’amore, ancora più graziosa, anzi, solo allora, veramente bella.

 

Il cielo era bianco e fumoso, e tutto come in sospensione intorno. Aria gelida sul naso. Un chiarore diffuso e immobile a sbiadire i contorni, le sensazioni stesse. Il mondo pareva tornato in un’opacità primordiale, avvolto dalla caligine e liberato dai profili e dai perimetri. Come il corpo di Lelia, in fondo, in quel momento in cui gli era piaciuto di più: abbandonato, caldo e umido in un semisonno, e i suoi occhi velati a guardarlo.

Camminava lento, percorrendo il viale lucido di bagnato. Gli alberi si liberavano dal ruolo di arredo urbano e tornavano ad essere natura e bosco, in mezzo alla nebbia che si muoveva morbida in piccoli addensamenti. Le case di fronte, dall’altra parte della strada, non si scorgevano e l’aiuola non era più costretta a spartire il traffico automobilistico con uno sfondo di palazzi. Soprattutto, lo sfondo di cemento armato era sparito quel giorno.

Un po’ di serenità gli parve lì, fortunatamente, a portata di mano: una passeggiata, camminando solo, in un paesaggio diverso popolato di ombre discrete. Per una volta, tornare a percepire le cose con lentezza; ascoltare il mondo, oltre che con gli occhi e con le orecchie, delicatamente con la pelle.

Tutto sembrava più vero in quell’apparente dormire, tutto era più vivo, in sé e solo con sé, senza la pesante necessità di apparire, di manifestare i propri colori. La nebbia suggeriva al giorno la profondità della notte e del silenzio.

Lelia, quella notte, lo aveva toccato in fondo, ed una sottile paura accompagnava la constatazione di sentirsela dentro, di continuare ad averla radicata tra i pensieri. Aveva fatto l’amore con la testa: conosceva bene la differenza. Illusione di avere percepito l’irripetibile consonanza fisica e dei desideri, di avere colto l’irrintracciabile momento di perfetta corrispondenza tra corpi, e, alla fine, un’eco di stordimento che permane a lungo. E dopo, un vuoto che resta sotto lo sterno e ripropone in bocca il senso di un’assenza: l’assenza di sfiorare, assaporare, annusare ancora, sentendo il desiderio essere unico e uguale; la privazione di quel cercare di nuovo e continuamente, trovando e ritrovando quel che cerca e trova nello stesso istante…

Mare delle casualità necessarie: è un caso, sì, ma, verificandosi, diviene necessità! Era stato un caso, eppure doveva essere. Era stato un caso e, per questo, non avrebbe potuto non essere…

Sarebbe stato bello rivederla, ma, certo, non avrebbe fatto nulla perché ciò avvenisse. Era un caso e tale doveva rimanere, al contrario tutto sarebbe andato perduto. Tutto, in definitiva, sorge dal caos: tentare di determinare gli eventi, di fissare qualcosa, avrebbe significato tentare di imbrigliare il flusso vitale, pietrificare le cose, morirci dentro, e perdere il sogno…

Avrebbe comperato il giornale. Aveva la mattina libera e l’avrebbe trascorsa lentamente, lasciando che ogni cosa restasse nell’indefinito così come imponeva quella nebbia, così come suggeriva lo stato di rilassatezza appagata che gli si andava dilatando dentro.

 

L’edicola era a due passi, quando sentì una mano sulla spalla, e una voce: “Mario, come va...” e una figura, non ancora ben identificata, che si lanciava a baciarlo che nulla avrebbe potuto impedirlo. Tra un bacio e l’altro lo riconobbe e, istintivamente, per frenare il moto di disappunto che gli sorgeva spontaneo, partirono le solite frasi di circostanza: “Ah, carissimo... Tutto bene, tutto bene. E tu... che mi dici? In famiglia...”

Per qualche istante le parole si formarono e disposero autonomamente e le frasi si alternarono comodamente prefabbricate, in modo tale che, senza alcun impegno supplementare, poté osservarlo e ricavarne il solito senso di antipatia. Viso pulito, sbarbato di fresco, come sempre. Occhietti inespressivi e sempre fuori luogo in un volto che sa di stizze e di superbia. Capelli da immagine tivvù manager rampante, che sarebbe perfetto per le pubblicità dei biscotti, quelle con la moglie e coi bambini la mattina intorno al tavolo in cucina e il capo famiglia che arriva giacca e cravatta, ventiquattrore e giornali sotto il braccio, a sgranocchiare al volo tre o quattro frollini perché, si capisce, il suo tempo è assai prezioso. Un tipo perfetto, che piace, infallibilmente, alle zie e alle nonne. Abito firmatissimo, ma su di lui un effetto scialbo quadrato regolare.

Poi, anche qui in preda ad un qualche automatismo teso ad evitare di manifestare l’antipatia che gli ispirava, disse: “Ho saputo che ce l’hai fatta... che sei il nuovo direttore della…”

“Guarda, non me ne parlare!...”

“Bravissimo – pensò –, e così, ora, non me ne libero più.”

“…Ti dico solo che ho dovuto contendermi quel posto, che era indiscutibilmente mio! Cioè, era mio nel senso che sono lì da anni, ho fatto sempre del mio meglio, i risultati, di migliori, nessuno li aveva visti mai. Insomma, ho risollevato la baracca dal nulla e da solo. Ho centrato obiettivi che nessuno si era mai neppure sognato di intravedere. E, nel momento della nomina, ecco che spunta non si sa da dove questo tipo, di cui non si sa niente. In definitiva, un incompetente che si materializza dal nulla per cercare di fregarmi, solo perché ha dietro non so quanti e quali santi... Anzi, ora lo so. No no, non è stato per niente facile! Anzi, ti dico, che da questa esperienza ho imparato! Ah, se ho imparato! Intanto, a diffidare di tutti e… a non credere più a nulla. E, comunque, ho capito davvero perché il nostro Paese va come va. Questo tipo, per quel che ho saputo, non ha mai fatto un giorno lavorativo vero in vita sua. Ha sempre brigato per stringere amicizie, per farsi vedere, per mettersi in mostra. E, sai che ti dico? Questa roba paga. Più che fare, lavorare, realizzare cose, paga il mettersi in vetrina, in modo che si sappia di te, che esisti, che ci sei. Se no, nonostante quello che vali, quello che dimostri sul campo, quello che potenzialmente manifesti, resterai un dimenticato… Uno che nessuno ricorda, nel momento in cui è necessario che qualcuno si ricordi il tuo nome per suggerirlo all’orecchio giusto, e perché quell’orecchio lo percepisca come un suono noto… Se no, bello mio, puoi essere tutto, ma resti solo un anonimo, un dimenticato, un mai sentito, un suono ignoto. Quello, ti ripeto, non ha mai fatto niente, eppure, appena il suo nome ha cominciato a circolare, tutti lo conoscevano. Perché si diceva che, già, era amico di questo, era amico di quest’altro, era stato testimone di nozze di tizio, andava in vacanza con sempronio. E, tu immagina, così, di punto in bianco, me lo vedo spuntare che sta per farmi le scarpe.”

Ecco la stizza, eccola: la ricordava bene. E tutto quello scattare nervoso, poi, che accompagnava ogni suo discorso. Se lo ricordava proprio così, e così era rimasto, dal liceo. Scattava soprattutto la testa sopra il collo, tirandosi indietro, a ribadire distanza dall’interlocutore. E gonfiava il torace, mentre parlava di qualsiasi cosa, quasi sempre con acredine. Mancava che sbattesse i piedi e l’enorme bambinone capriccioso sarebbe stato completo. Un gallo cedrone, sì sì, ricordava un gallo cedrone…

“…Anzi, poi ho saputo che erano, questi santi, pezzi non grossi, ma enormi! Ma gliel’ho fatta vedere... Ti ricordi Mantella? Era al liceo con noi, due classi davanti? Non lo ricordi? Non so come descrivertelo… un po’ grasso già allora? Già una faccia da assessore democristiano? Rappresentante d’istituto, sì, è stato rappresentante d’istituto, mi sembra, quando noi eravamo in prima liceo… Comunque, adesso è deputato, ed era compagno di banco di questo soggetto. E con questo ti ho detto tutto! Aggiungi poi che, ho scoperto, in Italia i sindacati non esistono. Cioè non sono quello che uno s’aspetta che siano. Sono tutt’altro! Sono un’altra specie di consorteria, che gestisce la propria fettina di potere, ben intrecciata a tutte le altre consorterie. Tu lo sai: questo paese è sempre stato democristiano, e a quelli ti devi rivolgere, anche se non si chiamano più così, ed anche se non si sono mai chiamati così. Capito!? Qui c’è chi comanda e chi si illude di essere in un sistema di regole uguale per tutti. Il sistema si regge su questo: la maggior parte delle persone pensa di essere in un sistema di regole. Solo quando ci sbatti il muso, cominci a capire che le cose stanno diversamente: le regole reali sono quasi sempre il contrario delle regole scritte. È come un gioco in cui si è in troppi per giocare, per cui in pochi si accordano perché esistano delle regole apparenti nel rispetto delle quali non sarà mai possibile vincere, e regole segrete per giocare veramente fingendo di rispettare quelle da tutti conosciute. E questo soggetto qua, ti dico, un tipo viscidissimo, un trafficone… A vederlo, un tipo anonimo, non penseresti mai… Eppure, ammanigliato da fare paura. Poi, ho saputo cose di uno squallore… Ha sposato la figlia di Gavani. Sai quel costruttore che è stato coinvolto nello scandalo dell’area edificabile AGI (che pare si chiamasse così perché sulla carta era stata segnata l’area che doveva andare a lui con le sue iniziali A.G., Antonio Gavani)? Dicevo, ha sposato la figlia, una ragazza che ha sempre avuto dei problemi psichici, pare... Poi, pure d’aspetto, bruttina, strana, forse un po’ ritardata. Insomma, un matrimonio che era già tutto un programma. Gavani, come tutti i costruttori della zona, già certamente non era uno stinco di santo, ma, guarda caso, da quando è entrato in famiglia quel genero lì, l’impresa Gavani costruisce tutto lei in questa città, fino allo scandalo della lottizzazione che blocca il piano regolatore. Lui, Gavani, credo lo sai, finisce in galera, mentre il nostro amico, pulito, nessuno lo considera. Tieni conto che l’ex direttore della mia filiale, quello che è andato in pensione e di cui ho preso il posto, fu indagato pure lui a quel tempo, perché la mia banca, si diceva, si era troppo esposta e risultavano irregolarità nella concessione dei mutui all’impresa Gavani… insomma, senza garanzie. E il nostro amico, in tutte queste vicende, chissà com’è, resta sempre sullo sfondo. Ma la cosa squallidissima è che, finito lo scandalo alla solita maniera – Gavani sì e no si è fatto sei mesi, poi è morto d’infarto, e nessun altro, che io sappia, ha subito conseguenze, anche se sicuramente mezzo comune era coinvolto – il nostro amico lascia la moglie. Capito: lascia quella poveretta, che ora sta dalla madre. E ora vivono come due figlie di nessuno, chè tutti poi hanno mangiato attorno, dopo la morte del vecchio. Ma, per dirti, ha fatto tutto il suo interesse e poi arrivederci e grazie, così…”

Che splendido omettino: Mario se lo ricordava esattamente così. Era molto che non lo incontrava, ma aveva saputo da un’amica comune che era diventato direttore di una delle agenzie di banca più importanti della provincia. Per la verità, aveva saputo molto di più. Aveva avuto notizia di una serie di retroscena che riguardavano le connessioni politiche di quella nomina. Ed ora ne aveva conferma dal diretto interessato, anche se questi, naturalmente, non diceva tutto, non diceva le cose come erano andate nel loro complesso, ma la solita mezza verità. Non una falsità, ma una parte soltanto della verità. Diceva di avere capito perché il Paese va come va. “Capito”, diceva, ma in realtà non si trattava di avere capito, ma, al limite, di avere imparato quelle regole non scritte che sole, osservate, conducono a posti di potere. D’altronde tutto ciò si coniugava perfettamente con le sue peculiarità caratteriali di sempre. Costantemente alla ricerca di qualcuno da scavalcare, spostare, spingere nell’oscurità. L’attitudine alla sopraffazione pareva, in lui, particolarmente accentuata, accompagnata da certezze granitiche, indissolubili. Se lo ricordava bene al liceo, già arrogantemente seduto sulla sua convinta superiorità, ansioso di primeggiare e, all’occorrenza, di prevaricare. Mai aveva parlato di moralità, mai si era occupato di politica, mai si era impegnato per svelare il marcio che governava la loro città e che l’aveva devastata economicamente e culturalmente. Colpiva, in quel momento, sentire da lui dire certe cose. Suonava veramente singolare sentirlo parlare di uno degli scandali più dolorosi degli ultimi anni, come si trattasse di cosa nuova, venuta alla ribalta di recente. Tanto più perché Mario ricordava bene come reagiva fino a qualche anno prima se, tra amici ancora studenti, si fosse aperto un argomento del genere. Erano per lui, quelle, cose lontane dal suo particulare e, dunque, non esistevano. Stava per saltare l’intero sistema economico e politico della città, ma per lui erano soltanto chiacchiere, esagerazioni, strumentalizzazioni, maldicenze. Che del notaio Tizio, dell’ingegnere Caio, del commercialista Tal dei Tali si dicessero, ipotizzassero reati gravissimi, restava un problema di altri e, comunque, sarebbe stato meglio se tutto si fosse risolto in un nulla di fatto. Perché i professionisti e gli imprenditori di cui si parlava erano ritenuti la crema della città e infangarli, attribuendo loro fatti che tutti sapevano ma nessuno diceva, equivaleva ad innescare un sommovimento sovversivo, di per sé pericoloso. Di alcune vicende, inoltre, Mario si era occupato qualche anno prima quando, per alcuni mesi, aveva collaborato con un periodico locale. Aveva tentato, non tanto di fare emergere elementi nuovi, in quanto dalle indagini e dal sapere comune era già fin troppo chiaro il quadro d’illegalità in cui un ristrettissimo gruppo di notabili si era spartito l’intera città, quanto di innescare un dibattito che coinvolgesse le parti sane e silenziose della società in una sorta di ricostruzione delle basi dello stare insieme democraticamente. Ma quella esperienza naufragò nel silenzio della radicata e diffusa convinzione che, in fondo, le cose non sarebbero cambiate. Mario ne aveva incontrate di persone chiuse nel loro particulare, e la tesi era sempre la stessa: non si ritenevano danneggiati da quelle persone. Quello stato di cose, in fondo, non aveva inciso nelle loro vite. Certo, se erano stati commessi reati, i colpevoli dovevano essere puniti, ma, alla fine di tutto, questi di cui si parla a chi avevano fatto del male? Avevano fatto i loro interessi, ma chi non li fa? Mario abbandonò l’impresa, litigando con quasi tutti i collaboratori che, dopo il suo secondo articolo, avevano ribattezzato la sua rubrica “Dei mulini a vento”. Aveva tentato di parlare di una rifondazione delle basi comuni, ma aveva dovuto constatare che chi non partecipa al banchetto non vuole mettere in discussione il banchetto in quanto tale, ma solo trovare il modo di parteciparvi, prima o poi. È questa la ragione, in fondo, per cui tutti sanno tutto e nessuno fa niente, nessuno si indigna se non per occasionale sceneggiata. E, forse, questa è anche la dimensione più propria della stanca deriva del capitalismo, come già lo era stata della lenta agonia dell’antico regime. La dimensione del coinvolgimento della maggior parte degli individui nei desideri incarnati dai gruppi di potere. Coinvolgimento che fa specchiare la gente comune nella vita dei potenti mistificata e mitizzata. La formula del controllo sociale, d’altronde, appare proprio in questo paradossale fenomeno psicologico di riscatto onirico, che normalizza il sopruso e scarica la molla naturale della rivincita e della vendetta.

“…E poi, quando ho visto che la questione andava così, me le sono coperte anche io le spalle... Eh, pensava d’aver a che fare con uno sprovveduto... E poi, sai, non si sa mai... tipi del genere... minacce... dove siamo!?”

“Come, come? Ti ha minacciato? – si risvegliò Mario dalle sue riflessioni.”

“No no, non ci è arrivato, ma solo perché ha visto, perché ha capito... Si è accorto, insomma, che non poteva tanto fare lo stupido... Eh, l’ho messo bene sull’avviso. Non che gli abbia parlato apertamente, bene inteso, ma gliel’ho mandato chiaro il messaggio. Io sono convinto che ci avrebbe provato, prima o poi, con le minacce. Guarda... se lo vedessi... Pensa: dice che minacciò la moglie... Ora non è che ti sto a dire i particolari... ma arrivò a minacciare la moglie... Un tipo maledetto poi, caparbio... Tranquillo tranquillo pare lui, ma... testardo... e... non guarda in faccia a nessuno. Io credo che abbia lasciato la moglie per ragioni indichiarabili: particolari, ho saputo, d’uno squallore... Un tipo senza scrupoli... Cose che meglio che non ti racconto...e mo’ l’ha piantata. Eh eh, ma ha trovato pane per i suoi denti con me. E poi, guarda, non era assolutamente all’altezza... come ti dicevo: un ignorante... Solo spinte e conoscenze.”

Mario era scivolato sempre di più dentro ai propri pensieri. Il gallo cedrone era un fiume di parole sciocche intrecciate in frasi fastidiose, animate da una fisicità invadente e nervosa. Gli venne in mente un concetto che si ripeté più volte: ostacolo alla conoscenza non è il falso, bensì l’insignificante. Cioè a dire: la divagazione o il soffermarsi su particolari di nessun valore è il vero nemico della ricerca della verità, non la tesi scorretta e nemmeno la menzogna. Ciò che non ha significato resta nel nonsenso e ci lascia nell’impossibilità di trarci dalle nebbie. Però, se lo scopo non è la conoscenza ma la sopravvivenza, l’insignificante acquista il suo valore: consente al tempo di trascorrere, anzi, più precisamente, consente a noi di non accorgerci dell’avanzare del tempo, ci regala l’irresponsabilità, fuori dalla noia che darebbe la coscienza lucida dei secondi che si avvicendano implacabilmente uguali. I chiacchieratori da bar lo sanno, forse, meglio di altri: alla fin dei conti, siamo maledettamente fatti di puro tempo, siamo tempo che si consuma. Alternativa non c’è, se non fuggire l’ascolto del tempo, coprendo il rumore di fondo della vita con un rumore più forte: il chiasso dell’insignificanza che abbiamo attorno. Tutti fuggiamo in avanti per staccarci l’ombra di dosso, l’ombra che segna e fissa il nostro specifico tempo. I grandi parlatori lo fanno con le chiacchiere, che sono viaggio e rumore. Il tempo deve trascorrere senza manifestarsi. Così, il troppo insignificante che invade le nostre vite ci aiuta a far venir sera.

Come si può vegetare senza tentare di capire? Come si può vivere di certe cose, solo di certe cose, cose insignificanti, per le quali cinque minuti di riflessione sarebbero sufficienti per mostrarne l’inconsistenza? Eppure in ogni epoca c’è stato qualcuno che ha svelato l’immensa miseria umana, i suoi insuperabili limiti, e l’infondatezza delle illusioni su cui quella miseria edifica castelli di fumo. Ma ogni epoca ha avuto anche sempre la sua superba nuova fantasia, la sua rinnovata fuga in avanti, il suo superamento, incarnato dall’intramontabile avanguardista ottimista. Istinto di conservazione e rimozione… Anche l’umanità dimentica, rimuove per non lasciarsi attaccare e corrompere dalla sofferenza. Poi, di tanto in tanto, qualcuno riprende memoria, si sveglia dal sonno, e viene rapidamente abbattuto; qualcosa di spaventoso riemerge, come dal profondo delle coscienze dei più, ma subito viene soffocato e nascosto. Chi può credere che un giorno (quel giorno!) si raggiungerà la perfezione? Un vecchio di ottanta anni è forse infallibile? Sarebbe meno imperfetto a novanta anni? No, è semplicemente stanco, e più si inoltra nella senescenza più accetta l’idea della morte, e buon per lui se, in ogni nuovo giorno, sa come far venir sera.

L’umanità per non essere stanca è sempre adolescente. La sua attenzione protesa ora verso un fantastico passato, ora verso il futuro risplendente, non fa che abbandonarsi al sogno. Non ha memoria: la sua meschina convinzione che cinquanta o, al più, cent’anni fa si viveva nelle caverne, la rende arrogante e dura. Scoprire la validità del pensiero dei “cavernicoli” di oltre duemila anni fa sembra non cambiare nulla, resta una consapevolezza di pochi, non cola in tutti i suoi più ampi meandri, non permea diffusamente le coscienze. L’uomo sa ripetere le idee di Platone, Socrate, Aristotele, e quant’altri vuoi, con la stessa precisione con cui ripete le regole del “monopoli” e del “mercante in fiera”, ma non impara nulla, non vive ciò che ripete, e non s’accorge di non fare quasi mai un passo in più che altri non abbiano già fatto in vertiginose lontananze del tempo. L’inconsistenza della storia non sarà mai accettata. La storia è la bella favola che l’uomo si racconta da sempre e che, per questo, deve esistere. Per l’eterno sonno in cui l’umanità trova sollievo, la storia è molto più determinante della religione, la quale non potrebbe essere senza l’idea illusoria di un progetto in svolgimento.

A un tratto vide qualcosa nello sguardo e nei gesti del gallo cedrone, poi riprese a sentirne le parole.

“…Be’, quindi, ti ripeto: quando hai bisogno sai dove trovarmi. Non voglio rubarti altro tempo... Io, come vedi, sono arrivato… Ciao, e buon Natale!.”

“Ciao, ciao e... ancora auguri...”

“Grazie, grazie... Ci sentiamo... intesi?”

“Sì, sì...” Intesi: mah. Sempre il solito: altro che la vita insegna... ma che insegna? Come si è si rimane. Tutto nell’infanzia e nell’adolescenza, tutto lì è. Poi, così si è e si rimane. Freddo meccanismo di casualità. Libero arbitrio: fabbrica di fantasie. Marchiati da quei primi anni della nostra vita, e dai millenni dietro di noi. Se questo non avesse fatto così, se quello non avesse fatto colà: la Storia non è fatta di “se”. Fissità delle necessità casuali. Se Napoleone fosse morto a tredici anni... Se in Bruto fosse prevalso l’amore filiale... Oggi, ora, in questo istante cosa farei? chi sarei? dove sarei? e tutto questo intorno a me come sarebbe? Forse non sarebbe così e io... io forse non sarei così, forse non esisterei neanche. Io sono perché Bruto fu un inguaribile idealista e un patricida, perché fu così come fu secondo per secondo. Se un solo secondo della vita di Bruto non fosse stato quello che è stato io forse, e tanti altri, non saremmo mai stati. E tutto il tempo sarebbe stato differente… Ma che siamo? Secondi, secondi stati... e secondi da essere. Non abbiamo capito nulla, non capiremo mai nulla. Essere... piuttosto convincerci di essere. Vegetare per casualità di incalcolabili secondi fuoriusciti dal nulla, e, giocando, creare la vita.

Intanto, la nebbia restava appoggiata alle cose, restituendo un senso di pace. Alla fine dei conti, perché prendersela tanto a cuore? A che scopo mettercisi con tanta dedizione? Certo, fare delle considerazioni per impedire alla propria mente di adagiarsi su errori comuni (più pericolosi perché tali), sta bene. Ma, tutto considerato, niente di più avrebbe ragione di essere. La misura, deve esserci misura in tutte le cose…

Il gallo cedrone era così e sarebbe rimasto così, che puoi farci!? E poi la vita è fatta di tanto altro, e in questo altro c’è anche il momento del disimpegno e dell’egoismo. E, diciamolo pure: dell’inutile! Che poi l’inutile, forse, è come il caso: se è, è perché deve essere, e, dunque, non può essere inutile…

Comprò il giornale, ma lo ripiegò immediatamente e lo ripose in una tasca interna del cappotto. La mattinata, nonostante quell’incontro imprevisto, continuava a presentarsi piacevole. L’atmosfera permaneva propizia per il rilassamento. Gustare le illusioni, il sogno, le allucinazioni. L’uomo è così, fortunatamente: caleidoscopico. Forse, unica sua vera dote. Può essere serio, grave addirittura, razionale, sentimentale, passionale, freddo, calcolatore, istintivo, impulsivo, ironico, faceto, umoristico, sciocco, ridicolo, autoironico, adulto, infantile, angosciato, triste, pensieroso, lieto, contento, felice, bruto, spirituale, un masso, un refolo di vento… Guai ad essere in una maniera sola di queste! Guai costringersi in una sola scatolina! E, quel giorno, in quell’istante, improvvisamente, passando davanti ad una bancarella che spandeva incenso in mezzo a lucine natalizie, si sentì refolo, un refolo sciocco nella nebbia, un refolo sognante.

Foresta… Un cavaliere la percorre solitario. La sua testa è piena di fede, i suoi pensieri di cose religiose. È un vagante, un cercatore. La ricerca per la ricerca è l’importante, non l’oggetto della ricerca. Potrebbe stare cercando il Santo Graal, ma anche qualsiasi altra reliquia. In fondo, sta cercando se stesso, insegue tutto quanto gli sfugge di sé, tutto quanto non riesce ad afferrare del proprio esistere, ed è capace di mistificare ogni realtà nell’estremo tentativo di proiettarsi verso zone sovrumane ed inconoscibili. Perde tutto per andare sempre oltre, per slanciarsi verso ogni barlume di altrove, ma, alla fine, torna su se stesso e scopre di essersi appropriato di una dimensione nuova e più vera: forza centripeta dei poemi cavallereschi. Tutto si liquefa e schizza verso l’esterno per poi tornare tutto al punto di partenza, e raddensarsi, infine, in grumo compatto. Ma la tristezza del cavaliere che dà origine all’intero vortice è un mistero nero, la sua profondità labirintica è inebriante all’inizio, insostenibile subito dopo, come l’immagine riflessa d’una penombra specchiata. È un vuoto nel quale il fondo rimarrà invisibile, anche alla fine. Quel vuoto sembra avere generato ogni mondo possibile, ma in quel vuoto resta costantemente non colto il senso di tutto.

Ma, ringraziando il cielo, a salvarci da angosce estenuanti, ecco giungere un Don Chisciotte qualunque. Se non fosse scoppiata, alla fine, la risata liberatoria, la deflagrazione mancata avrebbe consumato anche le pietre, precipitate nell’orrido della follia. Ed ecco, infine, la strada diritta davanti a noi. Un solo senso. Un unico certo vedere. In superficie, finalmente, fuori da quel vuoto maledettamente attraente. Tutto il resto, compreso quel vuoto, da ridere! Don Chisciotte è inconcepibile senza Artù. Ma, parimenti inconcepibile è che Lancillotto resti puro. L’amore: altra valvola, altra via di fuga, altra strada nell’eterno ritorno di oscillazioni e fissazioni. Catena di fissazioni… sì, ma mai stabili. Altezze sublimi in cui si fissa l’istante, ma è già il momento della crisi, per poi tornare a sorridere, per poi nuovamente incupirsi e cercare ancora uno slancio. Ora si tenta di abbracciare il tutto, ora si sprofonda nell’immenso universo dei dettagli. Si gioca all’analisi ed alla sintesi: dal sillogismo, al sonetto, alla scienza moderna... Ecco perché l’uomo appare sempre vivo, in una continua ripresentazione di sé come essere ripetutamente nuovo, pervicacemente sopravvivente. Don Chisciotte viene quando il mondo ha fissato le sue regole ed ha cristallizzato le sue confortevoli ipocrisie, perdendo il senso, forse anche il ricordo delle cause che hanno determinato la forma delle relazioni tra gli uomini e degli uomini con le cose. La realtà è, ormai, condizionata dalle forme e gli uomini non fanno che sistemarsi in vecchie costruzioni realizzate da altri uomini, in altri tempi, per altre necessità. Non è più la vita a creare le forme momentaneamente occorrenti, ma le forme ad informare le esistenze. Una costruzione ardita e monumentale, ma ridotta ad un rudere, nella quale va a disporsi la città degli uomini: prestabilito, per ciascuno, il piano e la stanza che dovrà occupare, senza un perché, se non quello di non lasciare andare definitivamente in malora quello che fu un glorioso castello. Don Chisciotte irrompe in quelle stanze fatiscenti e le vede splendide e ricche di senso, il senso originario. Mentre chi vi abita è suddito dello squallore che, ormai, vi alberga, e non ne cerca la ragione. Nessuno vuole trovare la ragione di ciò che, nell’intimo, sente irrimediabilmente perduto, perché più facile e meno doloroso appare fingere che nulla sia mutato. Stando così le cose, Don Chisciotte compie l’atto di coerenza che manca: se tutto attorno è rappresentazione, accettata e difesa dal senso comune, si vada fino in fondo e sia, si reciti pure, ma senza sciatterie, con arte e al bando l’artificio! Don Chisciotte non può accettare la rovina a cui tutti gli altri si sono adeguati; prigioniero, tenta di vedere oltre le mura del carcere, e può soltanto vedere ancora, sentire il mondo quando ancora le cose, i fatti, gli atti, potevano avere un significato, prima di mummificarsi in morte forme. Don Chisciotte arriva lì dove tutto è diventato finzione e rappresentazione. Sente di dovere riportare il teatro in vita, e fa della sua vita un teatro. Ma quello che lui vede, forse, è la più vera realtà, in fondo; quello che lui vive, forse, è l’esistenza più autentica, svelata dalle forme false che normalizzano il mondo e ce lo rendono astutamente conciliante o perversamente tollerabile.

La rubrica “Dei mulini a vento”: così i suoi colleghi, al giornale, avevano chiamato i suoi interventi tesi a rimarcare, al di là degli aspetti penali, l’anormalità democratica costituita dall’accettazione diffusa e silenziosa del malcostume. Gli aspetti più preoccupanti del fenomeno non stavano nei crimini consumati e neanche nel profilo di coloro che li avevano commessi, ma nell’assoluta indifferenza in cui cadevano i risultati delle indagini e in cui, per anni, era caduta la conoscenza che già in città si aveva di quei misfatti. Considerare che il problema non fosse circoscritto al procedimento penale in corso era, per i suoi colleghi, un atteggiamento donchisciottesco, che vuole trovare grandi e nobili nemici dove non ci sono, che vuole ingaggiare gloriose battaglie su campi deserti. A Mario appariva sempre più chiaro, invece, che se tutto ciò era avvenuto, per anni ed alla luce del sole, mentre tutti sapevano e nessuno protestava, le responsabilità diffuse andavano indagate, approfondite, dibattute. Queste, infatti, rappresentavano la vera malattia che aveva infettato il corpo sociale, di cui i reati erano soltanto gli episodici frangenti di crisi acuta. Bisognava preoccuparsi di curare la malattia prima che diventasse cronica, e non soltanto di tamponare gli accessi. Avevano visto bene i suoi colleghi, anche se inconsapevolmente ed animati da tutt’altri intendimenti. Don Chisciotte? Sì, esattamente, Don Chisciotte! Perché c’è necessità di Don Chisciotte proprio quando l’ordinamento formale si isterilisce e, parallelo, si impone un ordinamento reale; quando le regole stabilite hanno perso il loro vigore, il loro senso fondativo, e restano come pietre mute dove, di tanto in tanto, si va a posare un fiore ed un pensiero nostalgico. Che ve ne siano di Don Chisciotte, dunque, quando pochi individui riescono ad imporre alla massa l’ipocrisia delle forme! E se i mulini a vento fossero davvero giganti oppressori? Se fossero esattamente come tutti i poteri occulti esistenti nel nostro Paese? Incombenti, eppure circondati dalle nebbie dell’indeterminazione; immobili, eppure onnipresenti, dotati di articolazioni lente ma inesorabili; apparentemente inanimati e neutri, eppure sempre determinanti?...

La nebbia stava diventando fastidiosa. Le mani, nelle tasche del cappotto, gli si erano gelate, ma sudando bagnavano il tessuto. Si sentì improvvisamente stanco ed annoiato, i piedi freddi, fuori posto. Decise di tornare a casa. Pensò che non aveva quasi niente in frigo e si incamminò verso il supermercato. Ancora una volta Lelia si infilò nei suoi pensieri. Sarebbe stato bello passeggiare con lei, magari passare dalle vie del mercato e fare con lei la spesa, lentamente, scegliendo tra i profumi e i colori delle bancarelle. Chiacchierando, tra un acquisto e un altro, pregustando i sapori tra la gente, carpendo scampoli di dialoghi avvolti dai richiami dei venditori. E, invece, era solo, fuori luogo, annoiato ed innervosito dalle mani che continuavano a sudare inzuppandogli le tasche di freddo. Tutt’altro era stato il sudore la notte passata, aveva esaltato gli odori del corpo. Ricordava di avere accarezzato lungamente i piedi di Lelia, umidi e morbidi, di averli cercati durante l’amplesso, di averli leccati. Ricordava di avere pregustato gli umori del sesso, di averne respirato l’odore e assaggiato il sapore, di avere desiderato che il letto ne fosse inondato. Perché aveva concesso tanto a Lelia? Perché si era concesso tanto? La voleva lì, voleva amarla ancora e mille volte ancora frugare nell’incavo delle sue natiche, leccare la sua saliva, annusare gli odori diversi della sua pelle…

Entrò nel supermercato con l’ansia di fare alla svelta, di tornare a casa il prima possibile, lavarsi il volto e le mani e riposare solo in un luogo asciutto e caldo. Quando era adolescente due ragazze avevano segnato la sua sessualità. La prima non lo baciava mai con la lingua: ricordava solo baci secchi e insapore. Spesso le aveva chiesto spiegazioni, ma non ne aveva mai ricevute e quell’assenza totale di umidità tra di loro aveva isterilito ogni sentimento. Si erano lasciati, un giorno, senza tante parole, che pareva non vi fosse mai stato nulla a tenerli insieme. E, forse, così era stato. Nulla era trascorso tra i due corpi, nulla di loro si era fuso, mischiato, confuso. Nello stesso periodo era stato, forse per ripicca, con un’altra ragazza che, invece, nei baci era stata sempre aggressiva: di quei baci a bocca aperta, fin troppo, il ricordo restava non di saliva, ma di acqua tiepida. Quella seconda ragazza aveva lasciato l’impressione del bagnato che non sa di granché. Parlava molto, senza dire niente e, quando si lasciarono, non servirono neanche le parole: semplicemente non si cercarono più. Due ragazze, due storie, due eccessi che gli insegnarono cosa poteva dire il sesso, la compagnia, il gioco d’amore senza sentimenti, compromissioni, pericolo di dolore. E, per contrasto, gli suggerirono cosa poteva essere un rapporto vero e intenso, pericolosissimo, ma saporito, ricco di profumi e violento di colori.

Le mani continuavano a sudare fastidiosamente, mentre non riusciva a scorgere prodotti commestibili, tutti, come erano, ben rinchiusi nelle loro plastiche. Del formaggio? Ma, confezionati, parevano tutti dello stesso sapore di nulla: avrebbe voluto quantomeno sentirne l’odore. Carne? No, ripensando allo strano sapore dolciastro delle salsicce dell’ultima volta. Voleva andare via, via subito. Passando dal banco frigo si lasciò irretire da una porzione per single di pasta alla bolognese. Fu conquistato dall’arancione dell’olio che aderiva alla plastica trasparente della confezione. Sapeva di unto, prometteva sapore e, soprattutto, dichiarava di andare d’accordo col microonde. Prese anche una bottiglia di Chianti, qualsiasi, ed andò alla cassa. Nessun altro in fila, per fortuna. Le mani della cassiera erano sporche. “Che schifo di mondo è questo?”, pensò, guardando il volto di quella donna sciatta che di donna non sapeva per niente. E pensò che doveva pur esserci un motivo nella vita di quella donna a determinarne l’oblio della femminilità, della minima cura di sé e del rispetto degli altri. Poi, ritirando il resto, provò una tristezza profonda, e una nausea che dilagava nel gusto che già sperava in bocca di quelle tagliatelle bisunte.

 

Allora! andiamo? No, non vengo. Come non vieni?! Vestiti, e fai presto, e non rispondere. No! non voglio. Ma tu guarda tuo figlio: non vuol venire. Hai capito! Anche a Natale vuol prender botte! Aspetta caro, aspetta. Come non vuoi venire, amore mio: vuoi lasciare la mamma. La mamma se ne va, e tu rimani solo. Vuoi rimanere solo? Tu hai paura di rimanere solo. No, non ho paura. Voglio... Non voglio venire! Non voglio... No! No! papà no! basta...

Maledetto! Sempre, sempre così! Picchiato selvaggiamente cercando uno sguardo che ogni volta sembrava sempre più assurdo, lontano, privo di senso. Subivo lo scatenarsi di una forza immensa, per me bambino, e totalmente irragionevole: come si può subire un improvviso attacco di un grosso cane che sfreni tutto il suo cieco istinto.

Come basta? Ne devi avere ancora, perché, se non si fa così con te, non capisci. Papà... no... ti prego... ti prego... basta...

Sempre così! Soffrivo, ma non per gli schiaffi, non per i pugni e i calci. Era il vuoto nel petto che mi aprivano quegli occhi stupidi ed estranei: terribile. Come scivolare in fondo a qualcosa con il mondo intero sopra che si richiude. I suoi occhi, quegli occhi mi facevano piangere: feroci e sempre più: più piangevo e gridavo pietà, più cercavo la carne della mia carne, più erano cattivi. Più chiedevo amore, più ottenevo lontananze spaventose. Non dovevo piangere, questo mi ripeteva, e continuava a picchiarmi. Non dovevo piangere, cercavo di impormelo ma non ci riuscivo, perché solo nel pianto poteva esprimersi la mia rabbia. La mia disperazione non lo toccò mai. Mai percepì la mia presenza. Mai sentì la mia angoscia e i mie tormenti. Eppure non volevo essere confortato. Soprattutto non volevo un nemico.

Questo era stato il natale della sua infanzia. Per anni, sempre lo stesso. Erano stati giorni pieni di doveri, ingombri di obblighi, perché così si deve fare, e non se ne discute. Sempre ed a tutto discapito delle sue ingenue speranze di calda ed avvolgente vita familiare. Più immaginava un natale di amore, di attenzioni, di coccole e, perché no, di doni e sorprese eccezionali, più era chiamato a rispettare ed interpretare le formule astratte di cortesia che gli adulti si autoimponevano, e basta! Non momenti di rilassato godimento delle cose più piacevoli, belle e buone, ma tempo di imposizioni, di impegni e di vincoli. Erano stati giorni pesanti di costrizioni, e di ribellioni pagate a caro prezzo, pagate con la moneta dell’ostilità, del risentimento e del rancore. Giorni intrisi di solitudine, mentre attorno fioccavano le parole melliflue e false dei bei sentimenti. Lunghi e profondi momenti di sofferenza per un mondo adulto, quello dei suoi genitori, che calpestava e devastava il suo piccolo e fragile mondo infantile. Doveva fare l’uomo! Sentiva ripetersi, ma era solo un bambino, ed avrebbe tanto voluto vivere serenamente quella sua età popolata di sogni e di teneri affidamenti, senza doversi misurare continuamente con le amare disillusioni a fronte del fitto reticolato delle ipocrisie degli adulti. E così, il presepe era la capannetta comprata già bella e finita, completa dei personaggi che devono esserci, e doveva stare lì, intatto, senza che ci si potesse giocare, senza che lo si potesse arricchire come in quei begli esempi di costruzioni ingegnose, dove, meraviglia!, c’è il laghetto con l’acqua vera, ed il ruscelletto con la cascatella scrosciante, ed il fabbro che batte il martello sull’incudine, e la sartina che cuce, e la cuoca che mesta nel paiolo, ed il mugnaio alla macina che gira per il mulino ad acqua, e le case lontane illuminate sul monte, e dietro il monte un cielo ben fatto che imita le varie luci del giorno ed il buio stellato della notte… No, niente di tutto ciò era mai stato possibile, perché il presepe era e doveva restare quel simbolo, quella capanna comperata non per giocarci, ma per essere tenuta sopra un mobile a rappresentare il natale. Tirata fuori dalla sua scatola e posizionata in bella vista in un istante, negando quei bei pomeriggi e serate che avrebbero potuto essere dedicati ad un giocoso lavoro artigianale di lenta e creativa realizzazione. Quel natale della sua infanzia era stato tutto e solo un fare ciò che si è sempre fatto e che si fa sempre allo stesso modo perché si deve fare. Come le noiosissime visite ai parenti meno stretti ed amici di famiglia: persone sconosciute o semisconosciute, cui, per dovere, mostrare affetto, cui rispondere alle solite domande sulla scuola o di fronte ai quali passivamente presenziare. Come i pranzi e le cene col menù della tradizione fatto, per lo più, di cibi sgraditi per un bambino. Come l’assoluto divieto di guardare la televisione, perché nei giorni di festa si deve stare in famiglia e parlare di cose allegre e riappropriarsi delle belle relazioni umane, e si deve stare a tavola finché ci stanno i grandi perché questa è la buona educazione. Come l’imposizione triste dei riti orrendi della religione. E non c’è quasi più spazio per potere giocare, sia pure da soli, in silenzio, per conto proprio. Quello era stato il natale della sua infanzia, con un’attenzione nei suoi confronti che era solo per i rimproveri ed i castighi… Non volevo partecipare a quel natale dei miei, non volevo, protestavo e trovavo incomprensione totale, suscitavo cattiveria, prendevo botte…

Accese una sigaretta. Non aveva ancora fumato in quel dopo pranzo che si era così pesantemente addensato di grevi ricordi. Il fumo gli parve particolarmente acre, troppo denso. Aria di chiuso, stantia, secca. Laringe rigida: come un groppo in gola. Un secondo tiro: fumo caldo rovente acido. Gola arsa. Basta! Niente fumo. Spense la sigaretta. Ancora: un nodo in gola, e un sapore dolciastro e allappante lasciato dalle tagliatelle arancioni da microonde.

Entravo in macchina. Stavo attento a non far rumore. Dovevo il più possibile non dare fastidio, non fare sentire la mia presenza che potesse riscatenare la belva. Dovevo non esserci. Ecco: sparire. Terrorizzato... no! no, non ero terrorizzato. Più ci ripenso, più mi pare di mettere a fuoco: ero schiacciato. Il mio intero orizzonte di bambino era come precipitato su se stesso. Solo: in me, come un punto nel vuoto. Sul sedile posteriore. Rappallottolato nel cappottino. Com’era comodo. Era bello, morbido ed aveva i miei odori. Guscio. Zitto. Zitto: respiravo piano e sottile. Basta ora! Voglio stare solo, pensavo, se il mondo adulto è una violenza così cieca e sorda, lasciatemi dentro di me. Qui, buono, nel mio esistere al di qua di voi. Pensavo alle botte. Vedevo gli occhi della bestia: odio. Poi ricordavo il vuoto esploso nel petto, e il ricordo era sempre meglio, perché la ferita c’era ma potevo leccarmela. Avevo sofferto. Soffrivo. Avevo ragione e il tutto fuori torto. Io soffrivo, lì, in silenzio; lui non avrebbe mai saputo soffrire... per causa mia! Quanto l’ho amato! Ero un bambino, non potevo non amarlo. Poi, imparai ad amare solo l’incomprensione e l’isolamento. Forse imparai ad amare solo me stesso, per difesa, le mie sofferenze... grandi e ingiuste. Non era giusto! Non è stato giusto! Non è mai giusto negare a un bambino di essere un bambino!

La nebbia era diventata una luce grigia sulla città silenziosa del dopo pranzo. Nel caldo della casa si lasciò avvolgere dal torpore. Un abbandono dolce, desiderato. Dormì per più di un’ora. Quando si alzò dal divano lo fece lentamente, tentando, in quel modo, di conservare la tranquillità che, ora, gli occupava il cuore. Andò alla finestra e tuffò lo sguardo, ancora pigro, nel buio rotto dalla luce dei lampioni.

Finalmente sera! C’è vento. La nebbia si è alzata e adesso è una cupola che riverbera, arancione, le luci della città. Le lampade sospese tra un palazzo e l’altro nelle vie più strette si sfrenano rimbalzando l’illuminazione di qua e di là. Fa freddo, si vede. Poca gente. I botti dei ragazzi si rincorrono continui, lontani e vicini. È presto ancora. Immagino tra qualche minuto, alla chiusura degli uffici. Tutti a fare compere... È tardi, siamo agli sgoccioli…

Andò in bagno. Sciacquò il viso saggiandolo lentamente tra le dita e nelle palme delle mani. Fresca sensazione di risveglio, nella casa però piacevolmente calda. Prese poi una tazza di caffè, freddo, di quello avanzato dalla mattina, solo per preparare la bocca ad una sigaretta. Pian piano, però, rimontava un certo nervosismo. Lo stomaco non era proprio a posto: le tagliatelle si erano trasformate in una digestione laboriosa e sgradevole. Avrebbe fatto meglio a cucinare qualcosa da sé, ma non ne aveva avuto voglia ed ora doveva tenersi l’acidità di stomaco. Va bene: si sarebbe messo in moto, sarebbe uscito, avrebbe camminato e tutto si sarebbe aggiustato, anche l’umore.

Vestì il soprabito e uscì di casa. Si frugò in tasca, ne cavò le chiavi dell’automobile. Vi salì. Un gelo fermo e duro sul sedile. Partì piano, con l’intenzione di fermarsi a passeggiare appena un posto lo avesse ispirato. Il natale sorgeva dai bui marciapiedi di periferia occupati da bancarelle di fuochi d’artificio e da gente dell’Europa dell’Est con la sua stramba mercanzia che suscita immagini di eserciti in rotta e di ospedali cadenti. Il traffico andava aumentando… Ecco: il ballo orgiastico e sacrificale. Folla, confusione, luci, aria fredda carica di profumi, di odori e di richiami. 18.30: corsa in maschera; flusso di vacue follie; vetrine luccicanti; esposizione di cibi intensi per gli occhi e inebrianti per i nasi; passerella di storpi; parata di coscienze zoppicanti; fiera di ansie ed angosce maldestramente tamponate; rassegna di rigurgiti di sofferenze.

Guardali... guardali... Impazziti... Nevrotici... impegnati in una danza sfrenata, senza più veri sogni o anche illusioni. Imbottiti, invece, di immagini e soprattutto di bisogni, cavati fin nel midollo dalla tivvù. Felici, però, anche se a comando: il calendario – giorni fasti e nefasti come al tempo dei Romani – prescrive anche i sentimenti e gli stati d’animo. Così, anche la fatica di scegliersi l’umore è risparmiata. Sono felici e tutti più ben disposti verso il prossimo, perché anche la bontà è da calendario. Un po’ avvoltoi, un po’ carogne, un po’ assassini, un po’ ladri, ogni tanto samaritani: ha il suo vantaggio, non ci si annoia mai. E, soprattutto, in questo modo, il calendario ha definitivamente abolito l’odioso onere della coerenza, che è diventato un pericoloso vizio: essere fedeli a se stessi prima che ad altri ed a garanzia di affidabilità per il prossimo è comportamento sospetto, da individualisti, tendente alla sovversione; in ogni caso, atteggiamento rigido e scomodo. E via coi regali! I doni... Si odiano, si detestano, si ammazzerebbero subito se non avessero una pavida coscienza inscritta che li fa muovere come un motorino a molla, ma più si odiano più si scambiano costosissimi simboli di stima. Per non parlare del fastidio di comprarli, questi regali! Gregge di ipocriti maledetti! Tutti perfettamente incasellati in spazietti cubici, regolari, impermeabili come la loro anima. Vita: la chiamano così. La mattina si svegliano con il “ti–ti” o “tititi–tititi” della sveglietta ultrapiatta, ultraprecisa, ultragiapponese, ultramaledetta. Si alzano eroicamente specchiandosi nell’aurora dell’efficienza. Fanno colazione (di quelle che fanno bene alla salute, per carità) e guardando il calendario appeso: “Cara, tra sei giorni è Natale: che regaliamo a quell’imbecille che deve farti quel favore? Ah, e poi dobbiamo anche fare il regalo a quel cretino... Come si chiama?... Che idiota comunque...” E poi escono di casa, tutti alla stessa ora, per inondare di traffico le stesse strade, per bloccarsi a vicenda, per pestarsi i piedi, alitarsi in faccia, respirare la stessa aria viziata, sgomitare strofinandosi gli uni con gli altri, calpestando i più deboli e fragili. PAZZIE! Pazzie... Teatro di miserie dove mai cala il sipario liberatorio. Fingere. Presentarsi e ripresentarsi...

Prese la prima stradina che vide buia per fuggire dall’ingorgo di auto e di gente sempre più fumoso, che godeva di stare lì bene ammassato, ben strettounito. Raggiunse nuovamente una zona un po’ periferica ma, in compenso, il silenzio e la calma. Ancora, su un marciapiedi a poca distanza, una bancarella che ricordava le feste e il rumore dei botti.

Desiderio di una passeggiata, di una sigaretta gustata nel freddo nero in cui brilla ad ogni tiro il tabacco bruciato, e l’odore dell’aria gelida. Un po’ in solitudine…

Accostò l’automobile, scese. Si strinse nel soprabito. Accese una sigaretta e prese a camminare lungo una siepe che gli parve umidodorosa, degli odori dell’inverno e non del natale degli esercizi commerciali.

Rumore dei passi sull’asfalto bagnato: un piacevole ritmo nel freddo silenzio della sera. Ogni tanto un po’ di vento. Profumi freddi, quasi impercettibili, vengono da quel buio disteso sulla campagna. La luce d’un lampione m’investe, ma solo per un istante. Torno a godere del vento che giunge scivolando dalla notte col suo brontolio ora cupo ora sibilante. Luna: a tratti nelle smagliature della veloce trama di nuvole. Un po’ d’umidità s’addensa e prende a fluttuare colpita dai tremanti fasci luminosi dei lampioni picchiati dal vento. Qui le macchine sono poche. È un vialone che, in questo punto della città, la delimita dalla campagna che è lì, dall’altra parte della strada, e si vede ancora e si sente, c’è, dentro quel buio che è un sollievo saperlo. Qui c’è almeno mezzo chilometro di marciapiede, fino alla rotatoria che poi si esce definitivamente dalla città, dove si può passeggiare senza temere di incontrare qualcuno che ti rompa i pensieri se hai qualcosa da pensare.

Qualcosa da pensare Mario l’aveva, perché ciò che era avvenuto la notte prima con Lelia, forse, non sarebbe dovuto avvenire. La cosa si stava rapidamente complicando e lui non si sentiva affatto preparato a gestire tutto quanto gli si andava ingarbugliando dentro. Che era come quelle nuvole nel nero che andavano, andavano e s’ammassavano senza ragione, tutte uguali nel grigio ma diverse nelle forme passando davanti alla gelida luna. Qualcosa da pensare l’aveva, ed era insieme piacevole e sgradevole. S’interrogava su quale aspetto fosse prevalente, ma non riusciva a fare un solo passo avanti in quella valutazione. Così restava come intontito, con una gran voglia, però, di riprovare quella oscillazione.

 

Ecco un bar, all’angolo di questo edificio. Prenderò un boccale di birra, e magari qualcosa da sgranocchiare, per sistemare lo stomaco. La birra ammazza l’unto, rinfresca i sapori pesanti e, a volte, alleggerisce i pensieri. Tira molte sigarette, questo sì, e fa orinare, ma non impegna.

Toh, sembra carino però! Vedo, al di là della velatura dei vetri leggermente appannati, tavolini di formica rossa dalle lunghe gambette in alluminio... esistono ancora. Anche pizza al taglio, dice un cartello, e panini caldi. Un’aria vecchia ma, tutto sommato, accogliente. Due figure giovani si indovinano al bancone, e parlano tra loro con il bicchiere in mano, aiutando il locale a sopravvivere alla sua età. Ad un tavolo d’angolo, addirittura una partita a carte tra vecchi con la bottiglia di birra in mezzo e il fumo di sigarette. Un vecchio solo, ad un altro tavolo, beve vino. La sua mano, stretta al bordo del tavolino, è bruna come le olive e la presa è vigorosa. Guardo con più attenzione e mi accorgo che quel vecchio non è un vecchio e lo conosco. Caspita se lo conosco… Sì, mi sembra proprio lui.

Si spostò dall’allucinato riverbero della luce del neon, ritirandosi nel buio. Cadde a sedere su un muretto basso. Nel pensiero l’immagine di quell’uomo: era lì, completamente rilasciato sulla squallida sedia e lo sguardo sulla bottiglia o su qualcos’altro davanti a sé. Con gli occhi socchiusi, gli era parso. Soltanto la mano sembrava viva ed energica. Una mano naturalmente bellissima, per la forma, il colore e le vene in rilievo. Una mano da gente vera che le mani usa tutta la vita per lavorare a contatto con le cose, artefatte o naturali, e che poi, ad una certa età, quelle mani mette in tasca, come aveva già fatto solo di domenica, e va in giro per il paese con in dosso, tutti i giorni, l’ultimo vestito buono. Una mano così, capitata però ad uno che l’aveva adoperata per sfogliare libri e maneggiare penne. Che l’aveva usata per delineare i percorsi del sapere, per individuare ed indicare orientamenti culturali, per porgere a fragili menti adolescenti i vertici del pensiero. Quella mano era stata convincente e rassicurante; aveva sfogliato il registro di classe senza diffondere ansie e paure. In quelle mani i libri erano sempre sembrati meno distanti dalla vita, come rianimati di sangue e carne. Degni di essere “maneggiati” e gradevoli al tatto.

Sì, era lui ed era lì, ad un tavolino traballante di uno strambo bar–pizzeria d’asporto ai margini della città. Solo, a bere vino ed a masticare i propri pensieri. Mario si ricordò che un qualche suo conoscente gli aveva parlato del “professore” un po’ di tempo addietro. S’era rincoglionito del tutto, gli era stato detto, s’era sputtanato con tre o quattro piazzate da alcolizzato a margine di alcune conferenze e presentazioni di libri. Aveva preso la parola e, dopo qualche riflessione che poteva parere anche normale, aveva cominciato ad insultare i relatori, i presenti ed anche qualche illustre assente. Insomma, in men che non si dica era diventato lo scemo della città. Un ubriacone, un cretino, un pericolo imbarazzante al solo scorgerlo in lontananza. E la cosa, purtroppo, gli era parsa credibile, anche se erano anni che non lo incontrava. Gli era parsa credibile, perché quel suo professore era sempre stato, in fondo, un bastian contrario, uno che faceva mostra di saperla sempre un po’ più lunga degli altri.

Ma allora è proprio vero!... Ricordo che spesso diceva ridendo sereno: “Smetteremo mai di prendere a calci la coscienza?”. E beveva parecchio, questo da sempre, e fumava tantissimo. Non si dava tanta pena per la salute. In verità, prendeva in giro un po’ tutti, ma sempre bonariamente, almeno così sembrava, “filosoficamente”. Smontava le certezze altrui e, con esse, le relative posture assunte, ma sempre con un dialogo dai toni leggeri e fraterni, tanto che nessuno pareva mai sentirsene travolto ed offeso. Ed infatti era circondato da simpatie e da un rispettoso riconoscimento, nonostante, in fin dei conti, sbeffeggiasse un po’ tutti e un po’ in ogni circostanza.

Ma sì, forse ha ragione lui, se la ragione ha senso in questo caso. Si sarà stancato di usare la gentilezza ed il garbo per affrontare la cocciuta ottusità. In realtà, mi ero sempre chiesto da dove prendesse la forza per quella apparentemente inscalfibile serenità con cui affrontava la pervicace cretineria che aveva intorno. Mah, alla fine, si sarà semplicemente stufato di affrontare “filosoficamente” tutta questa ignobile pagliacciata e, alla fine, se ne è tirato fuori. Capita di perdere la voglia di parlare, quando ti sembra di restare a parlare da solo…

Ventata gelida sul viso: respirare l’odore del freddo: aria dura sul naso.

Vado a parlargli e... magari riesco a fare due passi con lui. Potrebbe essere bello, dopo tanti anni, così, un po’ per caso, riascoltare quei suoi ragionamenti che ti spiazzavano sempre regalandoti la ricchezza, ogni volta, di una visione del tutto nuova su qualcosa che ritenevi non potersi vedere che in un modo solo. Certo, non mi sembra messo tanto bene. Anche qualcuno dei vecchi compagni del liceo mi aveva detto che ormai faceva una vita strana, randagia. Aveva anche lasciato la donna che sapevamo, quella da cui era andato a vivere dopo avere lasciato la moglie. Mi rendo conto di vederlo ancora con gli occhi del liceale, quando ci pareva essere uno dei pochi uomini liberi, un simbolo per l’adolescenza. Uomo libero… Una volta lo incontrammo con lo spazzolino da denti che gli spuntava dal taschino alto della giacca. “Di che altro hai bisogno quando dormi fuori casa… e non sai nemmeno in quale letto finisci…” ci aveva detto sorridendo con quel suo sorriso denso di ironia e, insieme, dolcissimo, quasi infantile. Ne avevamo eretto un mito nei nostri pensieri. Un uomo libero, veramente libero, l’unico che conoscevamo. Forse c’è che costano certe libertà… libertà radicali, da tutto e da tutti… e finisce poi che diventi miseramente un vecchio orso che non incute più alcun rispetto o timore e che neanche suscita pena, ma solo fastidio e disprezzo…

Entrò nel bar, provando un immediato disagio per la luce troppo chiara ed intensa e per il caldo fumoso irrespirabile. Il locale risultava particolarmente maleodorante, angusto ed opprimente.

Due ragazze, molto simili nei lineamenti, brutte, erano dietro il bancone. Sorridenti, coperte da quella peluria mascolina delle donne trasandate, parlavano ai clienti in quel chiarore al neon oleastro tra la caligine puzzolente che ti porti poi via per giorni sopra gli abiti.

“Cosa prende lei, signore?”

“Ah, sì, una birra in boccale... una spina media... E, senta... pago anche quello che ha preso quel signore, lì, seduto a quel tavolino.”

“È un suo amico?” facendosi seria e compunta, gli occhi acconciati a sguardo pietoso, cambiando totalmente fisionomia, come se avesse diverse facce pelose da adattare alle circostanze.

Gli ripugnavano, quasi come null’altro, quelle espressioni che molti sanno tirare fuori, così, all’improvviso, per fatti a cui sono del tutto estranei e verso i quali, invece, sembrano avere necessità di mostrare compassione. Che fastidio quegli occhi brutti e falsi... Il dramma dell’incomunicabilità... questo è! Chissà cosa prova davvero questa brutta ragazzotta? Niente di autentico, ovviamente: prova, anzi mostra di provare quanto crede di dovere provare in circostanze come questa! Cosa guardano i suoi inutili occhi? Mah, certo vedono poco, e molto offuscato da lacrime troppo facili… Chissà quante cose non guardano e non sapranno mai guardare…

“…Perché, sa?, è un po’ che il… “professore” viene qua... Lei lo conosce, mi pare di capire… Forse sa che… Insomma, è un uomo per bene… Non che crei il minimo problema… È per lui, più che altro, che dico… se mi permetto… Sa, la sera, quando chiudiamo, spesso mio fratello deve portarlo fuori quasi a peso morto. Poi, spesso c’è proprio di riportarlo a casa… Non si può lasciarlo solo, in quello stato, come un cane in mezzo alla strada… Insomma, capisce per… il decoro… del “professore”, dico… e anche un po’ per il nostro locale. Che, comunque, a vedere certe scene non è che invogli poi tanto la gente, no? Lei capisce sicuramente…”

“Sì, sì, ho capito.” La interruppe con un tono e un espressione seccata che non riuscì proprio a trattenere. E pagò, mentre il volto peloso e occhiuto s’irrigidiva risentito.

Eccole le comuni brave personcine: donnina insignificante che sorride a tutti per mestiere e senza rendersene più conto, probabilmente; guscio vuoto privo di umanità vera; occhi meccanici. Cercava il suo quarto d’ora di significanza: rappresentare compassionevolmente un “caso umano”, il “suo caso umano”. Chissà cosa avrebbe detto se l’avessi lasciata continuare: si stava tanto infiammando di carità nel suo teatrale interessamento. Con quell’aria grave che si era stampata in faccia per parlare di quel tipo lì da aiutare.

Prese una sedia e l’accostò al tavolo sotto lo sguardo, adesso, dolcematerno della ragazza pelosa. Non vuole rinunciare al suo quarto d’ora, proprio non vuole rinunciarvi.

“Salve professore!” Disse con voce ed espressione che si fecero repentinamente incerte nell’osservare i lineamenti mutati in quel volto, rispetto a quanto risultava nella sua memoria.

Non sbarbato, il naso ingrossato ed offeso da foruncoli e rigonfiamenti; gli occhi stanchi acquosi, protesi all’esterno tra palpebre avvizzite. Un colore grigio e verdastro sul viso, tracce rosse nel giallo degli occhi. Quel volto appariva malamente invecchiato.

“E tu chi sei?”

“Professore, sono io... Mario Prandi.” Si sedette, imbarazzato di fronte a quegli occhi che erano di vita faticosa, stanca ed indisponibile. Prese un gran sorso di birra per fare qualcosa. Si sbottonò il cappotto. Si aggiustò più volte sulla sedia. Alla fine, guardò dritto davanti a sé il professore per pretendere un riconoscimento.

“Ah, sì, vedo. Bene... e... cosa vuoi?”

La voce, il timbro, il movimento delle labbra parevano gli stessi, ma un’espressione nuova apriva una estraneità che Mario non si aspettava.

“Ma... si ricorda di me?”

“No! – e sorrise serenamente, quasi dolcemente – Che pretese… Come posso ricordarmi di te, se non ricordo neppure me stesso... Io non ricordo, preferisco non ricordare. Preferisco non fare questi inutili sforzi che divorano energia. C’è, poi, da considerare che la memoria è come un cumulo di terra o di sassi o di macigni, che non fa che aumentare il nostro peso… Io voglio essere leggero... Io vorrei essere un po’ più leggero. Capisci? Per questo non voglio ricordare, non voglio ricordare niente di niente... Anche se… non è che sia tanto semplice. Non siamo tanto semplici. Non siamo macchine col pulsante del reset. Questo è il guaio della raffinatezza – o della totale imperfezione – di quello che siamo. Non abbiamo pulsanti di ripristino puro e semplice. Eppure, quante volte lo vorremmo con tutte le nostre forze. Il rimedio, la reversibilità, la possibilità di tornare indietro e correggere o, più semplicemente, cancellare. Eh no! Non c’è questa possibilità. Ma quanto lo desidereremmo, quanto lo vogliamo!... Voglio, voglio, voglio… Più vuoi, più giri a vuoto, e più vuoi e più non sei... Tu, per esempio, sei qualcosa? Credi di essere qualcosa? Il tuo nome?... Credi questo? Eh, bello mio, se credi questo… Non sei altro che un’insegna... Chi ti ha dato un nome?... Certo, non te lo sei dato da te, te lo ha dato qualcun altro. Non ti sei dato, sei stato dato. Eppure, credi di essere, di essere così come credi, così come ti immagini di essere… No no, dammi retta: non sei, non esisti, ed è pure meglio se ci pensi bene, carissimo inesistente… Esistere è un atto di tale presupponenza… Quante risorse ci vogliono per supportare tanta arroganza?... Comunque, se ora sei seduto, qui davanti a me, se sei venuto in pace per bere e per offrir da bere, ben venga la tua compagnia. Vuol dire che per qualche istante esisterai. Sarai qualcosa, perché esisterai per me. Le risorse le spenderò io per farti esistere. Sarò il tuo dio e tu sarai la mia creatura. Ti trarremo per un po’ dal non essere all’essere.” Riempì il bicchiere e lo bevve con un solo lungo sorso. Inspirò profondamente, guardando Mario con un lieve sorriso, ancora una volta con la dolcezza d’un tempo. Stese le braccia davanti a sé ed afferrò saldamente a destra ed a sinistra i bordi del leggero tavolino. “Ah, il vino! Come negare il suo divino caldo sapore, unico amico fedele e traditore (sì, traditore, questo è vero… ma l’unico anche fedele… d’altronde le due cose vanno sempre in coppia), e lascia dir li stolti che l’acqua frigida credon ch’avanzi. A voce più ch’al ver drizzan li volti, e così ferman sua oppinione prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti. Ah ah ah, si dia credito almeno a Dante. Parlava sette secoli fa: vita bestial mi piacque… A voce più ch’al ver drizzan li volti. Ma, la vedi questa immagine!? A voce più ch’al ver drizzan li volti… Che potenza descrittiva… Una piazza gremita… facce, come punti fittamente accostati, l’una affianco all’altra… facce di quelli che mi destano maggiore antipatia… – tu mettici le facce che vuoi, io ci metto quelle che mi stanno sul cazzo – e quelle facce ad un rumore, il più sciocco, si volgono – di ver go no – tutte insieme inebetite nella stessa direzione... Hai mai riflettuto sul termine “divertimento”? Eh, quanto è usata questa parola! Divergere, e anche questo mi richiama quell’immagine e le parole di Dante. Caro mio, qui tutti divergono, divergono affannosamente, bestialmente attratti… continuamente dis–tratti da un suono, un rumore, un boato… da un lampo, da una luce nel buio... Fermatevi, no? dico io, e posate... Anzi, anzi, anzi… continuate pure, fate, fate come meglio vi viene, o come preferite. Mi fermo io… Mi fermo qui a bere qualcosa, e che il diavolo mi porti… BISOGNA RISPETTARE SE STESSI! tuona il mondo. No, lo senti? L’imperativo è ovunque, è unico, ossessivo: la cura del corpo! La costruzione del fisico, dell’immagine. Dobbiamo essere immagine accettabile, immagine vendibile. Quindi palestra, cibo selezionato, via tutto quanto intacca la carne. Privazioni, privazioni medioevali. Dobbiamo educare la carne per… venderla meglio al mercato quotidiano delle relazioni umane… che sono relazioni tra figure che si dispongono in vetrina l’una di fianco all’altra… Questo è il “rispetto di sé”…Tenere in piedi queste quattro ossa, se serve con accorte e meno accorte imbottiture, una pelle ben stirata e quattro fili di plastica che ti spuntano dal cranio. Devi solo fare finta di niente quando senti quelle urla. Eh sì, perché prima o poi tutti le sentono quelle urla. Quelle urla che si formano dentro lo stomaco, che ti assaltano da dentro, che ti squarciano la gola esplodendovi dentro! Di chi sono? Da dove vengono quelle urla? Che cosa urlano quelle urla? Silenzio, qui nessuno risponde, nessuno parla più, si aspetta solo che passino, che svaniscano come un incubo, che tornino nel silenzio…

Lo sai cosa ci vorrebbe, in realtà? Una rilevante quantità di denaro. Sta a sentire, la cosa è terribilmente semplice e il concetto banale, ma è la verità: domani ti svegli e ti trovi sul comodino un bel libretto con su scritto che hai in banca cento milioni o anche un po’ meno. Cosa fai? Puoi essere ancora disperato? Eh no, no certo. Cosa te ne frega del fine ultimo quando ti trovi in mano cento milioni... o anche meno? Spendi, spendi. Possiedi, possiedi. E fai star zitta la tua testa marcia. Questa è la vera conoscenza: conoscere le donne più belle (e lo puoi fare ché hai cento milioni o anche meno), puoi conoscere i posti più belli (ché hai sempre quei cento milioni), puoi attraversare tutte le esperienze di questo mondo... E quando hai capito (bada allora di aver finito i soldi) ti spari una pallottola in fronte, ed è finita la storia (tanto la storia deve finire comunque…). Sì, finita una sciocca storia, la tua sciocca storia, che non è né più né meno sciocca di quella di Federico II, intendimi bene! E invece no, noi fatichiamo per avere mezzo euro in tasca. E, per capire, dobbiamo prendere la via più difficile, la via al contrario: dalla tristezza alla felicità. Via impossibile! Invenzione! Balla! E, alla fine, non possiamo neppure spararci in testa. E lo vuoi sapere perché? Perché non hai gustato nulla, non l’hai posseduta la vita. E anche se sai che è uno schifo, un groviglio di rifrazioni, un maledetto caos senza senso, lo sai così, nelle idee, non perché tu l’abbia assaggiata tutta, divorata e digerita. Eh eh, siamo spacciati, caro mio, finiti e forse mai iniziati. Storie sciocche, vissute e morte scioccamente. Credi ci sia altro? No, è tutto qui. È semplice, in fin dei conti, oscenamente semplice! Ed è per questo che noi facciamo di tutto per farcela più complicata. Perché è intollerabile l’idea che le cose stiano in questo modo, così meschinamente semplice da essere del tutto insignificante. Questo è: è intollerabile essere insignificanti!”

Si riempì un altro bicchiere vuotando la bottiglia, e, questa volta, lo fece molto lentamente: Parve gustare il suono del vino e il suo lucente colore rosato. Alzò il bicchiere, pieno per metà, e i lineamenti del volto si distesero per un attimo, offrendo un’espressione ancora una volta indecifrabile: dolcezza e vuoto. Volto immobile, esanime. Muscoli e nervi senza vita, rilasciati, cascanti in un’immagine che si disgrega. E guardando ancora il bicchiere: “Questa è l’unica cosa...” Diede un sorso. “Non possiamo più illuderci, possiamo ridere di tutto mentre il sorriso ci brucia le labbra, mentre quel riso viene risucchiato dentro nel dolore. Siamo sassi lanciati nello spazio vuoto, in cui non c’è direzione: ogni linea, ogni traiettoria è esattamente identica a qualsiasi altra possibile. Lanciati e fermi allo stesso tempo. Con l’ansia di orientarci nel nulla, con la necessità di ripetere tutte le misurazioni in ogni istante, perché ogni secondo siamo in un punto diverso, siamo altro da quello che eravamo un secondo prima. Il timore di perdere quel secondo prima e tutti i secondi che sono stati… Senza un vero orizzonte. Hai presente il sole di mezzanotte? Così, quella è la nostra vera condizione: immutabile, allucinante. Non c’è vero trascorrere di niente, non c’è alcun reale cambiamento se non dentro la nostra testa, che si costruisce caparbiamente un movimento, una meta da raggiungere; un percorso di punti disuguali, che invece sono sempre nello stesso punto. Il giorno diverso dalla notte, le settimane, i mesi, gli anni, non esistono, non ci sono, non hanno verità… Come uno stupido orologio automatico i cui meravigliosi ingranaggi girano e girano su se stessi per non muovere, alla fine, nulla. Come sassi, duri e stupidi, abbandonati nel vuoto, a costruire un pieno che non è, disorientati, disallineati in ogni istante dopo il precedente. Impossibile cogliersi: cogliersi sarebbe morire, precipitarsi dentro irrimediabilmente… irreversibilmente…”. E qui tacque e, appoggiatosi pesantemente sul tavolino, chinò la testa e rimase così immobile. Era sparito anche quella specie di sorriso che gli dava ancora sempre dolcezza. Ora quel volto sembrava essere solo linee ed angoli.

Chissà cosa vede la sua mente?... Parlarsi... boh!... Chissà che pensa davvero, ed io che cosa dovrei capire dalle sue parole, che cosa dovrei cogliere nelle sue parole. Ognuno ascolta e comprende quello che vuole, senza accorgersene, naturalmente, per sé, a difesa di sé. Siamo sfere impenetrabili e, certamente, non nel migliore dei mondi possibili. Chi potrà mai capire; chi potrà mai comprendermi?... Comunione delle anime: che fantasia! Comunione dei corpi, questa forse sì, momentanea, occasionale, determinata dalla onniconnettiva legge universale della perpetuazione. Pensare quante matte fantasie abbiamo costruito sopra un impulso meccanico…

“Professore, vuole che l’accompagni a casa?”

Non si mosse per qualche istante. Poi alzò gli occhi su di lui: “Io adesso vado a pisciare: è il sacro corpo che lo richiede. Tu, intanto, fa’ il piacere di andare. Torna pure nel non essere. Dai retta a me…”

Mario seguì con lo sguardo il professore alzarsi lentamente ma senza indugi, tirarsi in piedi dritto, alto in una figura vigorosa. Lo seguì, ancora, mentre apriva una porta per poi richiuderla dietro di sé. E pensò di lasciare la cosa alla madreteresa dei bar che sembrava trarre un gran gusto, in fondo, dall’occuparsi del “professore”.

S’alzò e uscì dal locale. Gelo sul viso. Piedi freddi. Accese una sigaretta. Salì in macchina, mise in moto e si avviò verso casa senza pensarci, senza pensare quasi: la birra faceva il suo rilassante momentaneo effetto. Mente libera: leggerezza, di cui ci si accorge poi, quando viene a mancare.

Giunto a casa, però, l’idea d’essere lì non lo infastidì: l’incontro con quel suo professore del liceo aveva lasciato una sensazione sgradevole. Lo ricordava come un uomo dall’intelligenza inusuale, capace, attraverso un particolare, di illuminare problemi di qualsiasi tipo, da quelli storici a quelli filosofici, da quelli letterari a quelli di cronaca. Soprattutto, sembrava una persona che sapeva vivere meglio degli altri, più intensamente, con consapevolezze diverse, sereno… Ora, la vita del professore non sembrava più quel che era parso a quei liceali di un tempo…

Si sedette accanto al camino ancora caldo. Brace rovente. Scintille. Scoppiettii. Rianimò meccanicamente il fuoco. Rosso, giallo, azzurro, blu, nero. Vita. Movimento. Divenire. Desiderio di partecipare a quella energia. Potenza, movimenti arcani, forze misteriose. Cos’è questo uscire dal nulla delle cose… per essere?...

Rimase lì, ipnotizzato dalla fiamma che sgorgava da chissà dove, per molto, assistendo allo scorrere indipendente dei suoi pensieri, quasi immagini continue: correre di luoghi, persone, fatti, parole. Pian piano la mente sembrava aprirsi, vagando, su uno spazio infinito di afflizione – quel consumarsi per essere vita… e la grande presupponenza dell’essere… – eppure rassicurante, forse abbracciava e intuiva qualcosa, forse girava e rifluiva su se stessa; si ingannava o forse coglieva per un attimo, un secondo inafferrabile… Ed il pensiero era leggero in quei momenti, si dipanava rapido, sorgeva come dal nulla ed accoglieva tutto, per poi smarrirsi. Lui era lì, immobile, gli occhi inanimati, l’espressione del viso indecifrabile.

Non spesso cadeva in tali stati di meditazione. Giusto definirla meditazione? Mah... Forse, meglio dire visioni? Certo è che c’era in quei momenti un abbandono della coscienza ad una sorta di autonomia cerebrale. Momenti che lo avevano travolto da ragazzo, e che, poi, dopo l’adolescenza erano diventati meno frequenti. Quei momenti, ancora oggi, non mancavano d’angosciarlo nel momento in cui, svaniti, restava di loro ancora un’eco, un senso sul quale bisognava riflettere. E quando questo senso, quasi un alito, un soffio profondo, s’accostava naturalmente a ciò che definiamo realtà, si rivoltava in un istante d’assurdo devastante. Un istante che svaniva immediatamente, perché, quasi avvertendo istintivamente un immane pericolo, il fisico rispondeva meccanicamente a quello che era un patimento interiore: s’alzava bruscamente se era seduto; se era in piedi, lo sguardo assente, prendeva ad interessarsi di qualcosa, qualunque cosa, freneticamente. A volte aveva tentato di capire, di spiegarsi... di dare un significato a quella intuizione di un tutto che, in un attimo, precipitava nel nulla. Inutile lotta con la vertigine, con la paura? Subito sfiancato, era respinto, rigettato nel reale, nel continuo stordimento, nella normale continuità. Come fare? Che fare? L’inquietudine e il turbamento eccessivi diventavano essi stessi narcotizzanti. Tutto in un attimo era dimenticato. Tutto finiva. Tutto era perduto. E, forse, era meglio così...

Si alzò: decise di rituffarsi tra la gente, voleva rotolarsi nella fiumana caldodorosa di persone gioiosofestanti... Partecipiamo... sì... a quel tripudio... “Divergiamo”. Aveva, in fondo, bisogno di piccole cose in quel momento, di piccole care cose rassicuranti…

Giunse in centro ma dovette tornare verso la periferia per parcheggiare l’automobile. Tutti i parcheggi traboccavano di autovetture.

Lasciata l’auto, s’incamminò verso il centro. Il primo tratto di strada risultava deserto di pedoni. Poi, quasi improvvisamente, si trovò immerso in un fiume di gente. Si procedeva a stento. Cominciò a provare un fastidioso disagio... Era come essere fuori posto. E d’altronde lo era, lui che di quel baccanale non voleva fare parte. Era nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, con lo stato d’animo incoerente con tutto quanto viveva fuori di lui. Non aveva da fare regali, o, in generale, compere collegate con le festività. Non era lì per gioire con altri di non si sa che cosa… Detestava quelle carnevalate, ed ora ci si era messo dentro… Era solo, ecco il punto. Tutti camminavano in compagnia, ridevano, si tenevano stretti, ondeggiavano, si fermavano, ripartivano a stento… e lui da solo. Come quando vedi un cane randagio capitato in mezzo ad una folla. Spaurito, disorientato, nell’indifferenza pericolosa degli umani. Che ci faceva da solo, isolato? E, per questo, preda degli sguardi altrui. Così si fermava davanti alle vetrine e fingeva nervoso interessamento come a gridare a quella folla: “Sono qui per una commissione importante che voi non sapete! Sì, sono qui perché ho urgenza di fare un acquisto... cosa mia, che non vi riguarda... fatevi gli affari vostri una buona volta!”

Terribilmente indispettito, era sul punto di cercare un pretesto per tornarsene a casa e rinchiudersi. Le mani avevano ripreso a sudargli fredde nelle tasche del cappotto. Quando vide, tre o quattro persone davanti a sé, Milvia: la sua giustificazione! Milvia, che non mancava di esserci nella sua vita per accarezzarlo ed asciugarlo quando era fradicio di solitudine… Milvia, una sua vecchia e cara conoscenza. Milvia, che avrebbe desiderato averlo come suo uomo da sempre (almeno, così pensava lui), ma che nulla aveva mai fatto per forzarlo. Milvia, che lui amava amare con passione ricorrente, di tanto in tanto, senza contrarne obblighi. Una sua amica, vera, ma anche amante. Donna non particolarmente bella, ma di una affascinante intelligenza e sensibilità. Attraente per la cura raffinata ed infallibile della propria figura. Ricordava di averla trovata irresistibile anche in una occasione in cui l’aveva incontrata intenta a correre: indossava un completo sportivo di ottima qualità, alla moda, che lasciava scoperto l’ombelico ed esaltava la perfezione dei seni, le torniva le coscie e si incavava nel pube alla perfezione, disegnandole sul didietro un culo perfetto; in testa aveva una fascia per i capelli bianca che le contornava il volto esaltandone i lineamenti aggraziati, ed emanava anche allora un profumo conturbante. Donna costruita con tutte le fragranze, le malizie e le astuzie della femminilità artefatta. Dalla pelle fresca, rosea, aromatica sempre pronta per essere carezzata ed esplorata con le labbra respirandone piano, ma avidamente, gli effluvi di quei cosmetici inebrianti. Il viso stupendamente disegnato dal trucco sempre impeccabile. Amabile nei gesti, anche nelle circostanze più turbolente. Figura da romanzo, donna da poesia, femmina per inchiostro e sogno.

La raggiunse. L’abbracciò. E si lasciò scivolare in quel suo sorriso accogliente che non lo tradiva mai. Corpo magro ma flessuoso. Sotto il giaccone a mezza gamba, ben tornito in vita, sentì la levità di quelle morbide forme impregnate dal fluttuare caldo del profumo che ricordava bene. Vento rigenerante e rassicurante. Desiderio di toccarla, abbracciarla ancora, stringerla a sé.

“Milvia, saranno due mesi che non ci sentiamo!”

“Beh, non venirlo a dire a me. Potevi anche farla una telefonatina... Ma, già, tu non chiami mai…” Voce ed espressione atteggiate ad offesa, ma come per gioco. Abile lei. Sguardo imbronciato da bimba. Che grazia! Che maestria! Anche tutto questo la rende adorabile. L’amo!

“Ma sai... gli impegni… gli impicci… gli affanni di una vita complicata…”, disse teatralmente, sorridendo infine, e tuffandosi ancora in quegli occhi così ospitali…

“Sì sì, basta. Non accetto scuse, e tu sai bene che neanche ce n’è bisogno. Se volessi dare credito a tutte le sciocchezze che, all’occorrenza, sei in grado di raccontare…  Ma sai che puoi sempre farti perdonare. Ora, almeno per cinque minuti, non scappare... Accompagnami un po’.”

Lui sorrise di nuovo, ormai radioso, accentuando l’intensità dello sguardo, sicuro di piacerle, e già pregustando quel gioco che andava a ricominciare.

“Cosa facevi in giro tutta sola?”

“Compro regali. Domani sera sono a cena dai miei e devo pensare a tutti i nipotini, capisci?”

“No.”

“Sono una zia, come fai a non capire… E, in quanto zia, anche un po’ befana.” E il suo sorriso s’impregnò di sensualità, contando certo in una risposta che le confermasse la sua avvenenza. Lui invece le passò una mano sulla spalla, la strinse e le sussurrò in un orecchio: “La befana è impegnata stasera o può fermarsi a casa di un povero bimbo solo che, per l’occasione, potrebbe prepararle una bella cenetta?” Gioco d’amore, scaramucce, “Contrasto” di Cielo d’Alcamo: finzione ancestrale.

Lei sorrise raggiante, comunicando così le sue promesse.

Divertimento antico, originario. Apertura al mondo, gioia di includere ed essere inclusi. Desiderio dell’universo altrui. Smania di naufragio, di dispersione in dimensioni sconosciute. Aspirazione ad uno scioglimento in caldi mari lontani. Sogno d’ogni pulsione profonda. Ci sfioriamo, ci tocchiamo, annusando i nostri tepori, divorando i nostri sapori. Ci abbracciamo, rincorrendo l’occasione per sentire il peso del corpo altrui, per non avvertire più il peso del nostro. Attraversare, penetrare, possedere mondi sconosciuti. Per generare nuovi mondi. Ecco l’eterno autoinganno del gioco, del cerimoniale, ecco lì il piacere! Recitare, recitare sempre una parte, anche per amare una donna. Recitare e rappresentarsi. Ripresentarsi secondo dopo secondo. Continua necessità di ricollocarsi, di riapparire, rimanifestarsi, rinascere e giustificare la propria impermeabile presenza. Per se stessi? Per divertire se stessi? Sì, prima di tutto, buffoni di se stessi... Gran virtù, questa! Essere in grado di piacersi allo specchio! Chi non riesce ad allietare se stesso – sapendo assistere allo spettacolo che dà – deve essere disperato, tuffato negli altri e trasportato dalla marea delle sensazioni non sue. Essere protagonisti davanti a sé, prima di tutto davanti a sé. Come un attore di teatro, primo ammiratore di se stesso: prova e riprova fino a che si piace. Quindi, ad un certo punto, sa che piacerà. E, allora, convintamente, porta in scena il personaggio. Ma senza mai poter sapere se finisce in tragedia o in commedia o, come più spesso accade, in anonimo dramma…

Mario si strinse a Milvia e sentì che quel suo natale portava nostalgie: per tutti gli universi attraversati e perduti, per tutti i mari in cui si era bagnato per poi tornare velocemente a riva ad asciugarsi, per tutti i tramonti in cui si era dissolto senza attendere la notte. Per tutti i giganti in cui aveva creduto di scorgere i mulini a vento e che, per questo, aveva rinunciato a combattere. E, infine, sentendo davanti a sé i giorni di ferie, ricordando la notte trascorsa con Lelia, immaginando le ore che avrebbe trascorso con Milvia, pensò che anche quelle nostalgie erano, ora, un nuovo mondo liquido ed accogliente, in cui sarebbe stato “dolce continuare per un po’ a naufragare”…